di Adriana Colli
La nostra era una casa di contadini e non esistevano le comodità attuali.
La cucina era l’unico locale della zona giorno: l’arredamento consisteva in un grande tavolo, aveva due cassetti, uno conteneva le posate, coltelli di varie misure e piccoli attrezzi, nell’altro, forbici, aghi, filo ecc. per cucire o rammendare. Le sedie erano impagliate. Un armadio a muro “credenza” per piatti e fondine, tazze, bicchieri ed i pochi pentolini piccoli, più il cibo da consumare giornalmente come formaggio e uova ed eventuali avanzi del pasto. Un ripiano con ganci per appendere i secchi “sedel” che servivano per andare alla fontana a prendere l’acqua, e le pentole che non erano numerose. Una cassapanca “scrign” per le vettovaglie, riso, farina di mais per la polenta, pasta, farina bianca e zucchero. Un lavandino con una sola vaschetta ed il ripiano scolapiatti. Il camino e la stufa economica costruita in mattoni e rivestita di lamiera, a sinistra aveva lo sportello per la legna e sotto quello del cassetto della cenere, a destra il forno che non arrivava ad una temperatura da cuocere torte o altro, serviva solo per scaldare i piedi quando si rientrava bagnati e infreddoliti. Al tubo era attaccata una raggiera alla quale si appendevano i panni ad asciugare. Un attaccapanni.
Il tavolo era di legno chiaro, il nonno non voleva si mettesse la tovaglia cerata quando si mangiava e così accadeva frequentemente che si sporcasse ed usavamo spesso acqua e candeggina per poterlo pulire, contemporaneamente con il liquido che cadeva a terra si lavava anche il pavimento che era di cemento lisciato.
Nella camera, oltre ai letti, era presente uno scrigno poi sostituito con un cassettone, contenente la poca biancheria mentre i soli pochi vestiti che si possedevano venivano appesi ad un filo fissato alla parete. Non avevamo giacche, cappotti, giacche a vento… solo golfini di lana.
Quando pioveva, essendoci infiltrazioni dal tetto, in alcuni punti delle camere e della cucina, bisognava mettere dei contenitori per raccogliere le gocce dell’acqua piovana. Non era disponibile l’acqua corrente in casa e quindi, a turno, si andava alla fontana a circa 150 metri con due secchi e si portava la quantità necessaria per bere, far da mangiare, lavarsi e pulizie varie. Per il bucato ci si recava alla medesima fontana ove c’era anche l’abbeveratoio per le mucche e di fianco il lavatoio con due vasche, in una si lavavano i panni e nell’altra venivano risciacquati, l’acqua era sempre corrente. Alle volte invece si accompagnava la mamma al torrente Inganna, per esempio, se si dovevano lavare tutte le lenzuola.
Noi come del resto l’intero vicinato non avevamo la cucina a gas sicché preparare colazione, pranzo e cena era impegnativo; in inverno a causa del freddo si accendeva la stufa al mattino e la si alimentava a legna per tutta la durata del giorno, in questo modo era possibile cuocere e scaldare senza problemi mentre in estate essendo caldo si accendeva il camino solo all’occorrenza. Se serviva la pentola grande si appendeva il manico alla catena appesa in corrispondenza della fiamma, se il pentolino era piccolo per poterlo appoggiare si metteva sul fuoco o sulla brace un treppiedi di ferro. Avevamo il paiolo in rame per la polenta ed in rame stagnato una pentola alta per la minestra ed una bassa per altre cotture.
Il caffè o perlomeno quello che noi definivamo in questo modo veniva preparato sempre nello stesso pentolino: giorno dopo giorno si aggiungeva l’acqua, una piccola quantità di orzo tostato e macinato, e dell’estratto di caffè “Leone” per dare sapore e colore. Quando il deposito solido arrivava a metà pentolino lo si versava e veniva usato per concimare i fiori, una volta ripulito il contenitore si ricominciava di nuovo.
Non avevamo frigorifero, non serviva nemmeno, i nostri prodotti si consumavano giorno per giorno. Per avere il burro d’estate quando le mucche salivano all’alpeggio e non potevamo averlo fresco, lo si faceva bollire e poi versato in vasi di vetro ottenendo così il “burro cotto”.
Ai primi freddi si uccideva il maiale, al mattino presto arrivava il macellaio a casa e procedeva all’abbattimento e con l’aiuto di papà ed altri si procedeva alla lavorazione della carne il giorno stesso. Per la conservazione dell’insaccato bastava la cantina. Il grasso del maiale veniva cotto dalla mamma e conservato in vasi, era lo strutto che si usava per friggere le frittelle o le patate oppure aggiunto al burro per condimento. Le frattaglie che si dovevano mangiare in pochi giorni venivano condivise con le altre famiglie del vicinato che a loro volta facevano altrettanto. Non si sprecava nulla, gli scarti del pranzo e cena si davano al gatto, alle galline o al maiale. Le stoviglie e pentole varie si lavavano senza detersivo nell’acqua bollente che poi serviva come beverone per gli animali.
Tutto veniva riutilizzato. Se era necessario fare acquisti al negozio, si andava con la borsa della spesa e con i vari sacchetti in tela: per il riso, la pasta, lo zucchero, la farina e il pane, (quello comune perché quello bianco costava troppo) se erano prodotti che dovevano essere incartati, la carta poi veniva usata per accendere il fuoco. Quando non si poteva pagare la spesa per mancanza di soldi (perché la paga del papà non arrivava regolare ed anche non era comunque sufficiente per tutte le necessità) ci veniva segnato il dovuto su un libretto e saldato successivamente.
Il bagno non esisteva, noi lo chiamavamo “gabinet” e vi si accedeva uscendo su un terrazzino, consisteva in un piccolo locale con una panca con un foro centrale su cui ci si poteva sedere. Ad un chiodo al muro erano appesi dei pezzi di giornale al posto della carta igienica. La “fogna” quando periodicamente si svuotava, serviva per concimare i campi. Per lavarsi al mattino o durante il giorno, c’era un solo catino ed era posizionato nel pianerottolo adiacente alla cucina, prima di usarlo ognuno provvedeva a cambiare l’acqua. Una volta alla settimana ci si lavava di più in un grande bagnino, solitamente alla sera in cucina, dopo che tutti erano andati a dormire. Nel letto non avevamo il materasso ma la “busaca” un sacco di tela riempito con le foglie morbide delle pannocchie di granoturco che ogni anno dopo la raccolta venivano sostituite. Il primo materasso vero e proprio fu di crine e non si è migliorato, anzi, era troppo duro e avremmo preferito tornare come prima, successivamente si passò al materasso di lana di pecora ed il riposo migliorò.
La camera era senza riscaldamento, pertanto, in inverno si mettevano delle coperte che più che tenere caldo erano pesantissime, erano di lana che pizzicavano oppure fatte a telaio ma sempre con ritagli di lana o tessuti vari. Prima di andare a dormire per intiepidire il letto si scaldava un mattone nel forno della stufa, si avvolgeva nella camicia da notte e si portava fra le lenzuola. Al mattino i vetri della finestra erano ghiacciati e dovevano essere raschiati per controllare il tempo all’esterno. Una vicina di casa aveva un telaio manuale non più largo di un metro, per confezionare le coperte bisognava cucirne almeno tre strisce, e così pure per le lenzuola di tela grezza. A volte assistevo a questo lavoro e controllata da lei mi lasciava usare il telaio. L’ordito verticale era già inserito, io potevo usare la spoletta col filato che si passava in orizzontale per la trama del tessuto.
Ripensando alle calzature ricordo solo le “Superga” di tela blu con la suola di gomma e le pantofole con la suola di tanti strati di tessuto molto resistente e la tomaia in velluto, confezionate da una signora del paese, le scarpe alte stringate per l’inverno si passavano l’un l’altro e facendo riparare la suola dal calzolaio più volte. Le nostre zoccole erano un lusso perché venivano fatte da mio padre con le macchine nella falegnameria dove lavorava. Per la tomaia si usavano delle strisce di cuoio che duravano più delle zoccole perché il legno si consumava in fretta. A questo proposito ricordo che il papà aveva fatto delle zoccole di legno per sostituire le suole bucate di un paio di scarpe all’anziano parroco Don Comitti. Il legno teneva più caldi anche i piedi.
Per vestirsi avevamo rigorosamente il vestito della “Festa” e quello di tutti i giorni, fortunatamente la zia che abitava con noi ed aveva partecipato ad una scuola di sarta, con dei ritagli e ricicli vari ci vestiva con poco, la penso sempre con affetto perché da piccola sicuramente mi avrà anche curato, ed ora ha 91 anni ed è l’unica zia ancora vivente. (Ricordo ancora la poesia da me recitata in occasione del suo matrimonio nel 1952) Le maglie e le calze erano fatte dalla mamma con la lana di pecora, da lei filata, col “filarèl” a pedale, pizzicavano un po’ ma tenevano caldo.
Altro problema era la luce perché bisognava risparmiare… c’erano le lampadine dalle 5 alle 100 “candele”. In camera si usavano quelle più fievoli mentre in cucina forse da 25, a me piaceva ricamare o leggere e lo facevo alla sera, però per vederci meglio dovevo sedermi sulla tavola per avvicinarmi di più alla luce della lampadina.
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