di Giulio Ghirelli
la storia continua
Al mattino presto, che era ancora buio, lo zio Milio andava a mungere le mucche. Era uno dei pochi lavori che poteva fare quel mio povero zio, perché da quando era precipitato dal fienile fratturandosi la schiena e una gamba, era rimasto talmente conciato che non poteva fare lavori pesanti. Sua moglie Maria, detta Tosella (tosa, cioè bimba, perché aveva un viso giovanile), gli aveva dato un unico figlio, che non era normale di testa. Così, mentre la Tosella rimpiazzava il marito nei campi, mio cugino ripeteva le scuole elementari; fin quando le sue braccia furono abbastanza robuste per affiancare la mamma. Ero accomunato a lui dal medesimo nome e dalla stessa età, e l’ultima volta che lo vidi, avevamo una quarantina d’anni.
Era una vita che non tornavo in quelle campagne, e sapevo che alla cascina dell’Aguscello non ci stava più nessuno; il padrone aveva sfrattato tutti per restaurare il casale. I miei parenti, i pochi ancora in vita, si erano sparpagliati. Lo zio Milio era morto, e la Tosella con suo figlio facevano i braccianti in un casale poco lontano. Mio cugino era sempre lo stesso, il viso imberbe, il naso pronunciato e lo sguardo perso.
La Tosella continuava a ripetergli: “L’è Giulio, tò cusìn!”. Lui mi guardò a lungo coi suoi occhi grigi, prima di ricompormi nella memoria. Non mi aspettavo che dicesse granché, perché aveva sempre sofferto di difficoltà di parola. E infatti non disse nulla. Però aprì la bocca in un grande sorriso, come se ridesse, e poi mise il dito indice sul suo dente incisivo spezzato; quello che gli avevo rotto io, quando da ragazzini giocavamo a tirarci i sassi. Li salutai e mi diressi al bivio della fontanella, dove inizia la strada sterrata che costeggia il canale e porta alla cascina. Volevo rivedere quel casale che non si era mai cancellato dal mio cuore. Quante volte avevamo fatto quel tratto di strada! Dalla cascina alla fontanella, col biroccio carico di damigiane da riempire di acqua potabile. Era mio cugino Artemio, figlio della zia Bice, che aveva il compito di fare il rifornimento dell’acqua. Quel lavoro si portava via tutta la mattina; non solo per il viaggio, ma per riempire tutte quelle damigiane sotto una fontanella. L’Artemio, molto più grande di me, mi faceva felice mettendomi in groppa al cavallo che trainava il biroccio, poi lui si sedeva sulla sponda del carro e partivamo. Ci misi poco ad arrivare alla cascina, ma quasi non la riconobbi.
Pensavo che il padrone avesse già fatto la ristrutturazione, e invece era malconcia e scrostata che quasi non si vedeva più il suo colore rosso ocra; anche il pavimento di mattoni dell’aia era tutto crepato e vi spuntavano le erbacce. L’unica nota positiva era che, non essendoci anima viva, potevo muovermi indisturbato, rievocando in solitudine il mio lontano passato.
Rivolsi lo sguardo verso il canale, su quell’acqua verdognola dove avevo imparato a nuotare, e dove passavo i pomeriggi a pescare i pesci-gatto. C’era da stare attenti a sganciarli dall’amo, perché avevano due baffi spinosi che quando pungevano facevano venire le dita gonfie. La specialista a cucinarli era la zia Lina, che li friggeva fino a farli venire croccanti come grissini. Appena arrivava il piatto in tavola, noi ragazzini ci sbracciavamo per arraffarli, ignorando gli scappellotti che ci arrivavano sul coppino per insegnarci le buone maniere! Dalla riva del canale, il mio sguardo penetrò l’acqua, come per cercare qualcosa sul fondo. Di mio nonno Gerolamo – di cui non ci sono fotografie, e che è morto che io avevo cinque o sei anni – ho nella memoria poche sfocate immagini, perché passava gran parte delle giornate a letto.
Solo quando fui più grande, la mamma mi disse che durante la guerra i soldati tedeschi erano arrivati alla cascina per razziare i viveri. Il nonno lasciò che si prendessero ciò che volevano, ma quando tirarono fuori dal porcile il maiale, lui si ribellò per impedire anche quella ruberia. I soldati lo picchiarono, e uno gli sferrò un brutto colpo sulla schiena col calcio del fucile, che gli lesionò un polmone. Venne curato come meglio si poteva in quei posti e in tempo di guerra, ma quella ferita lo debilitò gravemente e lo invalidò per il resto degli anni che rimase in vita. L’immagine che ho più impressa nella mente, è quella di un omone in piedi che mi guardava mentre stavo a pescare seduto sulla sponda del canale. Senza parlare, il nonno tirò fuori dalla tasca del panciotto il suo orologio e me lo diede; poi mi fece un segno col dito indice davanti alle labbra, per farmi capire che doveva rimanere un segreto tra noi. Io corsi a nascondere l’orologio in solaio, e lì rimase fino a quando, qualche tempo dopo, il nonno morì. Quando tornammo dal cimitero, io ero arrabbiato col nonno che se n’era andato via, e allora corsi a prendere l’orologio, andai sulla sponda del canale e con un sasso lo spaccai; poi guardai i meccanismi che c’erano dentro e infine gettai i rottami nell’acqua. Quell’immagine di mio nonno sulla riva del canale, mi ha accompagnato per tutta la vita.
E nulla ho mai rimpianto come quell’orologio.
Pochi passi dal canale e mi trovai sull’aia, vicino al forno dove cuocevano il pane. Il pane ferrarese si chiama ciopa (coppia), e ha la forma di una X coi quattro cornini assottigliati a cono; è un pane biscottato che rimane buono anche più di una settimana. Noi bambini stavamo in attesa davanti al forno, ad aspettare la carità di qualche cornino che si rompeva durante la cottura. Mi diressi verso l’ingresso della cascina, e la vecchia porta di legno cigolò quando la spinsi per entrare. Ero nella cucina della zia Bergama; sulla parete di sinistra c’era il grande camino. Quando si entrava in quello stanzone, la prima cosa che si vedeva, sulla parete di fronte alla porta, era una grande madia di legno scuro, che ogni volta che la zia l’apriva veniva fuori un profumino di pane che mi stuzzicava lo stomaco. Ero un bambino che aveva sempre fame!
Ma quel pane doveva sfamare tante bocche, e allora guai a sollevare il coperchio della madia senza il permesso della azdora, che in dialetto ferrarese significa: la reggente della casa. Insieme allo zio Arturo e alla zia Bergama ci vivevano i miei nonni. La nonna Clite, avendo il marito invalido, cercava di rendersi utile lavando panni e cucendo tutto quello che si poteva cucire: toppe ai calzoni da lavoro e un’infinità di rammendi a maglie e calzini. Nulla si scartava, finché rimaneva un lembo di stoffa aggiustabile. Anche da vecchia, la nonna aveva mantenuto la sua grinta; era ancora un caporale che faceva rigare dritto tutti; pur essendo uno scricciolo magro, e alta poco più di un metro e mezzo, aveva molta vitalità nel rincorrermi con un frustino di salice, quando ne combinavo qualcuna.
Però, nonostante i suoi modi bruschi, mi voleva bene, e quando andavo a chiederle qualcosa da mangiare mi tagliava una fetta di salame, poi apriva la madia, mi staccava un cornino di pane e mi diceva: “Fila via!”. Ogni occasione era buona per riempirmi la pancia. Nel periodo delle cipolle andavo nell’orto a prenderne una, la tagliavo a fettine fini e la mettevo in una scodella con un po’ di pane spezzettato, poi condivo il tutto con olio e sale, mescolavo quella zuppa e la mangiavo a cucchiaiate sulla riva del canale. Nella stagione delle angurie, che in quella campagna abbondavano, la merenda si faceva con mezza anguria scavata a scodella e la polpa mischiata col pane e mangiata col cucchiaio.
Mi piacevano molto anche le uova che rubavo nel pollaio. Facevo un forellino sul guscio e le succhiavo crude. Poi le uova divennero merce di scambio per qualcosa di molto più succulento. Avevo una decina d’anni, quando alla cascina incominciò ad arrivare il gelataio. Veniva di pomeriggio su uno scoppiettante motocarro, che si sentiva il rumore ancor prima di vedere in lontananza la nube di polvere che sollevava; noi ragazzini stavamo ad aspettarlo sul ciglio della strada. Se qualche volta ritardava, facevamo un pezzo di strada per vedere se arrivava; e quando lo avvistavamo gli andavamo incontro festosamente, e poi gli correvamo dietro fin quando si fermava sull’aia. Allora la zia Bice andava nel pollaio a prendere le uova, che barattava col gelataio: due uova per un gelato. Quando ne combinavo qualcuna delle mie, niente gelato. Ma io avevo trovato il sistema per rimediare: tenevo una piccola scorta di uova nascoste in soffitta, e nei giorni di castigo me ne mettevo due in tasca e aspettavo sulla strada che il gelataio lasciasse la cascina. Allora lo rincorrevo fino alla successiva fermata, la cascina Casalta, e facevo il baratto. Era impossibile che la zia Bice e il gelataio non avessero capito le mie furberie, ma nessuno disse mai nulla.
Quando uscii dalla cucina della zia Bergama, non volevo vedere altro. Quei ruderi così diversi dai miei ricordi mi mettevano solo tristezza. Però c’era un posto che non potevo fare a meno di vedere. Sul retro della casa c’era la porta d’ingresso delle due stanze dove abitava la zia Bice, sorella maggiore di mia madre. E fu con grande emozione che spinsi quella porta.
Sono stato molto affezionato a tutti i parenti della cascina, ma la zia Bice era la mia seconda mamma. Lei si prendeva cura di me, quando mia madre tornava al lavoro a Milano e io rimanevo in vacanza alla cascina. La zia Bice somigliava molto a mia mamma, alta e magra, gli stessi capelli biondi e ondulati. Ma lo sguardo intenso dei suoi occhi blu era più dolce di quello di mia mamma, nonostante tutti i dolori che l’avevano segnata. Suo marito restò disperso in guerra, lasciandola sola a crescere i suoi tre figli, tutti molto più grandi di me. Il maggiore, che aveva lasciato la cascina per guadagnare qualche soldo in più facendo il muratore, era caduto da un ponteggio e aveva salvato la pelle per miracolo. Però il trauma cranico gli aveva lesionato il cervello e non ci stava più con la testa. Ma lei non aveva mai perso la sua vitalità e la sua dolcezza, e mi portava con sé nelle faccende della cascina, nell’orto, nella stalla e nei lavori dei campi, e mi insegnava tutte le cose con l’attenzione e la pazienza che non ha mai avuto mia madre.
Mi caricava in bicicletta quando andava a fare le compere in paese, e mi cucinava sempre la minestra di fagioli che mi piaceva tanto; me la faceva con il riso o con i pezzetti di pasta, o piuttosto che niente, col pane secco spezzettato. Sono cresciuto con le sue minestre di fagioli. E quante notti mi ha tenuto a dormire nel suo letto, quando avevo paura dei topi che scorrazzavano sulle travi del soffitto. L’ultima volta che la vidi, era in un ospizio di Ferrara. Aveva gli stessi capelli ondulati, ma il colore biondo aveva ceduto al grigio. E per la prima volta vidi i suoi occhi blu inumidirsi di lacrime. Ci abbracciammo senza parlare, e sentii un vigore nelle sue braccia che non mi aspettavo in una donna ormai anziana. Le braccia dei contadini non perdono mai la forza, pensai.
Mi scrutò un attimo, come per valutare se i tanti anni passati fossero stati clementi col mio aspetto. Fingendo un rimprovero mi disse: “Tagliati quella barba, che sembri un vecchio!”.
Le risposi che gli anni passano per tutti, e anch’io non ero più un giovanotto.
“E tu, zia, quanti ne hai?”.
“Settantasette… anzi… ormai sono settantotto…”.
La sua presenza in quel posto mi intristiva, e provavo il desiderio di andare via; ma mi feci forza e rimasi per il resto del pomeriggio a parlare dei nostri parenti, vivi e morti. La sua testa era lucida, forse più della mia, e ricordava tutto di tutti. Iniziava a imbrunire quando le dissi che dovevo partire, mi aspettava il lungo viaggio di ritorno. Ci abbracciammo con la promessa che sarei tornato presto a trovarla. Fece un sorriso mesto, come di chi vuole far capire che si dice sempre così, ma poi… Avevo già voltato le spalle per uscire, quando mi raggiunse la sua voce malinconica:
“Ti piace ancora la minestra di fagioli?”.
“Sì” risposi.
Soltanto un sì, perché il groppo che mi salì in gola mi impedì di dire altro.
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