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La salute di chi assiste

Aiuti esterni e prevenzione a sostegno del caregiver

Per prevenire la depressione  (prevenire il burn out)  è necessario che il caregiver possa contare su qualcuno in caso di bisogno (familiari, amici, istituzioni, ecc) anche per controllare l’ansia causata dal dover vigilare costantemente la persona malata nel timore che, da un momento all’altro, succeda qualcosa di grave.

Sul piano fisico si riscontrano:

  • maggiore vulnerabilità alle malattie
  • aumento della pressione arteriosa
  • assenza di esercizio fisico
  • alimentazione ridotta
  • disturbi del sonno

Alcuni caregiver sono in grado di adattarsi gradualmente ai cambiamenti che derivano dalla progressione della condizione patologica dell’anziano, mentre altri manifestano continui e crescenti livelli di preoccupazione (Taccani, 1994).

Per concedere pause di sollievo ai familiari si possono attuare diverse strategie:

  • Un ricovero temporaneo
  • l’erogazione di un servizio di assistenza che consenta spazi liberi quotidiani programmati
  • colloqui individuali con uno psicologo
  • interventi di educazione sanitaria
  • gruppi di supporto.

La partecipazione a gruppi di mutuo aiuto, di cui si accennava sopra, aumenta il livello di conoscenza della situazione, riduce significativamente la depressione e favorisce un aumento della coesione e partecipazione all’interno della famiglia stessa (Trabucchi, Zanetti, 1999).

Nel caso del paziente demente è essenziale che lo specialista trasmetta alla famiglia informazioni adeguate sulle terapie e sui comportamenti da tenere, informazioni che possono essere fornite anche in ambito di gruppo. Infatti, anche nel caso di congiunti di un paziente demente può prevedersi la cosiddetta modalità della family conference, una riunione col paziente, i congiunti e i membri del team geriatrico interdisciplinare per discutere la situazione e attuare la terapia opportuna. Tale riunione, oltre a portare un beneficio terapeutico ed informativo, può definire chiaramente il piano di cura e l’apporto responsabile di ognuno. Inoltre può permettere di

  • migliorare la qualità delle cure
  • osservare e identificare i comportamenti normali e patologici del paziente, ma anche le dinamiche paziente-familiari e fra i familiari stessi
  • informare la famiglia sulla malattia del congiunto, le opzioni terapeutiche, gli esiti
  • educare la famiglia all’uso di supporti formali e informali della comunità
  • risolvere eventuali conflitti tra parenti

Normalmente la valutazione dei gruppi di supporto è limitata principalmente all’analisi dei singoli casi, alle impressioni e alle esperienze personali, tuttavia i pochi studi di valutazione globale dei gruppi hanno dimostrato un impatto positivo da parte dei membri. Alle difficoltà della famiglia si cerca di rispondere, da parte della rete di supporto formale anche con nuove modalità, come ad esempio la respite care che prevede la possibilità, sia a domicilio del paziente sia in ambito istituzionale, di sostituire nel ruolo assistenziale il caregiver con un operatore professionale. Tale servizio può variare, nella durata, da alcune ore ad alcuni giorni comporta benefìci sia per i familiari che per l’anziano. Da una parte i caregiver hanno la possibilità di riposare ed avere del tempo a disposizione per se stessi, dall’altra il congiunto ha l’opportunità di ritrovare il familiare più riposato, quindi più disponibile. I programmi di respite care hanno l’obiettivo di ritardare il più possibile l’istituzionalizzazione dell’anziano (Stokes, 1990).

I servizi di home care ( ADI ) sono utilizzati per supporto nelle cure personali o per attività domestiche in modo tale che il caregiver principale possa prendersi una pausa. Alcuni familiari rifiutano l’offerta poiché talmente coinvolti nell’assistenza da non gradire il coinvolgimento di altri, anche se operatori professionali, tuttavia l’assistenza domiciliare, per evitare il rischio di un’eccessiva medicalizzazione o infermierizzazione della famiglia, deve essere programmata non per, ma con la famiglia (Rossi, 1992).

Sintetizzando, si può affermare che un aiuto esterno per l’igiene personale dell’anziano, la pulizia della casa o la preparazione dei pasti non è sufficiente a sostenere il caregiver perché egli ha anche bisogno di un intervento psicologico: ha necessità di poter esprimere le proprie emozioni, legate al vissuto dell’essere caregiver, non solo come sfogo, ma anche come ricerca di senso, come scoperta o riscoperta chiara delle motivazioni sottese alla propria decisione di presa in cura. Il caregiver sente la necessità di comunicare con gli altri, di condividere l’esperienza e gli stati d’animo anche con persone che vivono la stessa situazione, di lasciar emergere i bisogni psicologici e anche quei pensieri normali, ma vissuti spesso con forti sensi di colpa, relativi al desiderio di rallentare o di porre termine ad un impegno di cura. In questo senso, anche un gruppo di mutuo aiuto può offrire l’opportunità di ritrovare energia e risorse psichiche per affrontare e gestire al meglio il pesante compito.

Altro intervento a sostegno del caregiver è il riconoscimento sociale del suo impegno: la gratificazione intrinseca all’atto dell’aiutare, rafforzato dalla gratitudine di altri, serve come “nutrimento” per la propria autostima, rinforzando, in termini positivi, l’immagine di sé (Facchini, 2006). La percezione dell’essere attivi nell’aiutare persone che sono in un reale stato di necessità ha effetti migliorativi sullo stato di salute mentale di quanti forniscono aiuto nella misura in cui avviene un riconoscimento sociale di questa azione.

Rispetto agli aiuti provenienti dall’esterno ed al coinvolgimento emotivo che si instaura con la persona che si assiste, esistono diversi approcci. Ci sono caregiver che si avvalgono di aiuti esterni nello svolgimento di alcune funzioni, quando i servizi socio-assistenziali collaborano ma, spesso, il rapporto con tali servizi è di delega più che di collaborazione:

il caregiver viene considerato come una risorsa dagli operatori socio-assistenziali che utilizzano la sua presenza per giustificare la mancata assistenza da parte dell’Ente pubblico.

Il caregiver può essere visto come una persona le cui esigenze, pur riconosciute dagli operatori socio-assistenziali, sono subordinate a quelle dell’Ente che dovrebbe erogare il servizio.

Per sostenere il caregiver è necessario

  • accogliere la sua disponibilità a collaborare in progetti definiti insieme, ponendolo nella condizione di poter scegliere quali responsabilità voglia assumersi in relazione alla persona non autosufficiente
  • riconoscergli il diritto/dovere di ricevere il sostegno e la formazione necessaria per affrontare situazioni del tutto nuove e quasi sempre lontane dalla propria specifica professione o lavoro

Soddisfare i bisogni di empowering

Per rafforzare e valorizzare il ruolo di caregiver occorre soddisfarne i bisogni di empowering e prevenire il burn out. Operare secondo la metodologia dell’empowerment (Piccardo, 2001) significa riconoscere alla persona le risorse di cui dispone e fare il possibile per accrescerle, svilupparle ed utilizzarle per risolvere i problemi che gli si presentano con sufficiente controllo sul proprio coinvolgimento emotivo, operando al meglio e riconoscere ufficialmente che il ruolo che sta svolgendo è socialmente utile.

Solo quando il lavoro di cura farà parte di un sistema culturale nel quale sia il ruolo del caregiver sia la posizione dell’anziano assumeranno significato e qualità positive, allora i bisogni di empowering verranno effettivamente soddisfatti. Riconoscimento e rispetto per l’azione svolta nei confronti dell’anziano incoraggeranno e rafforzeranno il caregiver e la famiglia nel far fronte alle inevitabili e crescenti difficoltà.

 

Tale impegno, svolto con competenza e capacità organizzative, ha bisogno di essere riconosciuto:

  • le espressioni di gradimento
  • ammirazione
  • consenso
  • rispetto
  • amore
  • ascolto

rafforzano l’autostima nel caregiver, lo gratificano, gli infondono fiducia e determinano ulteriore impegno

Informazioni tratte dall’articolo pubblicato da Elettra Pepe sul sito

http://dimensionesperanza.it/

di Paola Lazzarini (Dottoranda di ricerca in Sociologia e Metodologia della Ricerca Sociale presso l’Università Cattolica di Milano)

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