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Un tuffo al cuore

Un tuffo al cuore

di Giulio Ghirelli

Scuola Media Statale Luigi Cagnola.
Così c’era scritto sopra il portone d’ingresso dell’edificio a tre piani color marroncino, ai Bastioni di Porta Volta.
Sul tragitto dalla mia casa di Via Piero della Francesca -nel Borgo degli ortolani- alla scuola media Cagnola, si trovava la chiesa della Madonna di Lourdes.
Il cortile circolare antistante alla chiesa, interrato di un paio di metri sotto il livello stradale, aveva al centro una grande grotta artificiale con dentro la statua della Beata Vergine. Nelle domeniche del mese Mariano, il cortile della grotta, addobbato di fiori e gonfaloni, si riempiva di invalidi e malati cronici, che assistiti da infermieri e suore chiedevano ogni sorta di grazia. Esattamente come facevo io quando passavo di fianco alla grotta, nel percorso che mi portava a scuola.
“Madonnina Santa, oggi c’è la prova scritta…”. “Beata Vergine, oggi ci sono gli esami orali…”.
Forse per la vigilanza della signora Rossi, che mi ospitava tre ore al giorno nella sua casa per farmi studiare, o forse per le mie preci alla Madonna di Lourdes, avevo superato gli esami; e con la licenza di scuola media inferiore potevo trovare un lavoro. Perché, con grande rincrescimento di mio papà carabiniere -che aveva fatto solo le scuole elementari e che sognava che io mi diplomassi, per poi iscrivermi all’Accademia Militare-, io avevo deciso che con gli studi era finita lì.
Anche per il signor Di Lernia era finita lì, nell’osteria sotto casa.
“Colpo apoplettico” diceva la vedova, distrutta dal dolore, a tutti quelli che andavano a farle le condoglianze.
La famiglia Di Lernia abitava nella mia stessa casa di ringhiera, ma in un alloggio nella parte signorile con i servizi in casa, dove c’era pure una stanzetta che il marito aveva attrezzato a camera oscura, essendo lui uno stimato fotografo; e in quel vano il signor Di Lernia stampava -a quei tempi esclusivamente in bianco e nero- le foto dei servizi in cui lui era specializzato: battesimi, comunioni e matrimoni.
Dagli effluvi che uscivano dalla cucina della famiglia Di Lernia, non si poteva dubitare che fossero dei buongustai, e nonostante entrambi avessero la pressione come la camera d’aria di un camion, non si facevano mancare niente, in fatto di manicaretti.
In più c’erano i servizi fotografici, in cui sarebbe stato sgarbato rifiutare l’invito a partecipare al rinfresco o al banchetto; e quando non era a quei servizi, la buonanima provvedeva in proprio.
Al mattino passavo a prendere il mio compagno di classe Beppe nell’osteria di suo papà, che era sotto casa, e vedevo i soliti clienti che prima di andare a lavorare si facevano un calice di vino o un grappino -a quei tempi il caffè era meno usuale-.
C’erano anche, seduti a un tavolo, gli operai della nettezza urbana, quelli che svuotavano le ruere (pattumiere) nelle cantine delle case.
A quei tempi, i rifiuti domestici venivano stivati, senza alcun involucro, in un locale della cantina.
Nelle prime ore del mattino -tra le cinque e le otto- gli spazzini, sopportando un odore pestilenziale, con un forcone mettevano quel pattume in una specie di gerla, che poi si caricavano sulle spalle e la svuotavano dentro un carretto trainato da un cavallo.
Il tanfo che emanavano le divise grigie degli operai che facevano quell’infausto lavoro era terribile; non appena entravo nel trani venivo investito dal quel pestilenziale odore, e non ho mai capito come potessero resistere, oste e clienti, in quella situazione.
Ma cosa poteva fare quel buon uomo del vinaio? Rifiutare asilo a quei disgraziati lavoratori, che, in pausa da quell’infelice pubblico servizio, cercavano conforto ristorandosi con cotiche e piedini di maiale bolliti, delle specialità di allora che preparava il cervelee (salumiere). Erano vivande che si trovavano spesso sulle tavole dei milanesi, che le condivano con la salsa verde; ma c’era chi si accontentava di metterci sopra solo un po’ di sale. Così facevano gli spazzini, che si sedevano a un tavolo dell’osteria, aprivano il cartoccio del cervelee e si gustavano quella colazione. Innaffiata da un bel quartino di Trani (vino pugliese, a quei tempi di poco costo, che prende il nome dal luogo di origine. E non è un caso che in lingua meneghina le osterie venissero chiamate così).
Quel brav’uomo dell’oste faceva bella cera a quei lavoratori, anche perché erano dei buoni clienti, dato che magari i quartini diventavano due o anche tre; perché codegh e pescioeu sono cibi collosi, si attaccano alle budelle, e ce ne vogliono di quartini per sgorgare!
Anche il signor Di Lernia pareva sopportare i miasmi delle tute degli spazzini. Seduto a un tavolo d’angolo, distante dall’entrata del trani -come di chi vuole stare lontano da sguardi indiscreti- lo stimato fotografo praticava le medesime abitudini degli spazzini: cartoccio del cervellee e quartino.
E fu proprio nel trani del papà del Beppe, che una di quelle mattine, poco prima di mezzogiorno, il signor Di Lernia reclinò la testa sul petto, come se gli avesse preso un colpo di sonno.
E quando l’oste gli passò vicino, non fece caso alla postura del fotografo; nel trani capitava spesso che qualcuno che aveva bevuto un quartino di troppo, o qualche lavoratore stanco dopo il turno di lavoro, si abbioccasse seduto a un tavolino.
Solo a mezzogiorno e mezzo, quando la moglie del fotografo era venuta nel trani a vedere se il marito fosse lì, si era scoperta la tragedia.
“Me pareva ch’el durmiva” diceva l’oste angosciato, come per discolparsi; perché non gli era venuto il minimo dubbio che il fotografo, seduto composto sulla seggiola con la testa china sul petto, non stesse ronfando.
Quando la mia nonna materna sgridava il nonno perché mangiava troppo, e gli diceva: “Se continui a rimpinzarti così, finisce che ti viene un colpo apoplettico”, il nonno rispondeva: “Almeno muoio sereno, con la pancia piena”.
Anche il signor Di Lernia, esposto nella bara, aveva l’espressione serena.
E molti di quelli che andavano a portargli l’ultimo saluto, commentavano: “Che bella espressiun ch’el g’ha, par ch’el dorma”.
Anch’io dormivo serenamente quel mattino che la mamma mi svegliò dicendomi: “Visto che non vuoi più studiare, alzati e vieni con me”.
Tipografia Ermenegildo Pozzi, c’era scritto sull’insegna sopra un portoncino in via Monviso.
La mamma suonò il campanello e poco dopo apparve un ometto pelato sulla cinquantina.
“Può assumere mio figlio? Non mi interessa la paga, mi basta che gli insegni il mestiere” disse la mamma con la sua squillante voce da soprano.
“Ce l’ha il libretto di lavoro?” chiese il signor Pozzi.
“Domani vado a farglielo” rispose la mamma.
Sul mio primo libretto di lavoro, alla voce paga oraria c’era scritto: Lire 34. Il pane allora costava 140 lire al chilo. Però imparai il mestiere, e poi ne imparai qualcun’altro, dando così un po’ di soddisfazione a mio papà, che prima di morire mi vide condurre una piccola azienda meccanica.
E così al Borgo degli ortolani, per noi ragazzi iniziava un’irreversibile metamorfosi.
Chi era impegnato negli studi delle scuole superiori, chi aveva lasciato le vecchie case per i nuovi e moderni quartieri. E quelli che, come me, avevano abbandonato gli studi per andare a lavorare.
I giochi in cortile e sui giardinetti di via Poliziano, le gite in bicicletta, il bagno nelle rogge, appartenevano ormai a un’altra vita.
Avevo diciotto anni quando lasciai il rione. Lo Stato aveva assegnato a mio papà un alloggio -due camere con cucina e bagno- nei nuovi palazzoni popolari del quartiere Lorenteggio.
Sono trascorsi molti anni -una vita-, ma mi succede ancora di passare per il mio vecchio borgo, e qualche faccia mi pare di riconoscerla. Ma forse è solo un nostalgico miraggio del passato.
Il rione, anche con gli inevitabili rinnovamenti, ha un aspetto ancora popolano. La chiesa della Madonna di Lourdes è sempre uguale, con la grotta della Beata Vergine.
Anche la mia vecchia casa di ringhiera non è cambiata molto, col suo caldo color zafferano.
Da fuori vedo l’androne dell’ingresso con in fondo il cortile, e ogni volta mi ripeto che un giorno o l’altro devo entrare a dare un’occhiata; ma c’è sempre qualcosa che mi frena.
A volte, certe nostalgie è meglio lasciarle ben chiuse nel cassetto dei ricordi.
Poi, una fredda mattina di dicembre, mi trovo a varcare il grosso portone di legno.
Pochi passi nel buio androne e arrivo alla soglia del cortile che non ha più i suoi bei ciottoli rotondi, adesso è pavimentato.
La portineria non c’è più, e neppure la finestra della guardiola, dalla quale spiavo la portinaia, la sciura Colomba, che insieme al marito e ai suoi due figli -tutti bassi, tondi e rubizzi- sembravano dei personaggi di un quadro di Botero.
Arrivo al centro del cortile e alzo lo sguardo fino al pianerottolo del quarto piano, dove ci sono ancora le tre porte; quella in mezzo era la mia, ma non ha più le due strette persiane verdi, ora c’è un portoncino in legno scuro.
Entra in cortile un anziano signore, che con l’aria diffidente mi chiede se cerco qualcuno.
Gli spiego il motivo che mi ha portato lì. Rassicurato, mi saluta e imbocca la rampa di scale a destra del cortile, la mia.
Lo seguo con lo sguardo mentre ascolto il rumore dei suoi passi: lenti, come quelli di mio papà quando rincasava stanco dal suo servizio notturno in caserma.
Mi arriva la melodia di una fisarmonica, sta suonando Libertango di Astor Piazzolla.
Diego! Uno degli amici dei verdi anni, che passava ore a imparare a suonare la fisarmonica.
Ma forse è la musica di uno stereo.
Alzo lo sguardo fino alle finestre del terzo piano, dove abitava la Wilma, la prima fanciulla che mi ha fatto battere il cuore.
Da una di quelle finestre appare una signora e si mette a scuotere uno strofinaccio della polvere; si accorge che sto guardando verso di lei e si ritrae frettolosamente richiudendo i vetri.
Un tuffo al cuore …
Ho visto abbastanza, e mentre esco dal cortile alzo lo sguardo oltre le ringhiere.
Il cielo è una coperta di piombo e l’aria si è fatta pungente, come quando viene a nevicare.

 

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