di Giulio Ghirelli
Mancano pochi minuti a mezzogiorno, e sono seduto al tavolo della cucina nella mia casa al lago a bere il caffè. Già, perché io non sono un tipo mattiniero. Poi taglierò l’erba del prato.
E quando avrò finito, mi metterò a cavallo della mia moto rossa e andrò a fare un bel giro su per i monti. Sta iniziando la primavera, e non vedo l’ora di svegliare dal letargo invernale il mio cavallo d’acciaio e farmi una bella cavalcata.
Sento suonare al citofono. Sarà uno di quei venditori porta-a-porta che ormai arrivano a tutte le ore del giorno. “Chi è?” rispondo quasi scocciato. Una gentile voce femminile dice: “Giulio Ghirelli?”.
-Beh -mi dico- almeno è una donna-. Quindi apro la porta, e chi vedo sul cancello? Una visione! Perché altra non può essere, quell’immagine femminile di età indefinibile, vestita con una tunica che sembra un sari indiano, color rosa pesca ricamato con fili argentati, che l’avvolge da capo a piedi, e lascia in vista solo l’ovale del viso di carnagione bruna, con gli occhi neri che brillano come fossero tizzoni ardenti. Sopra i quali, due sopracciglia nere percorrono la fronte fino alle tempie, dandole un’aura di soprannaturale. Ha un viso stupendo, e le labbra carnose hanno il colore delle ciliegie mature. E io vado pazzo per le ciliegie…
“Posso fare qualcosa per lei?” le chiedo. “Giulio Ghirelli?” ripete lei senza aggiungere altro.
“Per servirla” le rispondo. E poi aggiungo tra me e me: -La servirei eccome!-.
“Allora dovrei entrare” dice lei con voce suadente.
A quel punto, anche se fosse una venditrice di aspirapolvere, sono pronto a comprarle il più costoso, e con tutti gli accessori. Quindi pigio il pulsante dell’apertura del cancelletto e le dico: “Prego!”.
Mentre entra, mi accorgo che è a piedi nudi, e le unghie sono laccate con lo smalto nero. Come quelle delle mani. “Vuole accomodarsi?” le dico indicandole il divano.
“Preferisco restare in piedi, non abbiamo molto da rimanere qui”.
Il verbo abbiamo mi fa nascere una domanda, e non posso fare a meno di fargliela. Lei mi guarda con aria serena, e dandomi del tu, mi risponde: “Sono venuta a prenderti per l’ultimo viaggio”.
No, dico, nella mia vita qualche bello scherzo me lo hanno fatto. Anche da farmi sganasciare dal ridere. Ma questo li batte tutti!
“Ma chi è quel burlone che ti ha mandato a farmi questo straordinario scherzo?” dico a questa splendida creatura. E intanto non riesco a trattenermi dal farle un’innocente carezza sul viso. Ma la mia mano è come se avesse perso il tatto, perché non sento nulla, come se avessi fatto una carezza all’aria. Un brivido mi corre lungo la schiena, mentre lei dice: “E’ inutile che cerchi di toccarmi, io sono una creatura eterea, impalpabile, e puoi vedere solo la mia immagine. E solo tu, cioè la persona che devo portare via. Però riuscirai a toccarla, la mia pelle, ma solo quando sarà arrivata la tua ora”.
Giuro che non riesco a crederci, sto sognando. Mi do un pizzicotto forte che mi fa venire un morello sul braccio. Ma poi la scena che ho davanti agli occhi è la medesima. Non ho cognizione di quali e quante sensazioni mi stiano attraversando la mente, e l’unica cosa che riesco a dire è: “Ma non è possibile! La morte è in veste di vecchia scheletrica con la falce sulla spalla! Non è bella come te!”.
“Non sempre -risponde lei- dipende dall’umore del mio padrone, che decide lui, di volta in volta, chi mandare a prendere i destinati. E a volte ha un occhio di riguardo per certe persone. Mi ha detto che tu, tutto sommato, sei un buon diavolo. Che hai solo la colpa di innamorarti di tutte le donne che incontri. E ti ha fatto la cortesia di mandare me”.
“Ma veramente sei la morte?” le chiedo smarrito.
“Sì -risponde lei- ma non chiamarmi Morte, preferisco che mi chiami Notte”.
“E chi sarebbe il tuo padrone? E dove mi porti? Lassù o laggiù?”.
“Non so rispondere a queste domande. Con lui comunico solo telepaticamente, e non so neppure che faccia abbia. E nemmeno quale sia la tua destinazione. Io devo solo prenderti e accompagnarti fino a un certo punto. E poi ci salutiamo lì”.
“Ma ho ancora un sacco di cose da fare! Per esempio, adesso dovrei tagliare l’erba del giardino!…”.
“L’erba ricrescerà ancora, tra una settimana, tra un anno, tra un secolo… E tu ti illudi di restare qui a tagliarla per l’eternità? Che cosa cambia se la tagli una volta di più o di meno?” mi risponde lei.
“Però poi volevo ritornare in moto al Passo Grimsel, nel Cantone Vallese della Svizzera. Quando ci sono stato, mi son detto: -Prima di morire, devo tornare in questo meraviglioso posto-. E non puoi negare che ai condannati a morte viene concesso l’ultimo desiderio…”.
Notte ci pensa un po’ e poi dice: “Possiamo farlo. Il padrone mi dato tutto il giorno per prelevarti”.
“Oh, grazie mille Notte!” e l’abbraccio. Ma abbraccio solo l’aria.
“Ma come facciamo? Vieni anche tu in moto con me?”.
“Non serve la moto. D’ora in poi, noi ci muoveremo con lo spirito. Tu pensi alla destinazione, chiudi gli occhi, conti fino a tre, e quando li riapri siamo arrivati dove vuoi tu”.
“Non posso crederci!” esclamo.
“Beh, se è per questo, quante cose ci sono in questo mondo da non credere. Figurati in quello dove sono io…”.
“Ma allora, se facciamo così presto, non potremmo fare un salto da qualcuno che vorrei vedere per l’ultima volta?”. Notte risponde: “Abbiamo tempo fino a sera, però ricordati che tu puoi vederli, ma loro non possono né vederci né sentirci”.
“E tu sarai accanto a me?” le chiedo. “Sì, sempre al tuo fianco, fino a…” risponde.
“Devo portarmi qualcosa per il viaggio?”. “Solo la tua anima”. “Allora chiudo gli occhi?”. “Sì”.
Io li chiudo, ma mi sono scordato che prima di chiuderli, devo pensare alla destinazione. Ma da dove parto? Cribbio! Con tutta la gente che vorrei vedere per l’ultima volta! Li riapro, e Notte mi chiede: “Qualcosa non va?”. “No -le rispondo- è che non sono organizzato per un viaggio di questo genere, e non so da dove iniziare. Magari, visto che è qui vicino, mi fermerei per primo dalla mia amica, quella che mi pubblica sul suo sito dei piccoli racconti che ho il vezzo di scrivere”.
“Andiamo” dice lei.
Io chiudo gli occhi, conto fino a tre, li riapro e… eccola lì nell’orto! A ruspare con le mani come vanghe nella terra. Come fa con quelle mani a dipingere opere meravigliose? E mi viene in mente David Oistrakh, che aveva le dita come salamelle, ed è stato uno dei più virtuosi violinisti al mondo.
“Ciao Ilia, cara amica! Mi porto nell’anima quanto mi ha fatto bene averti conosciuto! Je t’adore!”.
“Non gridare, tanto non ti può sentire” mi dice Notte.
“E’ vero, ma ho il difetto di parlare sempre con la voce alta. Forse perché sono un po’ sordo. E poi che m’importa se non può sentirmi? Io ho bisogno di dirglielo lo stesso. E ora che ho salutato Ilia, ho un gran desiderio di andare a salutare la sua amica, all’estremo sud della Sardegna. Si può fare?”.
“Certamente, col nostro modo di viaggiare ci vuol poco” risponde lei.
Chiudo gli occhi, e quando tre secondi dopo li riapro, eccomi in quell’incantevole posto in cui sono stato solamente con la fantasia: una casa affacciata sul mare. E dentro quella casa c’è lei, la preziosa Musa. Sta dipingendo una delle sue ammirevoli opere. E se fossi stato fisicamente in quella casa, di sicuro gliene avrei rubata una. E so anche quale. “Felice di vederti Stella! Sono finalmente arrivato nella tua dimora sulla tua amata isola natìa. Che pagine intense ho scritto grazie a te! Un racconto di stupendi luoghi e suggestive leggende. E d’amore… anche se solo di fantasia…”.
E mentre invio un bacio d’addio alla mia immaginaria amata, mi viene in mente uno scritto di Italo Calvino: La fantasia è come la marmellata, bisogna che sia spalmata su una solida fetta di pane.
Chiudo di nuovo gli occhi, conto fino a tre, li riapro e… ecco il mio stellìn d’or! Gemma, la mia adorata nipote. Sta disegnando un abito fashion. E’ stata ammessa all’università della moda, e pure con la borsa di studio. Se penso che quando era in fasce, quando la sua mamma usciva per certe sue commissioni, a volte me l’affidava per darle il latte col biberon. E mentre ciucciava, mi guardava con i suoi occhioni blu. E io mi chiedevo: -Ma non si spaventerà a vedere questo faccione pieno di barba che la sta allattando?-. “Notte, tu pensi che un po’ di imprinting gliel’ho dato anch’io?”.
“Non so che cosa sia l’imprinting…” dice lei. Non ho tanto tempo per star lì a spiegarglielo, e allora cambio domanda: “Tu sai se dopo, in qualsiasi posto finisco, potrò vedere ancora la mia nipotina?”.
“Te l’ho già detto che io non so niente del dopo” mi risponde con voce garbata.
Vorrei restare a guardarla disegnare per il resto del pomeriggio, ma ho altre persone da vedere.
E prima di chiudere nuovamente gli occhi, mando un virtuale saluto ad Alberto, il papà di Gemma, che è sul tetto insieme ai muratori a ricostruire la casa bruciata da un incendio. “Stai attento Alberto! Ci manca solo che caschi giù!”. Mia figlia è presa col suo lavoro al PC, o forse sta scegliendo su Internet i mobili da ordinare per la casa nuova. “Ciao Monica! Non dimenticherò mai che un giorno mi hai detto che più passa il tempo, e più tu senti di somigliarmi. Che belle parole!”.
Chiudo di nuovo gli occhi, conto fino a tre, li riapro e… eccola lì la Barbarella! E’ nata settimina e pesava un chilo, e pareva che… E invece è lì che è una bellezza, questa mia secondogenita. E’ nel suo atelier di estetista, che ciacola con le clienti come se fossero in una sala da tè. Perché mica si va solo in chiesa a confessarsi… “Ciao Babi! Salutami i tuoi figli, e digli che anche se è un bel po’ che non ci sentiamo, non mi sono dimenticato di loro!”.
“E’ inutile che strilli, non ti può sentire” mi dice nuovamente Notte.
“Fa niente, io voglio dirlo lo stesso!” rispondo.
Adesso è ora di andare a salutare lei. Allora chiudo gli occhi, conto fino a tre, li riapro e… Sabina! E’ lì che fa le prove con un costume da recita che metterà nel prossimo spettacolo teatrale. Perché lei è una diva. Recita, balla e canta per diletto in una compagnia teatrale del suo paese, e fanno le operette. Divina! Quando una sera sono andato a vederla a una recita -era L’elisir d’amore di Donizetti-, mi sono spellato le mani a forza di applaudirla. Però ha il suo bel caratterino, questa mia figlioccia che ho tenuto a battesimo, e qualche rara volta facciamo baruffa, perché è una che se non le lasci l’ultima parola… E siccome pure io ho lo stesso caratterino… “Ciao Sabina! Salutami tanto tuo marito Marco, che è un santo a sopportarti! E saluta la tua mamma, che è stata una di quelle persone a cui ho voluto un gran bene”.
Chiudo di nuovo gli occhi, conto fino a tre, li riapro e… Valentina! La mia amata sorellina, che quando mi diceva ciccino, non è che mi piacesse troppo. “Dàì sorellina, dimmelo adesso, che mi fa tanto piacere sentirlo, perché finalmente ho capito l’amore ci metti in questo vezzeggiativo! E fai un grattino per me al tuo Celestino, che è l’unico gatto che sopporto, anzi, a dir la verità, che amo. E dài un saluto per me i tuoi due figli, i miei cari nipoti, e al tuo compagno Roberto!”.
Notte stavolta non mi dice che è inutile che strillo. Forse ha capito che non è umano avere davanti agli occhi i propri cari per l’ultima volta e restare calmi. E io, fino a stasera sono ancora un umano.
“Notte, non posso andarmene senza portare un fiore simbolico sulla tomba dei miei genitori…”.
“Sicuramente! Andiamo!” mi esorta lei.
Ed eccomi qui, nel cimitero davanti alla tomba dei miei genitori. Mio papà mi guarda dalla foto con quel sorriso da buon uomo quale era. Solo uno buono come lui poteva sopportare mia mamma, che con quel suo caratterino ci ha tenuti tutti, marito e figli, ai suoi ordini come un caporal maggiore in caserma. Però, che bella donna che era… Me la ricordo con le sue lunghe gonne pieghettate che facevano la ruota quando ballava. Sarà la vecchiaia, ma non riesco a trattenere una lacrima davanti alle loro fotografie. E un’altra al pensiero che non sono mai riuscito a dir loro il bene che gli volevo.
“Finalmente è il momento di andare a salutare lei” dico a Notte. “Chi?” mi chiede. “Il mio amore”. “Ci mancherebbe che non ci andassi!” mi risponde vivacemente.
Chiudo gli occhi per tre secondi, e quando li riapro sono davanti alla bellissima fotografia che avevo scattato alla Titti, e che lei ha voluto sulla sua lapide. Quanto poco tempo abbiamo avuto per stare insieme… Eravamo stati morosi mezzo secolo fa, ma dopo tre anni l’avevo lasciata. Quale errore…
Ci siamo ritrovati dopo cinquant’anni, e abbiamo scoperto che il nostro amore non aveva fatto un filo di ruggine. Ma è durato poco, poi un malaccio se l’è portata via. “Ciao Titti, sapessi quanto avrei desiderato seppellirti nel mio cimitero accanto a me, ma capisco che qui hai la tua mamma e il tuo papà, ed era giusto che rimanessi nella tomba con loro”. Mi si riempiono gli occhi di lacrime.
Poi mi riprendo e dico: “Notte, mi vengono in mente ancora tante persone da salutare…”.
“Devi accontentarti così… Salutale col pensiero. E credimi, te lo dico perché so benissimo quali possibilità ha la mente di comunicare con la telepatia, e fin dove può arrivare”.
“Allora dici che è ora che partiamo per il Passo Grimsel?”. “Direi proprio di sì” risponde lei.
Chiudo gli occhi, e quando li riapro mi trovo davanti a quello spettacolare paesaggio che non ho mai cancellato dalla mente. E’ una delle mete più amate dai motociclisti. Dove c’è il cartello che indica l’altitudine del Passo, è posta una scultura in ferro a grandezza naturale che riproduce una coppia in sella a una moto. Qui al Passo fa piuttosto freddo. Siamo quasi a duemila e duecento metri, e c’è un velo di ghiaccio sulla superficie dell’acqua del laghetto alpino. Su cui si spande un color paglierino del tramonto, che lo fa sembrare un lago dorato. Che incantevole visione!.
Ormai si sta facendo buio, e mi prende lo sconforto al pensiero che tra poco…
“E’ arrivata l’ora?” chiedo con la voce che non riesce a nascondere l’apprensione.
“Quasi…” risponde lei abbassando gli occhi. Ma poi li rialza, mi guarda con tenerezza e mi dice con una voce amorevole: “Ma non temere, sarà dolce…”.
“Dove ci lasciamo?” le chiedo. E in quel momento rivolgo lo sguardo allo chalet sulla riva del lago.
“Tu dove vorresti?”. E mi guarda come se avesse intuito qualcosa.
“Quando sono venuto quassù, ho dormito là. Hanno le camere tutte rivestite di legno, piccole che sembrano quelle delle bambole”. E le indico lo chalet, che fuori ha una lampada accesa.
Lei mi guarda e mi chiede: “Vorresti addormentarti là?”.
“Non chiederei di meglio” le rispondo con gli occhi pieni di speranza.
“D’accordo -dice lei- ma ricordati che adesso ti vedono e ti sentono”.
“Allora ci salutiamo qui?” le chiedo con gli occhi umidi.
“Non mi pare carino salutarti qui fuori al freddo” risponde lei.
“Entri anche tu con me?” le chiedo. “Tu vai” mi risponde.
Entro da solo nella locanda e chiedo al tizio dietro il banco se hanno una camera libera.
“Sì, ma è matrimoniale, dovrà pagare per due anche se è da solo” dice lui. “D’accordo” rispondo.
“Ha dei bagagli da portare dentro?” mi chiede.
“Viaggio leggero” gli dico. Chiedendomi quanto possa essere leggera la mia anima…
Lui mi accompagna fino davanti alla camera e mi chiede se per caso desidero cenare. Cose semplici, tipo qualche fetta di speck col pane nero e una birra.
“Casomai mi faccio vivo io” gli rispondo. E poi penso che dirgli che mi faccio vivo…
E quando mi richiudo la porta alle spalle, vedo Notte in piedi davanti al letto, ancora avvolta nel suo meraviglioso sari. E sono sicuro di non aver mai visto una femmina così affascinante. Ma non riesco a immaginare che cosa succederà adesso. E non ho il coraggio di chiederlo a lei.
Che come se mi leggesse nel pensiero, mi dice: “Penso che vorrai farti una doccia”.
Annuisco, e poi mi chiudo in bagno, mi spoglio e lascio scorrere sul mio corpo l’acqua calda per un tempo che vorrei che fosse infinito. Ma non posso restare sotto la doccia per l’eternità…
Allora mi asciugo, e poi mi chiedo se devo rivestirmi oppure no. Poi mi accorgo che nel bagno c’è appeso un accappatoio. Mi sembra la soluzione migliore. Me lo infilo ed esco.
Nella camera la luce è spenta. Però nel chiarore che viene da quella del bagno, intravedo il viso di Notte, che non è più avvolto dal velo del sari. Vedo solo il volto adornato da lunghi capelli neri, perché il corpo è disteso sul letto coperto dal lenzuolo.
Lei mi dice con un sussurro: “Spegni la luce del bagno”.
Io la spengo, e nell’assoluta oscurità la sento ancora sussurrare: “Avvicinati e prendi la mia mano”.
Io faccio due passi incerti con una mano tesa, fino a raggiungere quella di lei.
Ha la pelle vellutata come petali di rosa.
* * *
La notte mi avvolge e regna sovrana.
Ho la gola arsa dalla sete, e la bocca è talmente secca che non riesce a mandar giù un filo di saliva.
E ho un peso nello stomaco che mi grava come un macigno.
Adesso devo alzarmi, sciogliere due cucchiaini di bicarbonato in un bicchiere d’acqua e berla tutta d’un fiato. Sperando di riuscire a digerire la peperonata di ieri sera, che mi è rimasta sullo stomaco e mi ha fatto fare questo sogno.
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