di Sergio Scuffi
Le famiglie raggiungevano l’alpeggio con le mucche, vitelli, maiali e qualche altro piccolo animale alla fine di giugno. Pecore e capre, lasciate libere già alla fine dell’inverno (durante il quale erano sopravvissute con poco fieno e tanta “föia de vinscèl”) si nutrivano di quanto trovavano nei boschi e, salendo via via più in alto, venivano ritrovate lassù, dove erano giunte già da parecchio tempo. Ora le capre, tutte di proprietà degli alpeggiatori, pur pascolando allo stato semibrado, venivano tuttavia radunate da ciascuno e condotte verso le baite almeno una volta al giorno per la mungitura.
Diversamente ci si regolava con le pecore, confluite lassù da diverse direzioni ed appartenenti non solo agli alpeggiatori ma anche ad altre famiglie di paesi diversi o che, comunque, non figuravano tra i proprietari dell’alpe; una situazione tipica inoltre era quella delle pecore che, non conoscendo confini, spesso superavano i valichi per portarsi sugli alpeggi sovrastanti i Comuni dell’alto Lago di Como (si diceva che andavano “fö depóos”): allo stesso modo, da noi si ritrovavano pecore provenienti da quei luoghi.
Allora l’alpe, che si governava con delle regole ben precise, tramandate da chissà quali tempi remoti, aveva trovato una soluzione anche per questo problema.
Si stabiliva che un pastore le custodisse fino al termine dell’estate.
Questo compito mi è stato affidato, attorno ai dieci-undici anni, per due stagioni consecutive: la prima volta, in collaborazione con un amico più grande di alcuni anni, Romano B., l’anno successivo, ormai “esperto”, tutto da solo.
Le pecore venivano collocate la notte in un recinto ricavato sfruttando le rocce a strapiombo presenti presso le baite, e delimitato sugli altri lati dalle abitazioni stesse, unite fra loro da grandi, rustici muraglioni a secco appositamente costruiti, già da tempi lontani.
Si trattava di cento e più capi di bestiame che, su indicazione quotidiana delle persone adulte, venivano condotti in magri pascoli fuori mano, difficilmente raggiungibili o comunque pericolosi per gli animali grossi quali le mucche, a cui si riservavano, naturalmente, i pascoli migliori.
Il trasferimento durava anche qualche ora, sempre trafelati per tenere il passo con queste bestie che, per quanto considerate mansuete, si comportavano spesso in modo bizzarro ed imprevedibile, abbandonando il gruppo e sfuggendo verso tutte le direzioni.
Ci si portava un fagottello contenente polenta fredda ed un po’ di formaggio, un mazzo di carte per ingannare il tempo, una vecchia giacca sgualcita per difendersi in qualche modo dal freddo nelle giornate di maltempo, e via di corsa. Da lassù in alto scrutavamo, verso le baite, il movimento delle persone, piccole come formichine, cercando di indovinare quali fossero i nostri amici ed invidiandoli per la bella e comoda vita che facevano, divertendosi, giocando e mangiando ad ogni ora (sembrava, viceversa, che le nostre scorte alimentari si esaurissero troppo in fretta, sicchè eravamo sempre affamati!).
Finalmente arrivava il momento della consegna di tutte (o quasi) le bestie ai proprietari, che si presentavano, tradizionalmente, in occasione del Ferragosto (al Fest d’Aost).
Ciascuno, in quei giorni, entrato nella “peuréra”, cercava pazientemente di individuare ed estrarre le proprie pecore, riconosciute dalla “nöda” (un contrassegno per ogni famiglia ottenuto con tagli e fori sulle orecchie delle povere bestie!), oltre che da altri particolari quali il colore della lana o simili.
La cosa interessante è che, prima di andarsene con le proprie bestie, il proprietario doveva versare per ciascuna una determinata somma. Essa costituiva, per una parte considerevole, il compenso per il pastore che se ne era curato per il periodo estivo, mentre una quota prestabilita doveva essere versata nelle casse dell’alpe, custodite da un “messo” eletto di anno in anno. Costui, a nome, di tutti, aveva il compito di provvedere a pagare la “taia”, ossia la tassa che gravava sugli alpeggiatori. In questo modo, come si vede, l’affidamento delle pecore ad un pastore consentiva di raggiungere diversi scopi: tenere le bestie lontane dai pascoli migliori, garantirsi che comunque esse non sarebbero andate disperse, rendere un servizio anche a chi con l’alpe non aveva nulla a che fare, creare qualche posto di lavoro e, ultimo ma non meno importante, consentire alle magre finanze delle famiglie di allora di contenere al minimo l’esborso di denaro per il pagamento delle tasse.
Come dicevo sopra, quasi tutte le bestie venivano ritirate: purtroppo, per noi pastori, il compito non era esaurito fino a quando non conducevamo giù al paese le pecore rimaste, che finalmente venivano collocate in qualche stalla, dopodichè erano i grandi che si incaricavano, con un “passaparola” che raggiungeva diversi paesi, anche dell’alto Lago di Como, di reperire gli ultimi proprietari e far sì che anche loro si portassero via le bestie: in questo caso, pagando una quota aggiuntiva per il maggiore disturbo!
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