di Giulio Ghirelli
Non pensiate che il mio lavoro non sia faticoso solo perché me ne sto seduto davanti al PC, e l’unica fatica fisica è quella di pigiare sui tasti. Certo non devo rompermi la schiena come un muratore o respirare il rovente puzzo di catrame di un operaio asfaltatore di strade. Ma credetemi, strizzare il cervello per scrivere lettere per conto terzi, quasi sempre d’amore, non è mica come dirlo.E quando hai passato diverse ore al giorno, e a volte anche della notte, per trovare sempre nuove espressioni amorose, e poi arriva il cliente, legge la lettera e ti dice che non gli piace e ti chiede di rifarla -ed è pure capitato che un cliente buzzurro me l’abbia stracciata in faccia- ti chiedi perché ti sei ficcato in questo lavoro. E tenete pure conto del fatto che sono capitati dei clienti che non si sono accontentati del testo dattiloscritto, ma hanno voluto che scrivessi io la lettera per loro conto, con la motivazione che hanno una brutta calligrafia. Pure questo faccio, e senza nemmeno più chiedermi come facciano le destinatarie della lettera a non accorgersi che non è la calligrafia del presunto autore della missiva. E allora forse anche a voi viene il desiderio di chiedermi chi me lo faccia fare.
L’ambizione di uno scrittore mancato, e il tentativo di riscattarmi scrivendo per conto terzi, giacché mi manca una delle fondamentali doti per essere uno scrittore per conto mio: la creatività.
Questa dote non l’ho mai avuta, e alle scuole elementari, quando la maestra diceva di fare un tema di come avessimo passato la domenica, strizzavo il cervello per riuscire a scrivere: All’oratorio.
Poi, alle medie, ci fu una bella variante, perché scrivevo: Al parco Sempione a giocare al pallone. Che anche se erano quattro parole in croce, quantomeno facevano rima.
Poi, visto le mie carenze creative, un’infinità di anni a fare vari lavori manuali, fino all’età della pensione, in cui mi sono ritrovato in compagnia di me stesso, poiché le mie varie relazioni di coppia hanno fatto la fine del Titanic. Tutte le mie ex mi hanno lasciato per via del mio carattere, dicendo che i sagittari sono persone difficili con cui convivere. E’ vero che, in osservanza di quanto recita la scienza dell’astrologia, sono impulsivo e prendo spesso decisioni affrettate e, sempre coerentemente col mio segno zodiacale, sono irrequieto. E ciò mi rende difficile concentrarmi su un unico progetto.
La routine mi annoia e cerco costantemente stimoli nuovi. Però l’astrologia dice che il sagittario ha pure molte caratteristiche positive. Ma pare che questi pregi non abbiano compensato i difetti al punto di riuscire a mantenere la stabilità in una relazione di coppia.
Però, come dice il proverbio, non tutti i mali vengono per nuocere, poiché la mia attuale esistenza di navigatore solitario mi ha stimolato a fare qualcosa per tenere sveglia la mente, e che non avevo mai avuto il tempo di fare, cioè leggere. E in questi anni di solitudine ho divorato migliaia di libri.
In genere romanzi. E tutte queste letture mi hanno messo il desiderio di scrivere. E poiché per conto mio non riesco a cavare un ragno dal buco, pensa e ripensa, mi è venuta un’idea. Quella di mettere su un quotidiano il seguente annuncio: Scrittore offresi per produrre lettere di svariati argomenti.
E non è stata una cattiva idea, perché non potete immaginarvi quanta gente, anche di ottima cultura, che per scrivere una lettera per esprimere certi loro pensieri, sono impacciate com’ero io a scuola.
E qui intervengo io, con la mia capacità di mettere nero su bianco i pensieri del cliente.
Naturalmente per far ciò in modo esclusivo e non ripetitivo come un automa, serve che la persona venga da me, affinché io possa capire certe sue caratteristiche psicologiche, e poter immedesimarmi in lui, al punto da creare il testo coerentemente con la sua personalità.
A differenza degli amanuensi che scrivevano sotto dettatura ai tempi dell’analfabetismo, io scrivo di testa mia, elaborando con le parole appropriate ciò che intende esprimere il cliente. E ho scoperto che quasi tutti quelli che vengono da me, vogliono che scriva per loro una lettera d’amore.
E se dovessi dirvi quante storie particolari escono dalle bocche di questa gente, non basterebbe una giornata, e io non ho molto tempo a disposizione, poiché ho talmente tante richieste da soddisfare, che ho dovuto persino ridurre il tempo dedicato alle mie letture.
Però devo confessare una cosa: venire a conoscenza di certi fatti altrui, sentire rivelarmi certe loro intimità come fossero in un confessionale, mi intriga assai. Perché non vi potete immaginare quante storie incredibili escono dalle loro bocche. Da scrivere romanzi. E il pensiero che ciò che scrivo per loro può essere la panacea per risolvere le necessità dello spirito, mi fa sentire un salvatore di anime. E mi fa stare straordinariamente bene la gratitudine di quelli che, seppur io mi sia quasi dimenticato di loro, mi mandano ancora saluti e ringraziamenti. Come il caso di una signora di settant’anni che venne da me dicendo che il suo unico fratello, maggiore di otto anni e single come lei, e che viveva nel suo stesso paese, senza che lei ne sapesse il motivo, da qualche tempo non le rivolgeva più la parola. E tutte le volte che si incrociavano per strada, cosa frequente in quella piccola località, se lei tentava di fare un approccio, lui la prendeva a sberle. Lei ci soffriva molto, specialmente perché quel fratello era stato per lei come un papà, poiché il genitore lo avevano perso che erano piccoli.
Vedere quella signora seduta davanti a me con le lacrime agli occhi, fu una delle situazioni più critiche del mio lavoro. Perché non avevo idea di come risolvere il caso. Mi viene più facile scrivere lettere d’amore. Qui non avevo idea di quali tasti toccare, dato che era incomprensibile capire il motivo del comportamento del fratello. E alla prima domanda che avevo fatto alla signora, cioè se al fratello non gli si fosse fusa qualche valvola in testa, mi rispose che si comportava così solo con lei.
Le chiesi di raccontarmi qualcosa della loro storia di quando erano bambini, della loro mamma, tutti quei ricordi a cui potessi agganciarmi per cercare di toccare le corde giuste di suo fratello. Lei mi raccontò, ma alla fine non le promisi nulla, il caso era difficile e non volevo darle false speranze.
Mi misi subito al lavoro, trascurando ogni altro impegno precedente. Questo caso mi aveva messo le spine nel cuore. E forse furono queste spine, la commozione che mi aveva invaso l’anima, a farmi mettere insieme le parole. Non era una lettera scritta con la testa, ma col cuore. E se quello del fratello della signora non era di pietra, qualcosa doveva pur smuovere. Prima di stamparla, la rilessi:
Mio adorato fratello, ti scrivo queste righe perché non so più in quale altro modo comunicare con te, poiché a voce le poche parole che riesco a dirti quando ci incontriamo per strada, ottengono sempre il medesimo risultato: ricevere delle sberle. Se almeno sapessi il motivo per cui mi tratti in questo modo, giusto o sbagliato che sia, me ne farei una ragione. E anche se con dolore, rispetterei la tua volontà. Ma il tormento di non saperne il motivo, è una condizione angosciante.
Non riesco a capacitarmi del fatto che un fratello che mi ha voluto bene, e che mi ha fatto da papà quando è venuto a mancare il nostro, ora mi sia nemico. Nella mia mente sono incancellabili tutti i ricordi di quando eravamo piccoli, e tu ti occupavi di me quando la mamma era al lavoro. E come eravamo felici quando c’era la festa del paese e arrivavano le giostre, e tu mi portavi tenendomi per mano come un papà. E poi salivamo sull’ottovolante e quando il vagone scendeva in picchiata e io strillavo per la paura, tu mi abbracciavi forte e così io mi sentivo protetta e la paura mi passava.
E con quale pazienza mi aiutavi a fare i compiti. Non so quanti altri lo fanno per la loro sorellina.
Ho la mente e il cuore pieni di tutti questi ricordi. Com’è possibile che in te si siano cancellati?
Cos’è successo? Ti ho sempre amato e rispettato, e abbiamo passato tutti gli anni della nostra vita senza che qualcosa abbia guastato la nostra unione. Tu ed io siamo tutta la nostra famiglia, e così sarà per me fino alla morte. Ma adesso qualche male oscuro si è messo in mezzo. Se tu sai qual è questo male, ti supplico di dirmelo, e farò tutto ciò che è mi umanamente possibile per scacciarlo.
Siamo arrivati a un’età in cui il tempo diventa prezioso, non possiamo permetterci di sciuparlo in questo modo. Io darei tutto quel che resta del mio tempo, pur di avere la tua mano che stringe la mia come quando eravamo bambini. Non voglio tediarti oltre con queste righe, e se ciò che ho scritto potrà farti fare un passo verso di me, bussa alla mia porta e ti accoglierò a braccia aperte senza chieder nulla. Ma se ciò non avvenisse, con la morte nel cuore, fingerò che tu non ci sia più.
Stampai la lettera e telefonai alla signora per dirle che era pronta. Era molto sorpresa, disse che non si aspettava che avessi fatto così presto. Poi mi chiese se potevo farle la cortesia di spedirgliela per risparmiarle di fare un altro viaggio, dato che il suo paese era distante una trentina di chilometri.
Mi disse di mettere nella busta anche la mia parcella, che mi avrebbe inviato subito il denaro.
Le dissi che per il mio compenso c’era tempo. La cosa importante era che mi facesse sapere l’esito.
Le consigliai di scrivere la lettera con l’inchiostro, perché anche quello era un modo per rievocare la loro fanciullezza, quando da bambini a scuola usavano il pennino con l’inchiostro del calamaio.
Il responso mi giunse una ventina di giorni dopo con una lettera. Quando aprii la busta vi trovai solo una fotografia che ritraeva la signora seduta a una grande tavolata, forse di un ristorante, affollata di commensali. Seduto accanto a lei c’era un signore. Lei mostrava un largo sorriso, lui un’espressione austera. Ma il fatto che appoggiate sul tavolo ci fossero, una nell’altra, le loro mani, la diceva lunga.
Sul retro della fotografia c’era scritto semplicemente: Grazie!
Non le mandai la parcella, non mi va di essere ricompensato in casi come questi, e dopo qualche suo sollecito, la signora capì e non insisté più. Però a Pasqua e Natale mi arriva un biglietto di auguri con scritto con l’inchiostro: Grazie ancora!
Sarei curioso di sapere perché il fratello si comportava in quel modo, ma mi resterà questa curiosità.
E ora voglio raccontarvi la cosa più straordinaria che mi sia capitata in questo mestiere.
Mi telefonò un tizio dicendo che aveva letto il mio annuncio sul giornale e voleva darmi un incarico.
Gli fissai un appuntamento, e il giorno che si presentò a casa mia, capii subito che era in uno stato di grande logoramento psichico. Ho un’innata vocazione per capire certi stati d’animo, e quello di questo tizio, che in rispetto della privacy chiamerò Guido, mi sembrava molto bisognoso d’aiuto.
Lo feci sedere davanti al mio tavolo da lavoro e gli chiesi se potessi offrirgli qualcosa da bere.
Accettò un caffè, e dopo averglielo servito, mentre lo sorseggiava, cercavo di farmi un’idea di lui.
L’esperienza mi ha insegnato che chi viene da me preferisce mantenere una certa riservatezza, e io non faccio domande personali, lasciando che siano loro a dirmi ciò che si sentono.
L’aspetto di Guido era di un uomo sui quarant’anni, basso, coi capelli precocemente ingrigiti e radi.
Portava un paio di occhiali dalla montatura tonda e piccola, di colore marrone scuro. Le lenti erano spesse, tipiche dei miopi. Vestiva un sobrio completo marrone, con camicia bianca e cravatta beige.
Pensai che fosse una persona di una certa cultura, perché quando vide il libro che tengo sempre sul tavolo, il romanzo Cent’anni di solitudine di Garcia Marquez, il mio autore preferito, disse che pure lui aveva una passione per quello scrittore e di aver letto tutti i suoi libri. E forse fu quel condiviso interesse che invogliò Guido ad aprirsi e parlarmi di sé. Lo fece parlando lentamente e a voce bassa.
Mi disse che abitava in città, di essere laureato in lettere e che lavorava presso una casa editrice.
Adesso mi spiegavo il motivo della sua cultura e passione per la letteratura.
Infine, dopo un momento di esitazione, come per mettere insieme le parole da dirmi, mi spiegò il motivo che lo aveva portato qui. Mi disse, senza farmene il nome, di aver conosciuto una cantante lirica a una rappresentazione teatrale in cui lei era la protagonista dell’opera.
Al termine dello spettacolo, ammaliato dal fascino della donna, si era intrufolato dietro le quinte e aveva trovato il suo camerino. Aveva bussato alla porta e lei aveva aperto. Si erano guardati qualche attimo e poi lei, senza aprir bocca, lo aveva fatto entrare e aveva richiuso la porta.
Poi era successa la cosa più straordinaria che mai avrebbe immaginato. Dopo averle detto che era la più eccezionale cantante lirica al mondo, oltre che la donna più affascinante che mai avesse visto, e che ne era infatuato, lei, senza dir parola, gli aveva messo le braccia al collo e lo aveva baciato.
Un bacio con l’intensità che solo due innamorati ci possono mettere.
Lui pensava di essere dentro un sogno ed era rimasto immobile come una statua, per il timore che un minimo gesto potesse rompere quell’incantesimo. Ma l’incanto durò poco, poiché subito dopo lei lo aveva congedato dicendo che doveva togliersi svelta il costume di scena e rivestirsi, perché era attesa al rinfresco di fine tournee, ma non poteva farlo partecipare poiché era riservato alla troupe.
Guido le aveva chiesto quando avrebbe potuto rivederla, e lei gli aveva risposto che sarebbe partita con la troupe il giorno seguente per una tournee in America. “Sui mezzi d’informazione puoi trovare il programma delle nostre tappe nei teatri americani” aveva concluso lei.
Guido passava le notti in bianco pensando a quella donna, fin quando aveva deciso di scriverle una lettera d’amore. Aveva trovato sui giornali i teatri americani dove la troupe avrebbe dato le recite, e avrebbe inviato la lettera a uno di quelli. Quindi si era messo d’impegno per scrivere la lettera, ma pur avendo buona conoscenza letteraria, non riusciva a trovare le espressioni giuste per comporre lo scritto. Aveva passato notti intere con la penna in mano, con l’unico risultato di riempire il cestino della carta straccia. Quindi aveva deciso di ricorrere a me.
“Vorrei che lei componesse la più bella lettera d’amore che si possa scrivere” mi disse Guido.
Gli chiesi qualche caratteristica fisica della cantante, come il colore degli occhi e dei capelli, ed altri particolari, per avere un’idea della donna. Lui mi elencò un’infinità di doti, forse qualcuna inventata, perché è facile che l’infatuazione faccia vedere oltre la realtà. Presi nota di tutto e infine gli chiesi quanto tempo mi desse per scrivere. La risposta l’ebbi dal suo sguardo supplichevole.
Poi mi diede il suo nome e il numero di cellulare, e mi pregò di chiamarlo appena pronta la lettera.
“Può darmi il nome della donna? In una lettera d’amore, in qualche frase bisogna pur metterlo” gli dissi. “Carmen -mi rispose- come la zingara seducente protagonista dell’opera di Bizet”.
Mentre lo accompagnavo alla porta mi disse: “Non le ho chiesto quant’è il suo compenso, ma sono disposto a pagarle una bella somma, purché io riesca a far giungere la lettera alla mia amata”.
“La somma la lascio decidere al cliente, sempreché sia soddisfatto, altrimenti non voglio nulla”.
Questo è il mio metodo di lavoro. Più che per denaro, per gloria, seppur effimera.
Sarà stata la condizione disperata di Guido a mettere un input nel mio cuore, il quale lo trasmise alla penna, cioè la tastiera del PC, fatto sta che in poco tempo lessi sullo schermo ciò che avevo scritto
Adorata Carmen, il mio unico sogno è che questo scritto voli con le ali di gabbiano sopra l’oceano e venga a posarsi leggero come una farfalla vicino a te, e che in queste righe tu possa leggere anche ciò che non riesco a scriverti. Mi manchi, sin dal momento in cui, dopo quel bacio che ancor adesso mi riempie il cuore, mi hai dovuto abbandonare lasciandomi solo l’immagine dei tuoi occhi verdi come preziosi smeraldi, e il colore dei tuoi capelli, neri come la notte avvolta nel mistero.
Quel bacio, dopo la magia della tua voce sul palcoscenico, è stato per me un istante carico di promesse non dette, un piccolo universo che si è creato tra di noi. Nonostante l’attimo fuggente con cui è accaduto tutto, quell’attimo si è incastonato nel mio cuore come il più prezioso diamante di una corona. E ora posso solo pensarti nella tua tournée che ti porterà nei teatri dell’America.
Penso a ciò che puoi provare nel turbinio di città nuove con teatri maestosi e applausi scroscianti.
Dalle luci abbaglianti di New York all’energia vibrante di Chigago, e quante altre ti accoglieranno. Ti immagino come ti ho vista quella sera, con la voce appassionata e vibrante, e un’espressività che pochi interpreti hanno sul palcoscenico. I miei giorni sono lunghi ed estenuanti lontano da te.
Come vorrei applaudirti in quei teatri, e poi attenderti all’uscita coi più bei fiori che possa cogliere.
Conto i giorni, le ore, i minuti che mancano per poterti rivedere. E già mi immagino la felicità che invaderà il mio cuore nel momento in cui scenderai dall’aereo e io ti correrò incontro e ti stringerò tra le braccia. Abbi cura di te, anima mia. Con tutto me stesso, Guido.
La telefonata a Guido la feci il mattino seguente. Si meravigliò che avessi già finito la lettera, e mi sembrò che avesse il dubbio che non avessi fatto un buon lavoro in così poco tempo. Mi disse che era in ufficio e non poteva venire da me prima delle sei. Risposi che poteva venire a qualsiasi ora.
Suonò al campanello che mancava poco alle sette. La faccia era del colore di un pomodoro maturo e aveva il fiato grosso. Come uno che ha corso una maratona. Gli feci strada nello studio, e senza chiederglielo andai a prendere una bottiglia d’acqua e gliene versai un bicchiere.
“Grazie” riuscì a dire con un filo di fiato, e poi scolò l’acqua in un solo sorso. Gli riempii di nuovo il bicchiere, ma non bevve più. Allora tirai fuori dal cassetto una busta e gliela porsi. La prese col tremore alle mani, l’aprì, ma dovette pulirsi le lenti degli occhiali, forse appannate dai vapori della faccia sudata. Pensai di non stare a guardarlo mentre leggeva, per non mettergli fretta o disagio, e allora gli dissi che dovevo andare in bagno. Ci rimasi un po’, e quando tornai lo vidi immobile come una statua, con gli occhi fissi sulla lettera. Sembrava in trance, e non mi rivolse lo sguardo neppure quando mi sedetti di fronte a lui. In quel momento mi accorsi che aveva il viso rigato di lacrime.
Ero imbarazzato e non sapevo che dire. Allora misi gli occhi sullo schermo del PC e pigiai dei tasti, come se mi fossi messo a scrivere. Poco dopo mi giunse la sua voce, solo poche parole, rotte forse dalla commozione: “E’ una lettera meravigliosa”. Poi piegò con cura il foglio e lo rimise nella busta. “Quanto le devo?” mi chiese. Gli risposi che non avevo una tariffa, che facesse lui. Allora tirò fuori dalla giacca un portafoglio, prese due banconote da cento euro e me le porse chiedendo: “Bastano?”.
Ne presi una e gli dissi: “Questa basta e avanza. Però vorrei che mi facesse poi sapere…”.
“E come potrei non farlo?” mi rispose.
Passò quasi un mese senza che avessi notizie di Guido, quando una mattina squillò il telefono.
Dopo che ebbi detto “Pronto?” una voce femminile, dalla voce bassa e forse incerta, mi disse queste parole: “Buongiorno, parlo con il signor José Arcadio?”. Questo è il mio nome d’arte, che ho rubato al romanzo Cent’anni di solitudine, ed è il capostipite della famiglia Arcadio, il quale fondò la città di Macondo. “Sono io” confermai. Dopo qualche momento di silenzio, con voce esitante mi chiese se conoscessi Guido. “Signora, mi può dire chi è lei, e per quale motivo mi fa questa domanda?”.
“Oh, mi scusi… sono la mamma di Guido e ho visto il suo nome e numero di telefono su una busta in camera di mio figlio, e vorrei sapere se vi conoscete e perché”. “Ho conosciuto un signore che si chiama Guido, è venuto da me circa un mese fa. Ma non le posso dire di più, sono cose riservate”.
“Posso venire da lei e spiegarle?”. “Non mi sembra il caso, le ho detto che sono dei motivi privati”.
Qualche secondo dopo, con voce che sembrava venisse dall’aldilà, lei disse: “Guido è scomparso”.
Ero talmente scosso dalle ultime parole della signora, che ero rimasto ammutolito col fiato sospeso.
“Pronto? Mi sente?” chiese la donna. “Sì sì la sento. Ma che cosa vorrebbe dire con scomparso?”
“Posso venire a parlarle di persona?”. A questo punto potevo solo dire: “Ma certo! Quando vuole!”.
“Oggi pomeriggio lei può?”. “Certamente, a qualsiasi ora!”. “Mi da l’indirizzo? Sulla busta c’è solo il suo nome e il numero di telefono scritto a penna, e riconosco la calligrafia, è quella di Guido”.
Le diedi l’indirizzo, e poi passai il resto della mattinata a pensare solo a quella parola: Scomparso.
Forse la mamma di Guido intendeva dire: Morto? A volte non si riesce a pronunciare quella parola.
E poi perché quella signora si rivolgeva a me? Aveva avvertito la Polizia? E tante altre domande mi frullavano nel cervello. E rimasi con la testa per aria, camminando avanti e indietro per il corridoio, fin quando, alle tre del pomeriggio, suonò il campanello. La signora che mi apparve nell’aprire la porta mi lasciò di stucco per la sua bellezza. Era molto più giovane di quanto mi ero immaginato, e non potevo credere che fosse la mamma di Guido. Non dimostrava più di dieci anni di suo figlio.
Era di statura sopra la media, molto più alta del figlio. La carnagione era bruna e i capelli ondulati e neri le scendevano fin sopra le spalle. Un leggero ombretto contornava gli occhi verdi e le labbra erano tinte di rosso ciliegia. Ero talmente colpito da quella visione, che restai a fissarla ammutolito fin quando lei mi disse: “Buongiorno, sono Livia, la mamma di Guido” -per privacy uso questo nome per la donna-. Con lo guardo che non riusciva a staccarsi dai suoi occhi, le dissi: “Felice di conoscerla, prego, si accomodi” e le feci strada fino al mio studio. Le indicai la poltroncina di fronte al mio tavolo da lavoro e le chiesi se potessi offrirle qualcosa. “Non dovrei berne altri, sono due giorni che vado avanti a caffè, ma uno in più…”. Andai in cucina e preparai i caffè. Quando tornai, Livia aveva in mano un pacchetto di sigarette e l’accendino. Mi venne un crampo allo stomaco. Erano sette mesi che avevo smesso col fumo e non permettevo ad alcuno di fumare a casa mia. “Posso?” chiese Livia. Annuii.
Lei prese una sigaretta, la mise tra le labbra e l’accese. La prima folata di quel fumo mi entrò nel naso come un sorso d’acqua nella bocca di un assetato. Allora aprii il cassetto del tavolo e tirai fuori il pacchetto di sigarette e l’accendino, che avevo tenuti per dimostrare a me stesso che sono uno di carattere, e per nessuna ragione al mondo… Invece accesi una sigaretta, e la prima boccata mi diede la sensazione di respirare una canna. Anche se di quelle non ne ho mai fumate, ne conosco l’effetto.
Livia sorseggiò il caffè, mentre io, senza toccare la mia tazzina, non le toglievo gli occhi di dosso.
Lasciai che la donna finisse di bere il caffè, e poi: “Livia, mi dica”. Non era mia usanza appellare qualcuno senza metterci davanti signor o signora. “Signor José, non so da che parte cominciare…”. “Mi chiami José senza il signor”. Dopo un cenno di assenso, Livia aprì la borsetta, prese fuori una busta e me la porse. Era di quelle che uso io. In un angolo c’era il mio nome e cognome e il numero telefonico. “Devo aprirla?”. E dopo che lei rispose di sì, presi fuori il foglio. Non c’era bisogno che lo leggessi, avevo nella memoria quasi ogni parola di quella lettera che avevo scritto per suo figlio.
Livia mi guardava silenziosa, in attesa. La guardai negli occhi e miei pensieri vagavano. Infine le dissi: “L’ho scritta io”. Cos’altro potevo dire? “Gliel’ha chiesto Guido?”. Come potevo negare?
Ma credo che la donna sapesse già che le avrei detto sì. “Lo faccio per mestiere, scrivo lettere per gli altri. Ma adesso mi vuole spiegare? E’da quando mi ha telefonato che sono sulle spine”.
“José, per spiegare tutto ci vuole un po’. Lei ha tempo?”. “Tutto quello che vuole” risposi. E non solo per ascoltare quello che aveva da dirmi, ma per ammirare quella donna il più a lungo possibile.
“Guido è nato quando avevo diciassette anni. Il frutto di uno di quegli amori di gioventù, se amori si possono chiamare… Infatti il giovane che mi aveva messo incinta non aveva voluto prendersi la responsabilità di diventare padre. E posso capirlo, a quell’età… Invece per me è stato diverso. Forse l’incoscienza, ma il pensiero di diventare madre fu una grande gioia. I miei genitori, dopo il primo momento di sbigottimento, presero bene la cosa e quando nacque Guido erano quasi più felici di me.
Così loro mi diedero una mano a tirarlo grande, e io potei proseguire gli studi. Da piccola avevo una voce intonata, e terminate le scuole medie i miei genitori mi iscrissero a una scuola privata di canto. E ne venni fuori bene, perché mi diplomai come mezzosoprano e trovai presto delle scritture teatrali. Iniziò così la mia carriera artistica, che mi diede molte soddisfazioni. Non sono diventata famosa, però ho avuto dei ruoli importanti. Ero molto applaudita nel ruolo di Carmen, perché nell’opera di Bizet, la protagonista deve saper ballare e recitare più che nelle altre opere. E questo a me riusciva bene. Ma il rovescio della medaglia fu che, dovendo viaggiare per i teatri di mezza Europa, non ero a casa a dare il mio affetto a Guido, anche se i suoi nonni gliene hanno dato come pochi altri. Ma un bambino che già è privo della figura del padre, non avere nemmeno quella della madre… E forse la mancanza della mamma è stata la causa di ciò che avvenne in seguito. Quando Guido arrivò all’età di undici anni, i miei genitori una notte sentirono dei bisbigli provenire dalla camera di mio figlio.
Si alzarono e andarono ad aprire la sua porta. E quello che videro li lasciò sconcertati. Guido era in piedi davanti all’armadio aperto, dove in bella vista era appeso uno dei miei costumi di scena.
I nonni gli chiesero cosa stesse facendo, e lui rispose che stava parlando con la mamma. Poi, senza dir altro, chiuse l’armadio e ritornò a letto. I nonni non si preoccuparono più di tanto. Lo presero come una specie di bizzarro gioco del ragazzino, ma quando il mattino dopo cercarono di intavolare il discorso di quel gioco notturno, lui si chiuse in sé stesso. La notte seguente, i nonni restarono con gli orecchi tesi, e a un certo momento sentirono ancora dei bisbigli. Stavolta si avvicinarono alla porta senza aprirla e stettero a origliare. Le voci che sentirono erano due. Una la riconobbero come quella del nipote, e l’altra era più sottile, come fosse una voce femminile. Aprirono la porta e videro la stessa scena della notte prima. Ma stavolta il ragazzino la prese male e disse in malo modo ai nonni di andar via. Quando tornai dalla tournee e i miei genitori mi raccontarono di quelle scene notturne, io ne parlai subito con Guido. Ma lui si incupì e non aprì più bocca. Quella stessa notte mi appostai vicino alla porta della sua camera, e a un certo momento sentii gli stessi bisbigli a due voci, e riuscii anche a percepire una parola detta con la vera voce di Guido: Carmen. Ma temendo la stessa reazione avuta coi nonni, non lo disturbai. Per tutto il periodo che rimasi a casa, mio figlio aveva un comportamento normalissimo. Andai a parlare con gli insegnanti di scuola, tacendo questa stranezza, e mi dissero che il ragazzo era uno dei migliori. E anche con i suoi compagni andava tutto bene. Allora mi recai a parlare con uno psicologo, e dopo avergli esposto il caso, mi rispose che era materia psichiatrica, e mi fornì l’indirizzo di uno specialista di sua conoscenza. Il quale, dopo che gli ebbi raccontato tutto, mi rispose che senza poter esaminare il soggetto, cosa che sconsigliava per non arrecare traumi al ragazzo, poteva solo ipotizzare che Guido era affetto da disturbo dissociativo dell’identità. La causa poteva essere imputata alle mie assenze, che avevano provocato uno stress psicologico al punto di portarlo a uno sdoppiamento della personalità. Guido compensava l’assenza della madre rapportandosi con la medesima tramite un suo costume di scena, e impersonando due ruoli, quello reale di sé stesso che si frapponeva a quello immaginario della madre assente. Mi disse che non c’erano cure scientifiche, ma visto che quel comportamento non arrecava danni a nessuno, e lui per il resto era normalissimo, se la cosa rimaneva circoscritta a quelle manifestazioni notturne, non c’era da preoccuparsi. Lo psichiatra concluse il discorso dicendo che forse, ma solo forse, la mia presenza costante poteva risolvere il problema. Ma la mia professione non puoi scegliere dove farla, devi seguire la troupe. Perciò presi la dolorosa decisione di smettere con l’attività teatrale e fare qualcos’altro. E cosa può fare una cantante lirica? Dare lezioni di canto. L’abitazione dei miei genitori è molto grande e mi offriva la possibilità di unire due camere, isolare acusticamente pareti e soffitto, e farne una scuola privata di canto. E così potevo dedicarmi a mio figlio. E magari formare anche una famiglia trovandomi un compagno. Le occasioni non mi sono mancate, ma non le avevo mai prese in considerazione perché so quanto sia possibile sfasciare una famiglia a causa di una vita itinerante. Ma quando ho cambiato vita, al pensiero che trovare qualcuno correvo il rischio di creare altri problemi a mio figlio, ho buttato al vento ogni progetto e mi sono dedicata anima e corpo a lui. La scuola di canto si è avviata bene, e Guido è cresciuto a modo, studiando fino a prendere la laurea in lettere e a trovare un buon impiego presso una casa editrice. Però, nonostante tutto il mio affetto e quello dei nonni, quei comportamenti notturni se li è portati dietro fino ad oggi. Ma infine ce ne siamo fatti una ragione, visto che quello è l’unico neo della sua vita. Non ha vizi, tipo fumare o bere, so che sul lavoro è molto apprezzato, e passa tutto il tempo libero a leggere nella sua camera. Forse è anche per quello che si è rovinato la vista e ci vede poco. Come ogni mamma, avrei voluto che si facesse una famiglia, ma non ho mai saputo che frequentasse ragazze, e quando è arrivato ai trent’anni ho cercato di toccare quel discorso, mi ha risposto che lui una compagna ce l’ha, e quella resterà per tutta la vita. Ma non sono riuscita a sapere altro, se non il nome: Carmen. Mi creda Josè, in quel momento mi sono sentita mancare, perché il costume di scena che tiene nell’armadio e con cui conversa di notte, è quello che io indossavo in quell’opera. A quel punto cosa potevo pensare?”.
“Forse è lei, Livia, l’amore di Guido non solo nella veste di madre, ma anche in un’altra. E’ quello che in psicoanalisi viene chiamato Complesso di Edipo, una teoria di Freud.” intervenni io.
“Anch’io ho pensato così. Come mi aveva detto lo psichiatra, Guido soffriva per la mia mancanza e la compensava interloquendo con il costume di scena, che è uno degli abiti che usavo nel ruolo di Carmen. Diversi anni fa mi chiese il nome del personaggio di quel costume. E crescendo, non c’è stata più la madre nel costume, poiché io ero tornata a casa, quindi mi ha sostituita con un’altra figura, che nel suo immaginario è la sua compagna di vita. Va bene, mi son detta, se lui è felice così, perché dannarsi l’anima? La vita va avanti lo stesso, e l’unico pensiero è che la sua mente non vada a peggiorare. Ma invece, circa due mesi fa, gettando dell’immondizia nel bidone della spazzatura, vi ho scorto dentro dei fogli appallottolati, sicuramente gettati da Guido, e ho ceduto alla curiosità. Li ho presi, me li sono portati in casa e li ho letti. Erano tutte lettere d’amore corrette e scarabocchiate, indirizzate a una cantante di nome Carmen, e il contenuto era pressoché simile a quello che due sere fa, ho letto nelle lettera che ha scritto lei. Ma Guido, lo posso giurare davanti al Padreterno, non è mai uscito di casa una sera della sua vita. E come può essere andato a un’opera teatrale, aver avuto una straordinaria avventura con questa cantante, che guarda caso si chiama Carmen? Tutto nella sua fantasia, José. Ma non mi sono preoccupata, ho pensato che fosse una variante di quei suoi rapporti notturni. Ma l’altra sera, per la prima volta in vita sua, Guido non è tornato a casa. Al momento non mi sono preoccupata, succede che ritardi quando si ferma in qualche negozio a comprare un libro. Ma quando sono arrivate le otto, ho pensato male. Allora gli ho telefonato, ma il cellulare diceva: non raggiungibile. Non sapevo cosa pensare, se non le peggiori cose. Non ho dormito tutta la notte, poi alle nove del mattino ho telefonato alla casa editrice, ma mi hanno detto che non era arrivato. Non mi restava altro che recarmi dai carabinieri. I quali mi hanno detto di aspettare fino al giorno seguente, e nel caso non fosse rientrato, di ritornare da loro a fare la denuncia di scomparsa. Quando sono tornata a casa, sono andata in camera di Guido per cercare qualcosa che potesse darmi qualche indizio, ma non trovai niente. Infine, quando aprii l’armadio, sul fondo, sotto il costume di scena di Carmen, c’era una busta. Conteneva una lettera. Una copia dattiloscritta con gli stessi argomenti di quei fogli che avevo trovato nel bidone dell’immondizia. Poi vidi scritto sulla busta quel nome e numero di telefono. Chi poteva essere José Arcadio? Quale collegamento poteva esserci tra lui e mio figlio? Con le dita che mi tremavano, composi il numero e mi rispose lei, José”.
Ero allibito dal racconto di Livia, una storia come questa si sarebbe potuta leggere in un romanzo surreale. Lei mi guardava con uno sguardo di chi chiede aiuto, ma cosa potevo dirle? Le potevo solo raccontare quello che mi aveva detto suo figlio. Ma dopo averlo fatto, eravamo ancora lì a guardarci negli occhi condividendo forse la medesima domanda: che fine aveva fatto Guido?
A quel punto non avevamo altro da dirci, purtroppo. Perché mi sarei inventato qualsiasi cosa, pur di continuare a perdermi nei suoi occhi verdi. E mentre vedevo scomparire Livia lungo le scale del pianerottolo i miei pensieri non erano per Guido, ma rincorrevano l’immagine di sua madre.
Avevo da scrivere una lettera, ma non avevo la testa per farlo. Così mi misi seduto in poltrona con un libro che ancora non avevo iniziato: L’amore ai tempi del colera del venerato Garcia Marquez.
Fu la luce del sole attraverso la finestra a farmi aprire gli occhi. Ero stato colto dal sonno con il libro in mano e avevo dormito tutta la notte. Guardai l’orologio, mancava poco alle dieci. Mi alzai con le ossa doloranti, la poltrona per me non è il massimo per dormire. Preparai un caffè forte, e poi mi misi davanti al PC e iniziai la lettera per un tizio che mi aveva chiesto di scrivere un messaggio con tanto sentimento per una compagna di Liceo di sua figlia, della quale si era invaghito. Non ne ero entusiasta, ma per la regola che non si sputa nel piatto in cui si mangia, mi misi all’opera con gli appunti che mi aveva dato come traccia. Ma la mia testa era dentro le nuvole, o per meglio dire, dentro gli occhi di Livia. Ed ero erano arrivate le quattro del pomeriggio senza che mi riuscisse di concludere qualcosa. Ma forse Calliope, la musa degli scrittori, si rifiutava di aiutarmi a scrivere quella lettera. E pensai che aveva delle ottime ragioni. Con quale pelo sullo stomaco, e pure nel cervello, si può scrivere una lettera per un tizio che vuole portarsi a letto la compagna di scuola di sua figlia? Spensi il PC e presi in mano il romanzo di Marquez. Non ne staccai gli occhi fin quando non lo terminai. Erano le nove di sera. Sotto casa mia c’è un turco che fa i Kebab, ha un piccolo locale con due tavolini. Scesi, ne mangiai uno bevendo una birra, poi tornai a casa e mi misi a letto.
Il mattino dopo mi svegliai con un unico pensiero fisso: Livia. Avrei voluto chiamarla, anche per sapere se ci fossero novità, anche… E poi, se non c’era niente di nuovo, cosa potevo dirle d’altro?
Rinunciai e tirai sera scribacchiando. Scesi dal turco, ho poca fantasia col cibo, infine tornai a casa.
Mi ero messo a letto da poco, quando squillò il telefono. Alle undici di sera, per nessuna ragione al mondo rispondo al telefono, ma chissà quale percezione mi fece rispondere. “Pronto” dissi un po’ scocciato, ma il fastidio passò subito nel sentire la voce di Livia: “José, mi scusi se la disturbo, ma devo darle una grande notizia!”. La grande notizia era che i carabinieri avevano trovato suo figlio seduto al terminal dell’aeroporto di Malpensa con gli occhi fissi sul tabellone degli arrivi. Quando gli agenti, dopo averlo identificato, gli avevano chiesto che cosa ci facesse lì, rispose che aspettava una persona. E dato che nulla vieta a una persona dall’aspetto per bene, e che non rompe le scatole ad alcuno, di stare in aeroporto, avevano telefonato a Livia, che si era precipitata all’aeroporto, e appena Guido l’aveva vista, le aveva messo le braccia al collo dicendole: “Finalmente sei arrivata!”.
“Ma era lucido con la testa?” chiesi preoccupato. “Normale come sempre. Anche se dire normale… Poi siamo tornati a casa, mi ha salutato e ha detto che era un po’ stanco e andava subito a dormire”.
“Non ci posso credere!”. E a quel punto mi venne spontaneo darle del tu. “Livia, cosa pensi? Chi mai poteva aspettare all’aeroporto? Forse la fantomatica Carmen?”. “Il mio stesso pensiero José, ma quale Carmen? Visto che ha detto a me: Finalmente sei arrivata. Non ci capisco più niente… temo che stia peggiorando” rispose. “In qualsiasi modo ti possa aiutare, non farti scrupoli a chiamarmi, anche domani, così mi dici come vanno le cose” le dissi. “Grazie” rispose e chiuse la telefonata.
L’indomani attesi inutilmente la telefonata di Livia, allora alle cinque del pomeriggio la chiamai io.
“Ti disturbo?” chiesi senza salutare né dire chi fossi. “Buongiorno José, stavo proprio per chiamarti. Prima non ho potuto perché oggi ho avuto due allieve di canto. Questa mattina Guido si è alzato alla solita ora, abbiamo fatto colazione insieme e poi è andato al lavoro. Tutto come sempre. Io non me la sono sentita di accennare a qualcosa di ciò che è successo. Non so come l’avrebbe presa. Ma sono molto preoccupata. Però non mi sento di mettere Guido nelle mani di uno psichiatra, non ancora…”.
“Ti posso capire… comunque, se posso esserti di aiuto, per quel che posso fare, non farti problemi”.
Mi ringraziò e mi salutò. Stavo dicendo: “Livia, se ti va…” ma aveva già riagganciato.
Allora pensai che non fosse il caso… Poi decisi che era invece il caso, e feci di nuovo il numero.
Rispose subito. “Dimmi, José“. “Livia, se ti va qualche volta di venire a bere un caffè e fumare una sigaretta… così parliamo un po’… piuttosto che al telefono…”. “Grazie José, dopo la scomparsa dei miei genitori, solo tu sai di questa faccenda. E a volte avrei proprio bisogno di parlare con qualcuno. Ma non vorrei darti…”. “Mi fa solo piacere, Livia. Vieni pure quando vuoi, per te ci sono sempre”.
“Grazie José, allora a presto”.
Mentre guardavo lo schermo del telefonino che si spegneva, pensai che non c’era miglior motivo per ricominciare a fumare.
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