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Un sentimento nuovo

Un sentimento nuovo

di Giulio Ghirelli

Il cortile della casa di ringhiera della mia verde età, in primavera diventava il luogo di lavoro degli artigiani ambulanti. Arrivava il molètta (arrotino) che aveva una bicicletta con sul manubrio la mola per affilare forbici e coltelli. Entrava in cortile e si annunciava gridando: “Molètta! Molètta!”.
Le massaie scendevano in cortile con tutti i generi di utensili da taglio. A quei tempi, quegli utensili erano beni da tener da conto, non ci si poteva permettere di buttarli come si fa oggi; anche perché il costo per riaffilarli era economico rispetto alla spesa per comprarli nuovi. Invece oggi è il contrario.
Il molètta metteva sul cavalletto la bicicletta, montava in sella e pedalando faceva girare la mola, che era collegata con una cinghia ai pedali del velocipede.
Per le donne del caseggiato, il cortile si trasformava in una specie di sala da tè, dato che nell’attesa del lavoro dell’arrotino, si scambiavano quattro pettegolezzi. Naturalmente non poteva mancare la portinaia, la sciura Colomba, la quale era detentrice di ogni indiscrezione riguardo agli inquilini.
“Sciura Colomba, ma l’è vera che la Renata, la tosa della sciura Rossi, la fa la soubrette denter la compagnia de varietà del famoso Macario?”.
“Me par de sì… certo che col fìsich che la g’ha, la farà minga fadiga a fa carriera” poi, abbassando la voce “Come dis el proverbi: el destìn dei donn l’è stramb, a volt el se decìd in mezz ai gamb…”.
Poi c’era l’ombrellee che riparava gli ombrelli e il cadreghee che cambiava la paglia delle sedie.
Il materassee restava in cortile per alcuni giorni; era un lavoro lungo quello di disfare, cardare la lana e trapuntare cuscini e materassi. Il cortile veniva invaso da banchi e attrezzi, e da rotoli di tessuti bianchi a righe azzurre o marroni.
Quando il materassee cardava la lana, la brezza primaverile faceva svolazzare i soffici pelucchi di lanugine per tutto il cortile, come piccoli fiocchi di neve. I bambini più piccoli correvano con le braccia sollevate cercando di afferrarne qualcuno, e gridavano: “Nevica, nevica!”.
Seduto sul pianerottolo del quarto piano, con le gambe penzoloni fuori dalla ringhiera, osservavo.
Più che ciò che accadeva nel cortile, il mio sguardo era rivolto alle finestre del terzo piano della facciata di fronte, dove abitava la Wilma. Spiavo se qualcuno di quei soffici pelucchi di lana che si libravano nell’aria, fosse entrato dalla finestra della fanciulla per posarsi sui suoi boccoli castani.
Con l’ingenuità degli adolescenti di quei tempi, non sapevo quale genere di sentimento provavo per quella cicciottella fanciulla, ma qualcosa di nuovo mi era entrato nell’animo. A tal punto da farmi mettere in secondo piano il mio grande amore, la bicicletta.
A volte succedeva che invece di seguire i miei amici nelle scorribande ciclistiche, passassi una parte del pomeriggio seduto sul pianerottolo a guardare le dirimpettaie finestre del terzo piano, e se non vedevo la Wilma dentro casa, scendevo furtivamente al primo piano per vedere se la ragazzina fosse sul pianerottolo della Carluccia a giocare con lei a fare le sarte. Coi ritagli delle stoffe scartate dalla mamma della Carluccia, che faceva la sarta, le due fanciulle facevano i vestitini per le bambole.
Le due ragazzine erano talmente appassionate a quell’attività, che la mamma della Carluccia aveva regalato alla figlia un busto da sarta come quello che usava lei, ma di piccolo formato per bambole.
Anche a casa mia c’era una bambola, che la mamma aveva regalato alla mia sorellina Titina -minore di me di cinque anni-. Titina, a differenza mia, era nata talmente bella, che quando aveva un paio di mesi, la mamma aveva fatto venire un fotografo -un lusso per le nostre finanze- per immortalarla sorridente, e col culetto in aria, sopra il lettone dei nostri genitori. E poiché cresceva ancor più bella, la mamma, pure lei brava a cucire, per un carnevale le aveva fatto un vestito da damina, così bello che per la strada la guardavano tutti. E anche quella volta, la mamma aveva assoldato il fotografo.
Devo ammettere che ero un po’ geloso per certi privilegi di cui godeva Titina. Ma lei era una bella e brava bambina, invece io tutto il contrario. Però mi presi le mie soddisfazioni rubando una gonna e una camicetta alla mamma, oltre a un reggiseno che riempii di carta di giornale appallottolata.
E agghindato in quella foggia, quel carnevale sfilai per via Piero della Francesca, riscuotendo pure  io parecchie attenzioni, ma più che di ammirazione, di risate.
La bambola che Titina aveva ricevuto in regalo, sarebbe stata un’ottima scusa per avvicinare le due fanciulle sarte, e specificatamente la ragazzina coi boccoli castani. “Wilma, Carluccia! Guardate che bella bambola che ho! Prendetemi con voi a fare i vestitini!” avrei potuto dir loro, senza alcuna vergogna di far la figura della femminuccia…
Ma quella bambola era intoccabile persino per la mia sorellina. Doveva rimanere intangibilmente in bella mostra sul lettone dei miei genitori, perché a quei tempi, il massimo della raffinatezza nella camera da letto era una bambola piazzata sopra il copriletto. Ma non una bamboletta proletaria di plastica, bensì un’aristocratica bambolotta con il viso di ceramica e un elegante vestito di pizzo, con la gonna a ruota talmente ampia da occupare metà del letto.
L’unica cosa che mi riusciva di fare per farmi notare dalla Wilma, era di passare su e giù per le scale del primo piano, ripetendo come uno scemo: “Ciao Carluccia! Ciao Wilma!”. Inutilmente…
La Wilma non era di manica larga nei miei confronti. Quando mi capitava di incrociarla nel cortile, mi salutava appena, guardandomi con aria di sufficienza. E potevo anche capirla; lei abbigliata con dei bei vestitini e coi boccoli castani avvolti da un nastrino con la gala. Mentre il sottoscritto, con calzoni e maglietta proletari, e i capelli corti e ispidi, non faceva certo pendant con la fanciulla.
Così ero afflitto da qualcosa che, con la consapevolezza di oggi, potrei definire: pene d’amore.
Anche la Carluccia -la sua amica magra magra che sembrava uno scheletrino- era in pene d’amore.
Aveva una cotta per il mio amico Enzo, un ragazzo maggiore di me di due anni -che a quell’età fa già la differenza- con cui avevo un rapporto più da adulti rispetto ai miei compagni di bici; anche perché io ero uno spilungone più alto dei ragazzi della mia età, e vicino all’Enzo non sfiguravo.
Lui parlava di musica country -il suo idolo era Jhonny Cash- e a volte mi offriva una Coca Cola al bar Poliziano, dove lui giocava a biliardo. E con le cromature luccicanti come una Cadillac, c’era lì un juke box, in cui lui infilava una moneta e mi faceva ascoltare il suo idolo.
Col suo fisico da fustaccio e i capelli col ciuffo in alto come quello del suo cantante preferito, non c’era da meravigliarsi che fosse l’idolo delle ragazzine del quartiere. Ma lui volava alto, e si era intrigato con una formosa commessa del negozio Tuttoplastica di via Piero della Francesca.
Lei aveva qualche anno più di lui, ma visti insieme non si vedeva la differenza.
Il loro, era un rapporto quasi platonico, si vedevano solo alla sera quando lei usciva dal negozio per recarsi a prendere il tram che la riportava a casa.
Qualche minuto prima delle 19 -che era l’orario di chiusura del negozio- Enzo si metteva in fianco alla porta della bottega, e quando lei usciva, senza darsi neppure un piccolo bacetto sulla guancia, si prendevano per mano e percorrevano tutta la via Piero della Francesca, sotto le occhiate invidiose delle ragazzine -compresa la Carluccia-, e arrivavano in via Procaccini alla fermata del tram.
Ma la commessa ne perdeva più di uno, di tram, perché troppo impegnata in lunghi baci con Enzo.
Ma il mio amico era veramente un gentiluomo – in questo caso, un gentil ragazzo- poiché non si fece mai vanto delle sue avventure amorose. I lunghi baci alla fermata del tram, li scoprii perché una sera seguii di nascosto la coppia. Io non osai mai chiedergli qualcosa, neppure quando smise di sfilare per la via con la commessa.
La Carluccia, quando vide che Enzo non filava più con quella signorina, prese a ronzargli attorno come una mosca sul miele, ma lui non la degnava di una minima attenzione. Un fustacchione come lui aveva ben altri interessi, che non una ragazzina con la faccia pallida come la biacca e il corpo liscio come una tavola piallata. Allora la scheletrina giocò la sua ultima carta rivolgendosi a me.
Una sera, mentre salivo le scale di casa, arrivato al primo piano me la trovai davanti.
“Il tuo amico Enzo non fila più con quella tipa là?” mi approcciò senza dirmi un ciao. Non c’era bisogno che specificasse chi fosse quella tipa là; sapevo benissimo che si riferiva alla commessa.
“Boh” risposi, giusto per non darle spago, e lei replicò: “Non dire che non lo sai, sei il suo amico… comunque non li vedo più insieme. Senti, volevo chiederti un favore, gli daresti questo bigliettino?” e mi mostrò un foglietto stropicciato che teneva nascosto nella mano.
Il suo viso era ancor più pallido, e aveva gli occhi lucidi. E quello sguardo supplichevole mi entrò nel cuore e mi convinse ad assecondarla. “Domani, perché adesso vado su a mangiare” risposi.
Presi il foglietto e mi avviai su per le scale. Anche il grazie che mi raggiunse mi entrò nel cuore.
Quando arrivai al quarto piano, diedi un sbirciatina al foglietto: Ti aspetto domani sera alle sei ai giardinetti di piazza Gerusalemme. La firma non c’era.
Ero certo che Enzo, dopo averlo letto, lo avrebbe buttato nel cestino dei rifiuti.
Mentre percorrevo il pianerottolo di casa mia, girai lo sguardo verso le finestre della Wilma: erano illuminate ma non la vidi. E fu in quel momento che anche il mio cervello si illuminò.
L’Enzo non poteva rifiutarmi questo favore: lui accettava il puntello con la Carluccia -alla quale io avrei chiesto di farsi accompagnare dalla Wilma- e guardacaso, in piazza Gerusalemme, insieme al mio amico avrebbero trovato pure me.
Il pomeriggio seguente fu il più movimentato della mia vita. Correre dalla Carluccia e proporle ciò che avevo in mente; mi disse che non poteva darmi una risposta immediata, prima doveva parlarne con la sua amica. Poi correre da Enzo e fargli la proposta; sulle prime non voleva saperne, ma lo supplicai talmente tanto, che alla fine cedette. Tornare dalla Carluccia e dirle che il mio amico era ben disposto. “E la Wilma?” chiesi. “Non l’ho ancora vista, oggi ha un’ora di latino al pomeriggio, aspettami alle quattro sotto il portone” rispose.
Erano le tre, e quell’ora di attesa fu la più lunga della mia vita; ma quando, qualche minuto dopo le quattro, vidi apparire la Carluccia, che mi passò in fianco e senza fermarsi mi sussurrò: “Va bene” e poi si dileguò, ero il ragazzo più felice del mondo.
Corsi da Enzo, che era al bar Poliziano a giocare a biliardo, e gli confermai il convegno a quattro.
“Non mi fai il bidone?” chiesi con occhi da mendicante.
“Tranquillo” rispose.
Alle sei in piazza Gerusalemme eravamo in tre, e dovemmo aspettare il mio amico una quindicina di minuti, e quando arrivò aveva una faccia più anemica di quella della Carluccia.
Anche il suo umore era smorto; il fustacchione non aveva alcuna voglia di stare in quel convegno, e non faceva alcunché per nasconderlo; ma la Carluccia, emozionata com’era, manco se ne accorse.
Invece io mi ero accorto benissimo di quanta scarsa attenzione avesse la Wilma per me.
Ma ero contento lo stesso, e in quel momento avrei potuto gettare nella roggia la mia bicicletta.
Adesso c’era la Wilma a un palmo da me, e il resto non contava più.
Ma non ebbi manco il tempo di ammirarla un poco da vicino, perché nel giro di pochi minuti l’Enzo ci lasciò con la scusa che aveva un impegno. E la Carluccia prese sconsolata la via di casa senza un cenno di saluto per il sottoscritto, seguita a ruota dalla Wilma, muta pure lei. E io rimasi solo, seduto su una panchina dei giardinetti a rimuginare su come avrei potuto riempire di sberle un amico.
Però, a furia di piagnucolare con l’Enzo, mi riuscì di combinare un altro incontro a quattro.
Ma fu un incontro tragico.
Tre o quattro giorni dopo, ci ritrovavamo seduti su una panchina di corso Sempione a leccarci un gelato, quando Enzo si alzò dalla panchina e disse alla Carluccia che le doveva parlare in privato.
Si appartarono di pochi metri, e dopo qualche minuto vidi la Carluccia lasciare cadere il gelato e fuggire di corsa piangendo, subito inseguita dall’amica.
Cos’era successo? Quello che doveva succedere, ma non in maniera così poco ortodossa…
Il mio amico avrebbe potuto trovare altri sistemi per scaricarsi da quella faccenda, e non andare a dire alla Carluccia che lui era lì solo per spianarmi la strada con la Wilma.
Che dolore per quella povera ragazza…
Ma anch’io dovetti piangere le mie lacrime, perché la Wilma tornò a ignorarmi peggio di prima.
Ne piansi pure qualcuna per l’amicizia spezzata col mio amico Enzo, a cui non rivolsi più la parola.

 

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