di Giulio Ghirelli
Nel mezzo del cammin di nostra vita…
Ammetto, con vergogna, di conoscere solo la prima riga della prima strofa dell’opera massima del Sommo Poeta, e spero che egli non si rivolti nella tomba se me ne approprio così indegnamente. Ma il fatto è che questa frase mi piace molto come prologo di quello che sto per raccontare. Quindi: Nel mezzo del cammin di nostra vita… Chiedo scusa, ma siccome all’epoca dei fatti il sottoscritto era cinquantenne, mentre Dante scrisse la Divina Commedia all’età di trentacinque anni, qualcuno penserà che i conti non tornano. Allora spiegherò i miei conti: Nel 1300, quando Dante scrisse la Divina Commedia, il Poeta leggeva nella Bibbia che l’età media degli uomini era di settant’anni, ma oggi, grazie a tutti i miracoli della scienza, c’è chi dice che possiamo sperare in un futuro di vita che potrà arrivare anche ai cent’anni.
E al sottoscritto non spiace affatto l’idea di arrivare a soffiare su un centinaio di candeline. Quindi: Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai nel paradiso in terra. Perché, se non dall’inferno, almeno dal purgatorio ci ero passato. Nel senso che la mia vita, che era scandita dai ritmi produttivi a cui mi costringeva la mia attività di artigiano meccanico, mi aveva talmente stressato, che avevo deciso di darci un taglio. E avendo la fortuna di poter tirare a campare coi miei mezzi senza dovere aspettare ancora quindici anni per incassare la pensione, con il supporto della mia consorte decisi di cambiare vita.
Per noi, il paradiso in terra consisteva in una casetta in riva al mare, di proprietà di mia moglie, in una sperduta cala all’Isola d’Elba -non a caso chiamata La Cala- nel Comune di Marciana Marina. Paradiso e inferno, quel posto, poiché non è raggiungibile con altri mezzi se non con il cavallo di San Francesco, dato che l’unica strada è un sentiero sconnesso percorribile solo a piedi, e con delle buone gambe. Oppure via mare. Mare permettendo, poiché il suddetto è volubile e capriccioso come donna Rosaura, la protagonista di una commedia di Carlo Goldoni. Infinite volte ero partito con la mia barchetta per recarmi in paese a fare provviste, e poi mi toccava lasciare la barca in porto e tornare a piedi carico di cibarie, perché il mare aveva cambiato umore.
“Il mare bisogna rispettarlo” diceva il mio amico Giovanni, il Re della Cala, che con sua moglie Margherita erano gli unici abitanti stanziali del posto. Le altre case erano abitate solo in estate. Giovanni si era guadagnato il titolo di Re della Cala perché era l’unico uomo che era rimasto a vivere in quel luogo, facendo quello che aveva fatto da quando era nato: il contadino e il pescatore.
Quando andammo a vivere alla Cala, Giovanni aveva superato i settant’anni. Un uomo massiccio di carnagione bruna, con il viso forgiato dal sole e dalla salsedine, e il suo bonario sorriso sotto i baffi neri mascherava un temperamento gagliardo. La vita passata a zappare la terra gli aveva piegato la schiena ma non il carattere. E quelli che non gli andavano a genio, si sentivano dire: “Lontano tre passi dai miei corbelli!”. Parlava e si muoveva in modo calmo e controllato, di chi deve fare i conti con la faticosa esistenza in quell’impervio territorio. Era stato messo a zappare le vigne prima di finire le scuole elementari, ma aveva un linguaggio forbito, e con quelle simpatiche espressioni che usano in Toscana. Si era costruito la casa sopra una scogliera a picco sul mare, portandosi i materiali con la barca a remi, e poi la sua asina li aveva portati sulla groppa fino sopra la scogliera.
Ma in quella casa ci stava solamente per mangiare e dormire; le sue giornate le passava a un centinaio di metri dalla casa, dove era la sede del suo regno, cioè l’orto e un vecchio fabbricato che gli era servito come stalla, e dove pigiava l’uva e conservava il vino in una grande botte di legno. Sul muro della stalla, dal lato rivolto verso il mare, scritto a grandi caratteri di colore rosso mattone, si leggeva il nome del luogo: LA CALA. Quella scritta indicava ai bastimenti il luogo dove venire a caricare il vino; ma ora l’iscrizione era sbiadita e non veniva più rinfrescata, poiché quel commercio era cessato da molto tempo. Davanti alla stalla, Giovanni aveva due terrazzamenti dove coltivava patate, cipolle e pomodori, suoi primari generi alimentari, e altre varietà di ortaggi; che erano molto graditi anche alla sua asina, che lui aveva battezzato Baccellona proprio perché era ghiotta dei baccelli delle fave. Nelle pause dei suoi lavori campestri, Giovanni spillava dalla botte mezzo fiasco di vino, si sedeva sul gradino della porta della stalla, con in fianco fiasco e bicchiere, si accendeva una sigaretta e se ne stava a guardare il mare con un sorriso beato.
Ho sempre pensato che quel sorriso fosse il tacito ringraziamento al Padreterno, che gli aveva concesso di nascere e vivere lì. Quando approdavi alla Cala e, alzando gli occhi, vedevi quel personaggio seduto in modo fiero davanti alla stalla, ti veniva da pensare a un nobile e antico signore che è lì a proteggere il suo dominio. Il terreno della vigna lo aveva a mezza collina, dove arrivarci è già una fatica; e nonostante la sua età, gli acciacchi della schiena e il fiato che ormai pagava il pegno di tutte le sigarette che aveva fumato, quando era il momento di andare a zappare la vigna, Giovanni partiva di buon’ora con la sua zappa a due punte, qualche pomodoro e un fiasco di vino, e fino a sera rimaneva lassù, tra quelle viti di cui andava tanto fiero. Era orgoglioso di essere rimasto sempre nel suo luogo nativo, e affrontava ancora tutte quelle fatiche con grande passione. Con l’arrivo del turismo, negli anni sessanta, i contadini della Cala avevano venduto case e terreni ai villeggianti, e col ricavato avevano aperto delle attività commerciali in paese; era meno faticoso e più redditizio vendere souvenir e chincaglierie ai turisti, piuttosto che stare a zappare i vigneti su quei colli pietrosi. Solo Giovanni era rimasto in quel posto, e anche se per vivere gli bastavano i soldi della pensione, continuava a zapparsi orto e vigna, e a mettere in mare la pesante barca di legno per andare a pescare. In paese aveva un appartamentino di due stanze affacciate sul porto, e se gli chiedevi perché non andasse a viverci, rispondeva: “Cosa farei tutto il giorno in paese? Trascinarmi avanti e indietro lungo il molo o rincretinirmi con i soliti discorsi da osteria? E come potrei abituarmi a mangiare e bere cose industriali?”. E quelle rare volte che andava in paese, quando tornava a casa andava a spillare dalla botte un bicchiere di vino, si sedeva fuori dalla stalla, e tirando un grosso sospiro esclamava: “Ah, che bella la mia Cala!”.
E proprio per il suo grande amore per quel luogo, accolse a braccia aperte due sprovveduti cittadini che avevano deciso di trapiantare la loro esistenza lì. Giovanni fu il mio maestro di vita, e senza di lui non so come me la sarei cavata. Mi insegnò a fare l’orto e a pescare, a potare le viti e a pigiare l’uva. Cercò di insegnarmi i rudimenti per navigare, e a fiutare le burrasche da come cambiava il colore del mare, la direzione del vento e le nuvole del cielo. Da lui imparai molto di quel che serve per vivere in quello sperduto luogo. Ma il mare imparai a rispettarlo solo dopo la mia disavventura.
Il fatto avvenne a fine maggio del ’96. Nel tardo pomeriggio aveva iniziato a tirare qualche raffica di vento di libeccio e Giovanni, dalla sua stalla posta poche decine di metri sopra la nostra casa, mi aveva fatto un gesto di avvertimento indicando con la mano il mare; quindi io avevo messo la mia piccola barca, una leggera Canadian di alluminio che di solito lasciavo sulla spiaggia, al riparo nel capanno delle barche, perché quando c’è una burrasca di libeccio, alla Cala il mare arriva violento. Quella sera avevo finito tardi i miei lavori nell’orto, era quasi buio e il mare cominciava ad agitarsi. Mancava poco alle nove e mi ero appena seduto per cenare con un minestrone di verdure dell’orto, quando apparve sull’uscio di casa un marcantonio con addosso solo gli slip da bagno, e il corpo coperto di graffi. Era un turista tedesco in vacanza a Sant’Andrea -una località marina distante dalla Cala una ventina di minuti di navigazione- che raccontò che nel pomeriggio si era recato con la moglie e i due figli, a bordo di un piccolo canotto pneumatico, in una caletta situata tra la Cala e Sant’Andrea, raggiungibile solo via mare, e lì avevano passato il pomeriggio. Verso sera, vedendo che il mare si ingrossava, avevano deciso di rientrare a Sant’Andrea, ma il motore non si avviava; dopo avere cercato invano di ripararlo, il tedesco si era arrampicato sulla scogliera con l’intento di raggiungere la strada, che è soprastante una cinquantina di metri. Dopo alcuni tentativi, con l’unico risultato di scorticarsi tutto il corpo, aveva rinunciato.
Allora, per non mettere a rischio i famigliari sul suo piccolo canotto, li aveva lasciati alla caletta e si era messo in mare, e remando e sfruttando le onde che venivano verso la Cala, era venuto a cercare soccorso. Infatti mi chiese di andare con la mia barca a recuperare i famigliari. Io gli risposi che la mia Canadian era troppo leggera per reggere le onde di quel genere di mare, troppo rischioso. Ma come si fa a convincere un uomo che ha moglie e figli su una piccola spiaggia, col rischio che venga inondata dal mare in burrasca?
Io feci due errori: il primo, di non avvisare Giovanni; ma non volevo coinvolgere il vecchio amico, che a quell’ora era già a dormire. Il secondo errore fu di non telefonare alla Capitaneria di Portoferraio, distante una decina di miglia marine, pensando che l’attesa dei soccorsi avrebbe rubato del tempo prezioso. C’erano due bambini a rischio, bisognava far presto, prima che il mare diventasse peggio. Quindi decisi di mettere in mare la Canadian, cosa non facile con le forti onde che picchiavano sulla spiaggia, e riuscimmo a prendere il largo. Era ormai buio, e la fioca luce della luna velata dalle nuvole lasciava intravedere solo la sagoma scura della costa. Intanto il mare si faceva sempre più agitato, e la leggera Canadian saltava sulle onde come sulle montagne russe del Luna Park. Ci vollero una decina di minuti per arrivare davanti alla caletta, ma avvicinarsi alla costa era pericoloso, le onde avrebbero potuto scaraventare la barca contro la scogliera. Allora il tedesco mi disse di rimanere a distanza di sicurezza dalla costa, e lui sarebbe andato a nuoto a prendere i famigliari. E senza aspettare una risposta, si tuffò nelle onde. Io pensai che forse aveva visto troppi film di Rambo, perché doveva arrivare alla spiaggia con i marosi che potevano sbatterlo contro gli scogli; poi ributtarsi coi famigliari in mare, con le onde che gli venivano contro e li riportavano verso riva; quindi avvicinarsi alla mia barca, che saltellava sulle onde col rischio di finirgli sulla testa, e ancor peggio se incocciavano l’elica del motore.
Ma quando c’è moglie e figli su una spiaggetta frustata dai marosi, non c’è troppo da pensare, e io ebbi solo il tempo di lanciargli due giubbetti di salvataggio per i bambini. Poi dovetti rivolgere ogni mio pensiero a tutti i santi in cielo, che mi aiutassero a tenere a galla la mia barchetta, che volava come impazzita sulle onde del mare in burrasca. Ogni mia manovra era inutile, e quando giunsi allo stremo mi misi a urlare verso i tedeschi che rimanessero sulla spiaggia, che io prendevo il largo, altrimenti sarei finito contro la scogliera. Ma proprio allora sentii delle grida poco lontano dalla barca, e nonostante l’oscurità intravidi due teste tra le onde. Adesso il problema era avvicinarsi a loro senza che la barca o l’elica gli finissero sopra. E infatti dovetti girargli intorno varie volte prima di riuscire ad affiancarmi a loro, e forse qualche santo mi aveva sentito e mi aveva dato una forza incredibile, per riuscire a reggere la barra del timone con un braccio e allungare l’altro fuori dal bordo della barca, acchiappare una creatura e tirarla dentro la barca. La creatura era una bambina di una decina d’anni, stremata dal fare a nuoto quel tratto di mare così arrabbiato. La feci sdraiare sul fondo della barca, e intanto il tedesco era ripartito verso la spiaggia. Ma il mare quella notte aveva deciso di farmi vedere i sorci verdi, ed era sempre più agitato. E io ero ormai sicuro che in quelle condizioni, anche se fossi scappato da lì e mi fossi diretto al largo, la mia piccola imbarcazione non avrebbe retto alla violenza della burrasca. Non avevo via di scampo e mi arresi a quel destino, aspettando solo il momento in cui saremmo stati sommersi dalle onde.
Non so quanto tempo passò, perché in certi frangenti anche un attimo è infinito, quando udii una voce poco distante da me. Altre due teste tra le onde. Ma rifare la manovra di recupero era ormai troppo rischioso, e allora presi il salvagente con la fune da venti metri e lo lanciai verso le teste in acqua. Una volta aggrappatisi al salvagente, avrei rimorchiato i naufraghi un po’ più in alto mare, dove le onde erano meno violente, e poi avrei tentato di tirarli in barca. Per quel che valevano tutte le mie buone intenzioni, visto che da quell’inferno non vedevo una via d’uscita. Avevo appena lanciato il salvagente, quando sentii la barca sollevarsi come una piuma e, volando sulla cresta di un cavallone, capovolgersi.
Il ricordo più vivo che mi è rimasto di questa vicenda, è quello che mi è passato per la mente in quegli istanti: le mie figlie in terraferma che a quest’ora dormono nei loro letti, mia moglie sulla spiaggia della Cala che scruta nel mare in burrasca, la bambina stordita dentro la barca, due teste tra le onde, un minestrone caldo in tavola. In quei pochi istanti l’onda mi depositò sulla spiaggetta sano e salvo. La prima cosa che vidi fu il tedesco col figlio, che erano riusciti a tornare a riva, e poi una donna. Invece la bambina che avevo tirato in barca non c’era, e ne ebbi conferma quando la donna prese a gridare il nome della figlia: Isabelle! Isabelle!
Scrutai nell’oscurità e vidi la Canadian sul lato destro della spiaggia, rovesciata tra gli scogli. Urlai al tedesco di correre con me fino alla barca; la girammo e vi trovammo la bambina. Era intontita, ma incolume. La togliemmo dalla barca mentre un’onda ci investiva. Poi ci rifugiammo tutti in fondo alla spiaggetta, a ridosso di uno scoglio che ci proteggeva dalle onde che invadevano la spiaggia. La mamma si era accovacciata e teneva abbracciati i suoi bambini cercando di scaldarli. Il marito, stremato da tutte le fatiche, si era disteso supino a braccia aperte che sembrava crocefisso. Io mi ero rannicchiato in terra battendo i denti dal freddo e dallo shock, pensando che anche se avevo salvato la pelle, una polmonite era impossibile schivarla. E poi mi chiesi che ora fosse, quanto fosse durato tutto quell’inferno. A occhio e croce, da quando ero partito dalla Cala, poteva essere passata un’ora, ma anche due. Per me un’eternità…
Seppi poi, che verso mezzanotte mia moglie aveva allertato la Capitaneria di Portoferraio; infatti durante la notte vidi al largo le luci di imbarcazioni che perlustravano nel buio con potenti fari. Ci cercavano in alto mare, perché erano convinti che noi fossimo sulla barca alla deriva, e trascorsero almeno due ore prima che si avvicinassero alla costa; poi finalmente un battello puntò il faro sulla nostra spiaggia illuminando il relitto della Canadian. Io mi arrampicai sulla cima dello scoglio e mi misi a urlare e sbracciare. La luce abbagliante del faro puntò su di me, e subito dopo una voce da un megafono chiese se fossimo tutti sani e salvi. Udita la mia conferma, dissero che avrebbero messo in acqua un canotto autogonfiabile collegato al loro battello con una lunga corda, e le onde lo avrebbero spinto fino alla spiaggia. Infatti, una decina di minuti dopo vedemmo arrivare una zattera di salvataggio, di quelle chiuse con la tenda a igloo, da cui sbucò un tizio con la tuta da sub.
Salire sulla zattera non fu impresa semplice, perché nonostante che io e il sub cercassimo di tenerla ferma, la zattera era sbatacchiata su e giù dalla riva dalle ondate, e i bambini piangevano di paura e non volevano entrarci, e i genitori non sapevano che fare. Allora io mollai la zattera, agguantai con pochi riguardi i bambini e li infilai attraverso l’oblò della tenda. A quel punto, i genitori mi risparmiarono la fatica di prendere di peso pure loro. Poi mi imbarcai io e infine il sub. Il battello ci trainò fino in mare aperto, dove le onde picchiavano meno, e finalmente ci issarono a bordo. E fra tutte quelle traversie, ebbi la soddisfazione di scoprire che eravamo stati tirati fuori da quell’inferno dal battello numero 702 dei Carabinieri. E il sottoscritto è figlio di un carabiniere. Ci diedero delle coperte militari di lana grezza -che sulla pelle nuda pizzicano come ortiche-, delle tavolette di cioccolato e delle boccettine di liquore.
Poi un giovane carabiniere -poco più che un ragazzino- mi porse il suo telefonino e mi disse: “Telefoni a casa per tranquillizzare sua moglie”. Certo per lo stress, e sicuramente per il pensiero che avrei potuto rivedere i miei cari, e anche per il fatto che il giorno dopo -seduti fuori dalla stalla con un bicchiere di vino in mano- avrei raccontato la mia avventura a Giovanni, ma specialmente per la gratitudine al Padreterno, che mi aveva concesso un’altra vita, mentre digitavo il numero di casa sul telefonino del carabiniere, io piansi. Dopo circa mezz’ora, il battello attraccò al porto di Marciana Marina, che sembrava un arsenale militare, perché vi erano attraccati un battello della Capitaneria di Porto e uno della Guardia di Finanza, che insieme a quello dei Carabinieri, avevano perlustrato il mare alla nostra ricerca. Inoltre, sul molo c’erano due macchine dei carabinieri, che avevano percorso la strada panoramica che passa alta sulla costiera, nell’ipotesi che dalla barca avessimo mandato dei segnali luminosi. Poi c’erano tre o quattro giornalisti, un sottufficiale della Capitaneria di Porto e mia moglie.
Provai molta vergogna per aver tenuto in ballo tutta quella gente per una notte intera, e anche per il fatto che sarei finito sui giornali. E sicuramente i giornalisti non sarebbero stati di manica larga con uno sprovveduto che si era messo in balìa di un mare in burrasca con una barchetta buona solo per navigare col mare liscio come l’olio.
I carabinieri compilarono il verbale dei fatti e lo fecero firmare a me e al tedesco. Ci lasciarono le coperte militari, con l’impegno di restituirle alla loro stazione di Portoferraio. Il sottufficiale della Capitaneria di Porto, forse per la legge dell’occhio per occhio, mi aveva tolto la speranza di farmi una bella dormita, convocandomi per le nove del mattino per un secondo verbale sui fatti. E infine, dopo una sfilza di scusi, grazie, prego, ci salutammo.
Spuntava l’alba quando arrivammo alla Cala. “Vai a riposarti un paio d’ore, che poi devi tornare in paese” suggerì mia moglie. “Riscaldiamo il minestrone” le risposi guardando i due piatti rimasti sul tavolo dalla sera prima.
Maggio 1997
Il postino suona sempre due volte (Romanzo del 1934 di James M.Cain, dal quale nel 1981 è stato tratto un film interpretato da Jack Nicholson e Jessica Lange). Alla Cala, il postino non suonava due volte, e neppure una. Perché in quel paradiso terrestre arrivavano cinghiali e mufloni, ma non il postino. La corrispondenza dovevo andare a ritirarla all’ufficio postale di Marciana. E un anno dopo il naufragio, ritirai una cartolina. I mittenti erano i miei compagni tedeschi di sventura.
Negli ultimi giorni abbiamo pensato spesso a voi e alla nostra avventura. Ci spiace di non avervi visto da noi in inverno. Speriamo di vederci presto. Ora siamo in vacanza nelle isole Croate a Dùgi Otoz. Oggi Isabelle ha navigato in mare per la prima volta dopo l’incidente. Spero che voi siate in buona salute. Vostri Ursula, Wolfgang, Isabelle e Dominik Bohnacker.
Novembre 2001
Una pungente brezza di tramontana increspa il mare, facendo rollare lievemente il traghetto. I grossi gabbiani reali seguono la scia della nave, lasciandosi sostenere dal vento come alianti.
Nonostante la temperatura fredda, sono seduto su una panca esterna della nave. Non voglio perdermi il paesaggio dell’isola, che si sta allontanando lentamente. La Cala non si vede più, ormai è troppo distante, ma io ce l’ho ancora davanti agli occhi. Di quel piccolo regno racchiuso tra la Punta della Gioma e la Punta della Madonna, ho tutto stampato nella mente, persino ogni piccolo scoglio.
Ma di quel luogo, l’immagine più impressa nella memoria è quel vecchio fabbricato posto al centro della Cala, come a dominio del territorio. E come sovrano di quel regno, Giovanni, seduto fuori dalla stalla con in mano il bicchiere di vino e una sigaretta tra le dita. “Vieni su a bere!” mi diceva il Grande Vecchio per confortarmi, quando dal suo dominio mi vedeva piegato a rompermi la schiena nell’orto. Io salivo alla stalla, mi sedevo in fianco a lui, mi versavo un bicchiere dal suo fiasco di vino, e poi stavamo silenziosi ad ammirare il nostro regno. Perché vicino a Giovanni, anch’io mi sentivo un re.
Ho vissuto in quel luogo -paradiso e inferno- per sette anni, ed è stato per scelta, la medesima di Giovanni. Una scelta senza compromessi, di quelle che si fanno solo per i grandi amori. Forse irrazionale, perché a cinquant’anni non è stato facile adattarsi alle privazioni e alle fatiche di quel luogo. Ma quello che ho ricevuto in cambio è un patrimonio incomparabile. Quella di non vivere più in quel regno, è invece una scelta razionale. Perché con una grave ernia al disco da operare, non potrò più fare quella vita. E neppure vorrei farla senza il Re della Cala, che ha lasciato per sempre il suo regno.
Agosto 2011
Vacanza alla Cala con degli amici. Forse l’ultima, perché abbiamo deciso di vendere la casa.
Al termine della vacanza, in attesa di salire sul traghetto che da Portoferraio ci porterà a Piombino, mi si accende un faro nel cervello. Allora dico agli amici: “Ragazzi, manca quasi un’ora all’imbarco, facciamo quattro passi fino in fondo al porto”. E l’ho trovata, uguale ad allora, col suo indimenticabile nome scritto a poppa:
CARABINIERI 702
Nota: L’articolo del giornale narra in modo completamente diverso lo svolgersi dei fatti. Ma l’ho voluto pubblicare ugualmente –hominum vanitas– poiché non ho avuto altre occasioni di vedere il mio nome sui giornali.
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