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Scoglio della sirena

Scoglio della sirena

di G. Ghirelli 
Prima parte / “Il guardiano del Faro”

Mi chiamo Joaquim ed ero il guardiano di un faro.
Ormai sono rimasti in pochi a fare questo lavoro, perché la navigazione adesso è assistita dai mezzi di localizzazione satellitari, e con questo sistema è raro che un’imbarcazione sbagli rotta, o che un navigante non sappia con precisione dove si trova. Questo non vuol dire che tutti i fari non siano più necessari, alcuni continuano nella loro funzione, specie in alto mare, dove i banchi di scogli sono un’insidia per la navigazione. E in quelli che non sono controllati a distanza, serve la costante presenza dell’uomo per provvedere al funzionamento, fare le manutenzioni e le riparazioni.
Questo era il mio lavoro, su un piccolo isolotto chiamato Scoglio della sirena, che emerge dalle acque dell’Oceano Atlantico a sette miglia a ovest dell’Arcipelago di Madeira, dove è situato un vecchio faro di giurisdizione portoghese.
Il nome di questo isolotto risale al 1500, quando nel viaggio di Amerigo Vespucci verso l’America,
la vedetta, dal pennone del vascello, vide al largo di Madeira una sirena sullo scoglio. Lo gridò agli uomini dell’equipaggio, ma nessuno vide la sirena e pensarono che la vedetta avesse bevuto troppo.
Ma quel fatto entrò nella leggenda a tal punto, che l’isolotto venne chiamato Scoglio della sirena.
Quando decisi di fare questo lavoro, ero alla soglia dei cinquant’anni. Prima facevo il motorista su una motonave della Marinha Portuguesa. Ma ero stufo di passare la vita stivato nella sala macchine con la cuffia paraorecchie per non farmi assordare dal rumore dei motori diesel, oltre ad avere perennemente nella pelle la puzza di olio motore. Decisi di mollare quel lavoro, e dato che avevo una certa predisposizione per la vita solitaria e competenze di meccanica, la Marinha Portuguesa mi offrì in alternativa questo incarico. Accettai volentieri questa mansione, convinto che una vita in solitudine mi avrebbe fatto trovare i veri valori esistenziali. Cercavo l’essenza di me stesso.
E respirare aria pura nel silenzio in mezzo al mare mi avrebbe depurato dai rumori e odori del vecchio lavoro. Ma troppo silenzio e solitudine possono anche fare impazzire.
I primi tempi, fare quella vita mi pareva un sogno. Il faro si accendeva da solo con un timer, e mi bastavano due o tre ore al giorno per la manutenzione dei meccanismi e del generatore di corrente. Il resto della giornata lo passavo a pescare e a leggere libri, che mi facevo portare dal battello che veniva ogni dieci giorni a portare i rifornimenti.
Per non perdere l’uso della parola, passavo un po’ di tempo parlando al radiotelefono con qualche radioamatore, ma erano discorsi che mi interessavano poco, e allora presi a farlo sempre meno.
Quando incominciai a stancarmi di tenere troppo gli occhi sui libri, provai a scrivere delle storie, ma dopo qualche racconto la mia fantasia si esaurì, e non sapevo più cosa scrivere. Mi ero messo a tenere un diario, ma cosa potevo annotare, se ogni giorno era la fotocopia del giorno prima?
Anche le burrasche, che venivano quasi sempre di notte, non animavano più di tanto la mia vita, se non tenermi sveglio a guardare le onde che si rovesciavano sul faro come se volessero portarlo via.
Le prime volte quasi me la facevo sotto dalla paura, ma ci si abitua a tutto, e anche le burrasche mi entrarono nella pelle e non mi agitavano più, anzi, nelle notti insonni mi tenevano compagnia.
Mi feci portare un blocco di fogli da disegno e dei pastelli, e provai a disegnare, ma non avevo la mano giusta e facevo solo scarabocchi. Ero rattristato, perché nello scenario in cui vivevo avrei potuto dipingere dei panorami con albe, tramonti e mareggiate fantastiche.
Quindi archiviai fogli e pastelli in un cassetto.
Siccome mi ricordavo di qualcuno che trovava molto rilassante ingannare il tempo facendo lavori a maglia, mi feci portare un po’ di gomitoli di lana di vari colori, ferri per lavorare a maglia e un manuale per imparare quel lavoro. Imparai in fretta, e quell’attività mi piacque e diventò il mio passatempo preferito.
Il battello dei rifornimenti mi portava più gomitoli di lana che non viveri. E confezionai tutti gli indumenti che si potessero fare a maglia: riempii il baule della stanzetta con calzettoni, maglioni e cuffie per coprirmi la testa, che ormai era pelata -ma in compenso avevo una barba come Robinson Crusoe-. Con gli avanzi della lana, realizzai una coperta multicolore per il letto.
E per mantenere in esercizio le corde vocali, intanto che lavoravo a maglia, cantavo.
E scoprii di avere una voce intonata. Mi piacevano le canzoni liriche, ma non ne conoscevo molte, e quando mi stancai di cantare sempre quelle, ne inventai di mie. E cantavo da mattina a sera.
E così passò qualche mese, fin quando, dopo due o tre volte che risposi ai discorsi degli uomini dei rifornimenti cantando le mie liriche, portarono al faro un medico per l’usuale controllo sanitario, ma penso che volessero controllare il mio cervello.
Lui mi visitò, mi fece un po’ di domande, compilò un rapporto e ripartì.Non so cosa scrisse su quei fogli, ma penso che non mi ritenne abbastanza schizzato, dato che mi lasciarono continuare a fare quel lavoro.
Una notte venne una burrasca incredibile, dei marosi così travolgenti non li avevo visti mai.
Il mattino dopo il mare era tornato calmo, e dalla piccola finestra della mia cameretta vidi che aveva il colore verde dello smeraldo. E vidi qualcos’altro, qualcosa che affiorava sull’acqua vicino alla scogliera. Mi precipitai sugli scogli e mi sentii ghiacciare il sangue. Sotto il pelo dell’acqua si intravedeva un corpo, e dei lunghi capelli affioravano in superficie.
Senza neppure togliermi i calzoni e la maglia, mi tuffai in acqua e con poche bracciate raggiunsi il corpo inanimato, lo presi per i capelli e riuscii a trascinarlo fin sopra gli scogli. Solo allora mi accorsi che non era un corpo normale, ma quello di una sirena. La coda era marroncina, simile a quella delle foche, mentre il corpo e il viso erano di colorito chiarissimo, con i capelli color grano.
Pensai di non essere sveglio, di essere in un sogno, perché le sirene si possono solo sognare, oppure esistono nelle leggende o nelle favole. Oppure ero schizzato e il dottore non l’aveva capito.
Ma schizzato o no, quell’essere inanimato lo avevo tirato fuori io dal mare, avevo calzoni e maglia bagnati, e la sirena era proprio lì, sotto i miei occhi, e sembrava morta.
Forse la burrasca notturna l’aveva colpita con tale violenza da ferirla mortalmente. Forse…
Provai a fare l’unica cosa che potevo: misi la mia bocca contro la sua e presi a soffiare forte. Dopo qualche soffiata, sentii che dalla sua bocca usciva un flebile respiro. Poi le vidi socchiudere gli occhi. Era viva! E aveva gli occhi del colore del mare profondo, e le labbra di colore rosa arancio.
Sarà stato per la gioia di vederla respirare, e anche per i suoi meravigliosi occhi e per quelle labbra, che la baciai. Credo che non si accorse, perché restò ancora come in trance.
Non sapevo cosa fare, e l’unica cosa che mi venne in mente, fu di andare a prendere uno dei miei maglioni di lana e di infilarglielo addosso, perché era una mattina fredda e vederla così nuda…
Poi finalmente mosse un braccio e poi la testa. Ma appena mi vide cacciò una specie di grido e i suoi occhi furono stravolti dallo spavento. Si sollevò col busto e cercò di muoversi, probabilmente voleva scappare, ma non vi riuscì e fece un verso che mi sembrò di dolore.
Forse la burrasca l’aveva scaraventata contro gli scogli e le aveva provocato qualche frattura.
Provavo una grande compassione per quella creatura, ma cosa potevo fare?
L’unica cosa che mi venne in mente, fu di provare a liberarla dal timore di me cantandole una delle mie canzoni inventate, quella che avevo intitolato Ilia, dedicata a una dea delle arti di mia fantasia.

Ilia, dolce mia musa,
con l’onda del mare
mi giunge il tuo canto
che mi ristora il cuore…

Quel canto fu miracoloso, perché la sirena si tranquillizzò e mi rivolse uno sguardo rasserenato.
Restai seduto sullo scoglio cantando fino a sera, e lei mi ascoltava. E quando cominciò a farsi buio, pensai di trascinarla fin dentro il faro; ma appena mi avvicinai a lei, i suoi occhi tornarono a farsi di paura. Però non volevo lasciarla sola sullo scoglio, temevo che se fosse venuta una burrasca, il mare l’avrebbe inghiottita. Allora andai a prendere una coperta e mi stesi poco distante da lei.
Non sapevo quale sentimento fosse scaturito in me quando l’avevo baciata, ma capivo che quel bacio avevo segnato il mio destino: se fosse venuta la burrasca, mi sarei lasciato portar via dal mare insieme a Ilia. Quello era il nome che avevo dato alla sirena, poiché era quello della canzone che l’aveva rasserenata.
Quella notte il mare rimase tranquillo, e in quella quiete mi addormentai.
Mi svegliai alle prime luci dell’alba e vidi che Ilia non si era mossa da lì. Stava col busto eretto e indossava ancora il mio maglione. Le sorrisi e lei mi guardò con occhi sereni. Teneva in mano un pezzetto di conchiglia, e con quello stava scalfendo lo scoglio, come se volesse incidervi qualcosa.
Non riuscivo a capire cosa stesse facendo, ma non volevo avvicinarmi, temevo di spaventarla.
Per un po’ restai lì a guardarla, poi mi venne un’idea. Mi alzai lentamente per non impaurirla, andai nella mia cameretta e tirai fuori dal cassetto il blocco dei fogli da disegno e i pastelli. Poi tornai fuori, mi rimisi al mio posto e incominciai a fare ghirigori con le matite colorate su un foglio.
Con la coda dell’occhio vidi che Ilia era incuriosita da quello che facevo. Io disegnavo schizzi sui fogli e poi li mettevo con noncuranza in terra, in maniera che Ilia potesse vederli. E infatti lei era interessata a guardare i miei disegni. Allora tentai un’altra mossa: mi avvicinai adagio adagio a Ilia e deposi sullo scoglio, poco distante da lei, il blocco da disegno e i pastelli. Poi tornai al mio posto, e rimasi lì seduto con lo sguardo rivolto verso il mare, ma spiando la sirena con la coda dell’occhio.
Ma forse era una pia illusione, sperare che lei prendesse fogli e pastelli e si mettesse a disegnare!
Infatti continuò a scalfire lo scoglio col pezzetto di conchiglia, ignorando quegli oggetti.
Decisi di lasciare sola Ilia, darle tranquillità, e tornai nella mia stanzetta e mi stesi sul letto. Avevo le ossa doloranti per la nottata passata all’addiaccio. E appena mi fui sdraiato venni colto dal sonno.
Quando mi destai, stava tramontando il sole. E fui subito preso da un’inquietante sensazione. Mi alzai, mi affacciai alla finestra e mi si gelò il sangue nelle vene. Ilia non era più sullo scoglio. Corsi fuori e la cercai perlustrando la scogliera tutto intorno al faro, ma la sirena era sparita.
Mi misi a gridare ai quattro venti: Ilia! Ilia! Non ragionavo più. Avevo l’illusione che la sirena potesse rispondere al mio richiamo.
E infine tornai alla ragione, e considerai che ero stato colto da una temporanea follia, che non era altro che il frutto di quella forzata solitudine. Non c’era mai stata alcuna sirena su quello scoglio.
E nella follia, avevo deposto sugli scogli uno dei miei maglioni, una coperta e il blocco dei fogli da disegno con i pastelli. Li raccolsi, e nel farlo vidi qualcosa che i miei occhi stentarono a credere.
Su uno di quei fogli c’erano pitturate le più belle onde di mare che si possano dipingere.
Ma le vidi solo per un attimo, perché poi, come se il destino avesse deciso che non dovesse restare traccia di questa vicenda, e che dovessi ricordarla solo come frutto della mia immaginazione, arrivò un’improvvisa folata di vento che mi rubò il foglio dalle dita e lo fece volare in mezzo al mare.
Con l’anima stremata, provai a perlustrare il punto dove Ilia graffiava lo scoglio con la conchiglia.
Era l’ultimo appiglio per la mia mente sconvolta: trovare qualche traccia di quei segni.
Ma anche le ghiaie che si frangono sugli scogli con le mareggiate lasciano graffi. E distinguerli…
Allora mi lasciai cadere sulle ginocchia e rimasi a fissare il mare.
Non so quanti giorni erano passati quando arrivarono gli uomini dei rifornimenti, che mi trovarono macilento sulla scogliera, che cantavo:

Ilia, dolce mia musa,
non sento più il tuo canto,
il mare ti ha rapita
frangendo questo incanto…

Gli uomini dei rifornimenti mi parlavano, mi chiedevano…  Io cantavo, cantavo…
Allora mi caricarono sul battello e mi portarono al centro sanitario di Madeira, dove venni visitato dai dottori. Anche loro mi parlavano, mi chiedevano… Ma dalla mia bocca non uscirono parole, perché a quelle che avrei voluto dire, nessuno avrebbe creduto. E da allora smisi di parlare.
Ora sto invecchiando in una casa di assistenza della Marinha Portuguesa.
Leggo libri di leggende di mare. Me li procurano le inservienti, che mi trattano con riguardo.
Per comunicare con loro, scrivo su dei fogli.
Due li ho usati per scrivere questa storia.

 “La donna dei fari” (Seconda parte )

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