di Sergio Scuffi
L’intera famiglia viveva, durante l’estate, sugli alpeggi. Verso fine giugno o all’inizio di luglio, dai maggenghi a mezza quota, già raggiunti a fine primavera, avveniva il trasferimento verso l’ “alpe”. C’erano delle famiglie, da noi considerate più fortunate, che si portavano sugli alpeggi della Valle Spluga, con possibilità di effettuare tutto o buona parte del percorso servendosi del carro per il trasporto di masserizie varie e dei viveri necessari alla famiglia; lì sopra trovavano posto anche i bambini o le persone più anziane. Noi, ahimè, tutto sulle spalle, con zaini, gerli, campacci (i ràas), dentro ai quali si caricava di tutto, non esclusi i bambini piccoli (anch’io, almeno per una stagione, ho raggiunto l’alpe “comodamente” trasportato nel gerlo dalla mamma).
Al mattino presto, ancora con il buio, si muovevano queste lunghissime carovane composte da mucche, vitellini, capre, maiali, bambini semiaddormentati e piagnucolanti (ma con una grande ansia di salire e ritrovare gli ambienti lasciati al termine della precedente stagione estiva), giovani ed anziani, tutti con un proprio compito, indaffarati ed affannati attorno alle bestie, con carichi incredibili sulle spalle, sforzandosi alcuni, quasi in gara, di raggiungere per primi la méta. Il tutto avveniva in mezzo ad un continuo risuonare di muggiti, belati e grugniti, richiami (Et sarée la chè? Et scè la céef? Mövass cun quel vedèl! Veda-tü brì ché in pasé sü tücc? Vött propi rivé par ültum? Dam a mi quela corda! Tira adrè quel ciòn!); molte erano le voci stizzite di chi non rusciva a governare i poveri animali, spesso disorientati in mezzo a tutta quella confusione.
Il cammino era lungo e faticoso, interrotto da soste ristoratrici in alcuni punti ben definiti, che permettevano anche al bestiame di riposare, pascolare un pochino ed abbeverarsi. Dopodichè, via di nuovo, per raggiungere e superare l’Alpe Manco, poi la “Scima” (si tratta di un valico, alla bella quota di circa 1900 metri), da cui finalmente si discendeva verso l’invitante conca dell’Alpe Campo, con le sue rustiche e semplici baite, a lato del gelido corso della Boggia, le cui gorgoglianti sorgenti si trovano a poche centinania di metri.
L’ambiente si presentava talmente sereno e riposante che, in breve, si dimenticavano tutte le fatiche: pur arrivando a destinazione verso mezzogiorno o anche oltre, la giornata si considerava positivamente conclusa se nessuna bestia si era persa o, peggio “sc-mersjüda”, ossia caduta in qualche burrone (ce n’erano molti e spaventosi, almeno ai nostri occhi di bambino, durante il tragitto). Poi, mentre le mamme sistemavano la casa, svuotavano i “gerli” collocandone il contenuto nella semplice cassapanca (archa), cambiavano il fieno che fungeva da materasso nei rustici letti (i “gròol”), noi eravamo pronti a raggiungere la “Còrt”, luogo di ritrovo e svago per grandi e piccoli, alla ricerca degli amici, tra cui quelli che erano saliti da Gordona, salutati alla fine della precedente estate e, generalmente, non più incontrati per un intero anno. Si ricominciava, così, per due mesi, una vita che, accanto a tanti impegni anche per noi ragazzi (curare le bestie, portare la legna, aiutare a lavorare il latte), proponeva compagnia, serenità, svaghi, giochi, realizzati spesso con pochi mezzi e molta fantasia.
Nelle foto di gruppo, due momenti di vita sull’Alpe Campo nell’estate 1972
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