di Giulio Ghirelli
Quella con Beatrice, fu la seconda volta che mi recai in Comune a firmare un Atto di Matrimonio.
Già, perché se è vero che il postino suona sempre due volte, e che l’assassino torna sempre sul luogo del delitto, anch’io ho fatto la mia parte…
Beatrice l’avevo conosciuta quando eravamo entrambi nella fase della mezza età.
Era una nubildonna, cioè, detto in parole povere, una zitella. Però una nubildonna laureata a pieni voti, e di illustri origini, essendo figlia -unica- di un insigne architetto, nonché pronipote di uno dei più facoltosi industriali milanesi dei primi del ’900, il quale aveva dedicato buona parte dei suoi profitti mettendo insieme una collezione di opere d’arte che non in tutti i musei si riesce a vedere.
Una donna di livello diverso dal sottoscritto, che di popolane origini e con un sudato diploma di ragioniere, sprecava la sua vita come impiegato di concetto in un anonimo ufficio delle Poste.
L’incontro con Beatrice avvenne per una di quelle strane circostanze della vita che potrei definire: scherzi del destino e che, visto l’esito, mi viene da dire che se il destino facesse meno scherzi…
Tutto era nato dalla mia frequentazione con la domestica di Beatrice, una stagionata zoccolona di nome Iside, la quale, a una delle cenette che mi preparava a casa sua, aveva invitato anche la sua padrona. Forse per stimarsi con la nubildonna di avere un bel ganzo come me.
E devo confessare che Beatrice mi aveva colpito -più che per le sue doti fisiche, per quelle di buona creanza e istruzione-. Infatti era stata educata ed erudita in uno dei migliori collegi svizzeri.
E un tipo alla buona come me, nato e cresciuto in una casa di ringhiera, al cospetto di una dama di cotanto stile, nello svolgersi della cena ne venne sempre più attratto. E come mi affascinava quella sua parlata con la erre alla francese! Che purtroppo non sentivo frequentemente, dato che Beatrice aveva la virtù dei pesci, cioè poco ciarliera, forse per coerenza col suo segno zodiacale.
Fatto sta, che quella cenetta a tre finì in gloria con numerosi brindisi, alcuni dei quali li dedicai a quella zoccola di nome Iside, per avere combinato quella bella serata. E uno lo dedicai intimamente al piedino di Beatrice, la quale, seduta a tavola di fronte a me, lo aveva allungato fino a stuzzicarmi le caviglie. E chiedendomi se nei collegi svizzeri insegnavano anche quelle robe, o era autodidatta.
Col risultato che, se fino ad allora in quel prestigioso palazzo, per metà di proprietà di Beatrice, ero entrato dall’ingresso di servizio per andare a cena nel modesto bilocale di Iside, nei giorni seguenti entrai dal portone principale, invitato dalla nubildonna nel suo elegante attico all’ultimo piano.
Iside non la prese bene, e piuttosto che digerire la faccenda, si cercò un’altra padrona e andò via da quella casa. Così era risolto ogni eventuale conflitto tra le due donne, tipo gelosie e menate varie.
La casa di Beatrice faceva invidia ad un museo, parlando di opere d’arte. Una parte ereditate dal bisnonno, a cui si aggiungevano quelle raccolte dai nonni e dai genitori, ormai tutti deceduti..
C’era un quadro che mi attraeva particolarmente. Era una grande tela appesa alla parete di fondo del salone, che raffigurava indubbiamente una veduta del Canal Grande di Venezia. E ogni volta che andavo in quella casa, i miei occhi venivano attratti da quel dipinto, rimanendone affascinati.
Avevo poca idea di chi l’avesse dipinto, e siccome non volevo fare la figura dell’ignorantone, mi seccava chiedere a Beatrice chi ne fosse l’autore.
Poi un giorno ebbi la pensata di fare una domanda tranello a Beatrice: “È stupendo questo quadro, somiglia ai dipinti dell’eccelso… sarà mica lui?”.
“Canaletto” abboccò lei.
“Mi pareva!” mentii sfacciatamente, perché non avevo mai visto un dipinto di Canaletto, e il nome di quell’artista lo conoscevo soltanto perché era nella storia dell’arte.
Però quel pittore mi aveva incantato, e spesso i miei occhi erano più concentrati su quel quadro, che non sulla gentildonna. A tal punto, che una volta lei mi disse, tra il serio e il faceto: “Nel caso che ci mettiamo insieme, gli occhi li consumi tutti sul Canaletto, o anche un po’ su di me?”.
“Saresti disposta?” le chiesi.
“Ormai…” rispose lei con la erre alla francese.
Quindi colsi la palla al balzo, e decisi di attaccar su il cappello in casa della nubildonna.
Ma soltanto il cappello, dato che continuai ad appendere il soprabito all’attaccapanni dell’ufficio ragioneria delle Poste.
Non dovevo fare grandi traslochi: solamente due valigie con dentro i miei vestiti, che fino ad allora erano appesi in uno stantìo armadio in una stanzetta di una affittacamere, stantìa come l’armadio.
Il mio insediamento avvenne molto discretamente, e nessuno della casa si accorse che vi abitava un nuovo inquilino. Anche perché il palazzo era affittato quasi tutto a uffici, e nessuno faceva caso alla gente che andava e veniva.
Le cose parevano andare talmente per il verso giusto, che Beatrice caldeggiava l’idea di convolare a nozze. Quindi facemmo il grande passo. Matrimonio informale: l’officiante e due testimoni.
Come regalo per quell’evento, la consorte mi fece una bella sorpresa. Rientrando un pomeriggio dal lavoro, trovai nel salone, piazzata a pochi metri dal Canaletto, una grande poltrona, bassa e con la seduta lunga, di quelle che ci si può stravaccare e fare la pennichella. E devo dire che regalo più bello non potevo ricevere, perché stando sulla poltrona a leggere un libro, quando alzavo gli occhi e ammiravo quella magnifica veduta del Canaletto, mi sentivo come in un paradiso terrestre.
Ma -rubando una frase dell’Amleto di Shakespeare- c’è del marcio in Danimarca.
E me ne resi conto poco tempo dopo, quando incominciai ad accorgermi che qualcosa non andava per il verso giusto nella dimora sottostante quella di Beatrice, cioè quella dei suoi zii, unici parenti viventi della mia consorte, che avendo scoperto che avevo sposato l’unica erede della loro casata, avevano preso niente bene la faccenda.
Magari sentivano puzza di marcio, per il fatto che un proletario impiegato postale avesse attaccato il cappello nel loro patrizio palazzo di fine ’800, senza prendersi il disturbo di presentarsi a loro e fornire le proprie credenziali -tantomeno lo aveva fatto la mia consorte-. E neppure qualche timido tentativo di Beatrice per aggiustare le cose, riuscì a sbloccare la situazione.
Ai loro occhi, io non esistevo, ero un fantasma. E i fantasmi mica li saluti. Quando mi capitava di incrociare gli zii nel cortile del palazzo, invece di salutarmi, giravano la faccia dall’altra parte.
Fu lì, che invece di essere indulgente con Beatrice per darle forza, feci l’opposto, condannandola per il fatto di non riuscire a farmi trattare dignitosamente dai suoi parenti. Non volevo tanto, solo rispetto. E la condotta di quegli zii con la puzza al naso non era rispettosa.
Ma che colpa aveva Beatrice, se non possedeva la struttura mentale per fronteggiare i suoi parenti?
La mia esistenza in quella casa si stava guastando, perché, nonostante le argomentazioni di Beatrice che noi dovevamo fare la nostra vita, e gli zii la loro, io mi sentivo l’ospite indesiderato del palazzo.
Con la magra consolazione di mettermi in poltrona a leggere e ammirare il quadro del Canaletto.
Ma siccome sono testardo oltre ogni misura, continuai quella vita del cavolo, con la presunzione di riuscire un bel giorno a liberare Beatrice dal vincolo degli zii, i quali, con grande diplomazia, non smisero di avere cordiali rapporti con la nipote. A lei, per quieto vivere, andava bene così, a me no.
Beatrice era il contrario di me, che ho l’indole del combattente. Lei alzava subito bandiera bianca. Poi un giorno lo zio passò a miglior vita, e non avendo figli, destinò il primo piano del palazzo, e parte delle finanze, per creare una Fondazione che si occupasse della sua collezione di opere d’arte.
Naturalmente la presidente della Fondazione era la zia, la quale coinvolse Beatrice nominandola vice presidente. Quel nuovo ruolo della mia consorte, lo seppi da lei dopo un bel po’ di tempo, come se temesse di dirmelo. E da lì, si fece sempre più rarefatto quel poco dialogo che c’era tra di noi, portandoci infine a una vita apatica e un silenzio tombale, rotto soltanto dalla voce di Beatrice, che, in rispetto alla sua buona creanza, al mattino mi chiedeva: “Cosa desideri per cena?”.
L’impiego alle Poste mi lasciava libero alle quattro del pomeriggio, e se non ero fuori casa per una passeggiata o una mostra d’arte o incontrare un amico, stavo disteso sulla poltrona a leggere.
Beatrice aveva un impiego part-time come segretaria di redazione di una rivista, e poi, tre volte alla settimana, andava a sdraiarsi sul lettino di uno psicanalista. Ci andava da prima che la conoscessi.
Il tempo che le avanzava lo passava col suo unico hobby: ricamare cuscini. Era la casa dei cuscini.
Un giorno, lagnandomi con Beatrice che nei collegi svizzeri non insegnano a dormire senza russare, lasciai il letto coniugale e traslocai in una stanzetta vicino alla lavanderia. Lei non fece bè.
E avanti di questo passo per tanto tempo, troppo. Quando si è testardi… Poi arrivò il giorno.
Uno come tanti altri verso le sei del pomeriggio: io sulla poltrona a leggere, lei sul sofà a ricamare.
Poi uno squillo del campanello di casa. Beatrice va ad aprire la porta e torna nel salone seguita da due tizi che conosco, sono due dipendenti della Fondazione. Poi Beatrice indica loro il Canaletto, quelli staccano il quadro dalla parete e lo portano via. Io guardo Beatrice con gli occhi stralunati, e allora lei mi dice: “La zia dice che il mio Canaletto è un pezzo da museo, e nobilita la Fondazione”.
Disse esattamente così, senza darmi il conforto di una erre alla francese. Fine della storia.
Allora tornai a vivere da un’affittacamere, che stavolta non era stantìa come la precedente. Anzi, era una piacente signora bionda, un po’ minutina ma di bell’aspetto, dal carattere allegro e con una bella parlantina, che appena mi presentai sulla soglia di casa sua e le dissi che ero li per l’inserzione
che avevo letto sul giornale riguardo la camera da affittare, si era subito premurata di informarmi che era nubile, che lavorava in casa come sarta, e che era la prima volta che affittava. “Lo faccio per arrotondare il guadagno del mio lavoro, che è quello che è. Ho sempre vergogna ad aumentare i prezzi alle clienti, e col carovita che aumenta…”. Poi volle sapere chi ero, cosa facevo e compagnia bella. “Non si offenda, ma di questi tempi, con quello che si sente… e una donna sola come me, di sani principi e timorata di Dio, mica può mettersi in casa il primo che capita”.
Eravamo sulla soglia di casa e stavo per recitarle il mio curriculum, quando lei mi disse: “Entri a bere un caffè, che così mi racconta. Stare qui sulla porta…”. Mi condusse in cucina, dove mi fece sedere al tavolo e preparò i caffè. Poi si sedette di fronte a me e mi fissò con due begli occhi verdi.
Misi due cucchiaini di zucchero nel caffè e lei disse: “Non le fanno male due?”. Feci il sordo, e poi iniziai col dirle la mia età, e lei mi guardò un po’ delusa, come se si aspettasse che ne avessi di più.
“Io ne ho quattro più di lei, anche se non li dimostro, non le pare?”.
Mi complimentai con lei, perché in effetti Anita -questo il suo nome- portava molto bene la sua età.
Poi le esposi il mio curriculum, accennando al mio stato civile di marito prossimo al divorzio. Ed è stato lì che mi guardò con aria sospetta. Forse era una che pensava che gli uomini divorziati…
Segnai un punto a mio favore quando le dissi che ero ragioniere all’ufficio contabilità delle Poste.
“Un ottimo posto, lo stipendio è sicuro e prima di essere mandati via…” commentò. Finito l’esame, siccome ero stato promosso, mi disse: “Allora d’accordo, quando vuole venire?”.
“Se non ci sono problemi, anche subito” le risposi. Lei mi disse: “Va bene, ma i suoi bagagli?”.
“Devo fare due valigie all’albergo Quo vadis, in un paio d’ore vado e torno”.
“E per il pranzo e la cena come si regola?”. “Il pranzo alla mensa delle Poste, la cena in trattoria”.
“Mangiare sempre fuori… chissà il suo povero stomaco… e il costo…” commentò Anita.
Ignorai il commento, non volevo darle spago. Meglio tenere le distanze, perché poi magari viene fuori che fai del bene a stomaco e borsellino cenando con lei in cucina, e poi ti ritrovi in gabbia.
Quindi presi dimora in casa di Anita. Lei: stanza del lavoro di taglia e cuci, cucina, tinello, camera da letto e bagno. Io: cameretta con bagnetto di servizio in fondo al corridoio.
Mi imbarazzava entrare e uscire da casa passando davanti alla stanza di taglia e cuci, perché Anita teneva la porta aperta. Avrei preferito passare senza occhi addosso, ma meglio questo che altro.
Anche perché si era resa disponibile a lavare e stirare i miei indumenti. “Le ho rammendato i buchi dei calzini e attaccato un bottone della camicia. Poveri uomini, se non ci fossimo noi…”.
E così andò avanti la mia vita, buongiorno, buonasera, e qualche volta un cafferino in poltrona nel tinello. E poiché i discorsi si erano fatti un pochino più confidenziali, e siccome Anita, insieme ai caffè, intavolava certi educati pungolamenti, del tipo: “Una persona perbene come lei, che si separa dalla moglie…”, una sera, che dopo il caffè mi aveva offerto un cognacchino -che erano diventati due- mi liberai da ogni remora e le confidai le mie vicissitudini coniugali. Ma solo quelle del mio ultimo matrimonio -altrimenti la facevo lunga come I promessi sposi del Manzoni- spiegando per bene la faccenda del Canaletto, la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.
Forse gliela raccontai così accoratamente -colpa dei cognacchini- che alla fine Anita aveva gli occhi lucidi. E poi, nel darci la buonanotte, mi sfiorò fuggevolmente la guancia con un bacetto.
Non doveva essere abituata a tali effusioni, poiché le si arrossirono le gote. E buonanotte.
Quell’innocente bacio mi indusse, la successiva sera del caffè con cognacchino, a chiederle di darci del tu, e lei accettò. Così i nostri dialoghi si fecero più familiari e a volte, quando uscivo dal lavoro, quelle due ore che mi avanzavano del pomeriggio, anziché andare a passeggiare o vedere qualche mostra, tornavo volentieri a casa e le facevo compagnia mentre svolgeva i suoi lavori con ago e filo.
Poi accettai qualche suo invito a cenare insieme. Fino a quando anche quelle cene diventarono una consuetudine. Io mi offersi di darle un contributo per i viveri, ma Anita rifiutò dicendo: “Cucinare per uno o per due, il consumo del gas è uguale, e cosa vuoi che mi costi un piatto di pasta in più…”.
Da lì, non ci volle molto per prenderci la confidenza di darci il bacetto della buonanotte -sempre sulle guance-, e qualche tempo dopo, anche ogni volta che entravo e uscivo da casa.
Erano passati circa due mesi ed eravamo prossimi a Natale. Io mi presi l’influenza, che mi costrinse nel letto con la febbre. Anita mi assisteva come una suora amorevole. Ogni mezz’ora veniva al mio capezzale, mi misurava la febbre, mi preparava tisane e intrugli vari, mi rimboccava le coperte.
Quando venne sera, malgrado la trapunta che mi aveva messo sopra, tremavo dai brividi di freddo.
Allora lei, senza troppi indugi, si infilò nel letto vestita com’era, e appiccicando il suo corpo al mio, disse: “Non pensar male, che quando ero malata e tremavo per la febbre, mia mamma faceva così per scaldarmi”. Si può essere contenti di avere i brividi della febbre? Io sì…
Poi la febbre passò e Anita tornò a dormire nel suo letto. Mi augurai che pure a lei venisse la febbre coi brividi, in modo da entrare nel suo giaciglio per sdebitarmi… Ma lei aveva dei buoni anticorpi.
Un paio di giorni prima di Natale, mi ero accorto che Anita era più agitata del solito. Che già lei non era un tipo tranquillo, aveva il suo bel caratterino, e non gliele mandava a dire a certe clienti.
Le chiesi se andasse tutto bene e lei mi rispose che l’arrivo di certe feste le facevano quell’effetto.
Io avevo già in tasca il regalo per lei. Ma ero molto combattuto, perché quell’anellino che le avevo comprato, mi sembrava una forzatura, visto i nostri rapporti di casta amicizia. Perché quello che io avevo nel cuore, me lo tenevo per me. Ero prevenuto, a causa dei miei precedenti fallimenti.
La mattina di Natale, Anita mi disse che si era scordata di comprare il panettone. “La pasticceria Monzini a Porta Genova è aperta fino a mezzogiorno, e come fanno i panettoni loro, a Milano non li fa nessuno. Mi faresti un bel regalo se andassi a prenderlo tu, così io mi metto in cucina”.
La cosa non mi entusiasmava, perché da casa sua a Porta Genova e ritorno, coi mezzi pubblici che a Natale sono ridotti, mi sarebbe andata via la mattinata. C’erano delle pasticcerie più vicine. Ma era il minimo che potessi fare, dato che ero ancora indeciso se darle l’anellino o tenermelo in tasca. Tornai col panettone che mancava un quarto a mezzogiorno. Non usai le chiavi per aprire la porta, suonai al campanello. Mi pareva più carino fare aprire la porta a lei, ed esibirle sull’uscio di casa il panettone confezionato con la carta argentata e infiocchettato col nastro rosso, e dirle: “Auguri!”.
Lei prese il panettone ringraziandomi con due bacetti, poi andò a porlo sul tavolo della cucina, e infine tornò nel corridoio e mi disse: “Vieni!”. Mi prese per una mano -e la sua aveva un tremore come di agitazione- e mi condusse fin sulla soglia del tinello. Poi restò a guardarmi.
Io non ci capivo un tubo. E’ vero che la tavola era apparecchiata per il pranzo natalizio come Dio comanda, con tovaglia e tovagliolini ricamati, che solo Anita poteva ricamarli così. I calici avevano lo scintillio di quelli di cristallo e le posate mi parevano d’argento. Il servizio di piatti era di quelli che le nonne tiravano fuori dalle credenze solo per le grandi occasioni, piatti di porcellana bianca finemente dorata sul bordo, che al giorno d’oggi non se ne vedono più. Ma poteva essere l’eleganza di quell’arredo, a fare tremare le mani a una donna dal carattere forte come Anita? O forse mi era sfuggito qualcosa?
“Che meraviglia! Da fare invidia alla tavola da pranzo dei Reali d’Inghilterra!” esclamai.
“Non la tavola, guarda sulla parete di destra” disse lei.
Io avanzai di un passo nel tinello per vedere la parete, e ciò che mi apparve era roba da non credere.
Sopra la bassa credenza, dove stavano appesi due quadri di paesaggi, ora c’era una grande stampa che riproduceva un dipinto di Canaletto, una veduta del Canal Grande di Venezia.
Era di certo stata messa di fretta, un po’ storta e fissata alla parete con del nastro adesivo.
Non riuscivo a trovare le parole, e di sicuro non mi sarebbero uscite di bocca per l’emozione.
“E’ il mio regalo di Natale… non è certo di valore… ma se ci mettiamo una bella cornice…”.
Poi Anita mi porse le mani. Le strinsi nelle mie. E avrei potuto tenergliele strette così all’infinito. Avvicinai il mio viso al suo, e guardai nei suoi occhi col desiderio di perdermi dentro quel verde. E finalmente le parole uscirono: “E’ di immenso valore, immenso come ciò che provo per te”.
Non era la sua solita voce squillante, era sussurrata, quando mi rispose: “Mon amour”.
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