di G. Ghirelli
Amo i lupi senza distinzioni o pregiudizi; da quello di San Francesco al famoso cane lupo di nome Rex. Compreso un lupo di mare di nome Nilo, il quale aveva un’affinità con i lupi di terra, cioè ringhiava di brutto col sottoscritto quando mi portava con la sua barca a pescare di notte.
Negli anni ’90 vivevo all’Isola d’Elba, in un paradiso in terra di nome La Cala, nel Comune di Marciana Marina, un’incantevole località in riva al mare raggiungibile soltanto a piedi o con la barca. A quei tempi, Nilo aveva una settantina d’anni -una ventina più di me- ed era un uomo di corporatura piccola e magra pelle e ossa- e dal carattere nervoso come un marinaio in terra. Aveva la pelle bruna solcata da profonde rughe, che mi era già capitato di vedere in altri personaggi che passavano la loro vita in mare, e dava l’impressione che per bucarla, più che una siringa ci volesse un trapano; ed era ricamata con cicatrici di ogni genere.
Aveva navigato per tutta la vita come motorista, prima sui bastimenti commerciali e poi sui rimorchiatori. E come si addice a un vero lupo di mare, aveva fatto un naufragio. Era accaduto tanti anni addietro, su un mercantile che affondò al largo dell’arcipelago della Maddalena, a nord della Sardegna. Nilo era rimasto aggrappato a una tavola di legno per tutta la notte, prima che lo ripescassero. Anche se non aveva subito danni fisici, lo portarono ugualmente all’ospedale della Maddalena, dove conobbe un’infermiera del luogo di nome Manola, con la quale convolò a nozze. E fu lei che, fiera di avere per marito un marinaio naufrago, gli diede l’appellativo di Capitano.
Le rare volte che stava in terra, Nilo abitava con la moglie a Portoferraio. Ma la sua vera casa era una barca che aveva comprato quando era andato in pensione. Era un vecchio gozzo a vela lungo otto metri, che aveva trovato in un cimitero di barche, dove avrebbe avuto un sicuro destino come legna da ardere. Nilo l’aveva portata nel cantiere di un suo amico e l’aveva rimessa in ordine cambiando il fasciame marcio; poi l’aveva motorizzata montando nel pozzetto di poppa un vecchio motore monocilindrico che era ancor peggio della barca; ma dopo che Nilo ci aveva messo le mani, girava meglio di un cronometro svizzero. Sul ponte aveva costruito una piccola cabina per ripararsi dal brutto tempo, e aveva pitturato lo scafo di rosso bruno con due strisce giallo ocra. Poi aveva riempito la stiva di attrezzi da pesca e cassette per il pesce, e aveva proseguito la sua vita di lupo di mare.
Per ricordarsi che in terra aveva una moglie, aveva battezzato la barca col suo nome, Manola. Non so quanto fosse geloso della Manola in terra, ma di quella in mare, guai a chi gliela toccava!
Nilo conosceva il mio amico Giovanni -contadino e pescatore, e unico uomo vivente alla Cala oltre al sottoscritto- molto tempo prima che io andassi a vivere lì, e ogni tanto arrivava con del pesce per Giovanni, che in cambio gli dava qualche fiasco di vino bianco della sua vigna.
Il mio primo approccio col Capitano non fu dei migliori. Io ero nell’orto con Giovanni, quando lui vide arrivare la Manola, prese due fiaschi di vino e scendemmo alla spiaggia. Quando Nilo avvicinò la prua alla spiaggia, io, per timore che la chiglia sbattesse sulla riva, misi i piedi in acqua per trattenere la barca. Ma non feci in tempo ad allungare le braccia, che udii la sua voce minacciosa: “Non ti azzardare a toccare la barca, che a me non servono mozzi!”. Sicuramente aveva già fiutato il mio odore di terrazzano! E col suo caratterino di lupo selvatico, non aveva buone maniere per dire come la pensava.
Poi, col passar del tempo, per la comune amicizia che avevamo con Giovanni, il Capitano divenne più malleabile; anche perché, per conquistarmi un po’ di simpatia, gli regalavo pomodori e altre verdure dell’orto, e lui cominciò a portare dei pesci anche a me.
Poi successe un fatto che portò a stringere i nostri rapporti: Nilo viveva praticamente d’aria; il suo fisico magro, oltre al sistema nervoso, non gli facevano entrare nello stomaco che pochi grammi di cibo e mezza lattina di birra che, come il vino, reggeva male; e col suo frenetico ritmo di vita, una volta ebbe una specie di collasso, che fortunatamente gli venne che era a casa. Niente di grave, ma sua moglie non era più tranquilla a lasciarlo andare da solo per mare; e col suo carattere scorbutico non c’era troppa gente disposta ad andare a pescare con lui. Quando Nilo riferì a Giovanni le preoccupazioni della moglie, lui gli propose il sottoscritto come mozzo. Non ero presente al loro dialogo, ma ho il sospetto che il Capitano non fosse entusiasta, e comunque Giovanni mi disse di andarmi a proporre io, perché Nilo non si sarebbe mai umiliato a venire a chiedere a un terrazzano di fargli da mozzo. Io lo feci, ma solo per rispetto al mio amico Giovanni, il quale si raccomandò di non dire che sapevo del loro dialogo, ma inventarmi qualcosa tipo il desiderio di fare un’esperienza di pesca con un lupo di mare. Quindi, la prima volta che venne alla Cala, io gli feci la proposta. Ma credo che avesse fiutato qualcosa, perché mi rispose: “Non mi servono mozzi, ma se vuoi venire…” e mi informò che saremmo andati a pesca di totani e che saremmo stati fuori due giorni e una notte. Mi diede appuntamento per le dieci di una delle mattine successive. La notte prima dormii da cani: l’agitazione dell’imbarco con il collerico nocchiere, che il capitano Achab, in confronto a lui era un agnellino, mi aveva agitato il sonno. Continuavo a pensare a quale sarebbe stato il destino di un terrazzano sempliciotto che si era offerto come mozzo a un lupo -forse iena- di mare come Nilo. Quel mattino, per non rischiare di vomitare in barca, evitai la solita colazione di caffelatte e mi diressi di malumore alla spiaggia, in attesa di vedere la Manola approdare alla Cala. Non aspettai molto, e quando giunse alla riva, il saluto del Capitano fu il massimo della cordialità: “Monta!”. Poi mi indicò con la mano dove dovevo sedermi: in fianco a lui su una stretta panchetta posta a poppa della barca vicino alla barra del timone, dove, per potersi sedere, bisognava infilare le gambe nel pozzetto dove stava il motore, con i meccanismi che ruotavano a pochi centimetri dai miei piedi. Il tubo di scarico del motore diesel fuoriusciva dal pozzetto a meno di mezzo metro da noi, risolvendomi l’enigma sul perché quel lupo di mare avesse la voce strozzata e la pelle affumicata. E in quell’assurda posizione, partivo per la mia prima battuta di pesca in alto mare. La destinazione erano delle secche a nord dell’isola di Capraia, e l’arrivo era previsto per la metà del pomeriggio. Semisoffocato dai fumi di scarico del diesel, facevo qualche ragionamento del tipo: -Ma quanti nodi fa questa carretta, se per fare una trentina di miglia stiamo in viaggio una giornata intera?-. Inoltre -E’ impossibile restare accovacciato per così tante ore in questa posizione: coi piedi che cuociono al calore del motore, e se li sposto di qualche centimetro finiscono in quella specie di tritacarne che sono i meccanismi ruotanti del motore-. Ma il mozzo non ha il diritto di ragionare quando è imbarcato, c’è chi ragiona per lui e decide per la sua sorte. Il capitano Achab e il capitano Nemo non mi avevano insegnato nulla? Il mozzo è solamente una marionetta nelle mani del suo inflessibile burattinaio: il Capitano. Al massimo può chiedersi quante miglia dovrebbe fare a nuoto, se decidesse di ammutinarsi e abbandonare la nave. E questo era il mio unico desiderio: gettarmi da quella galera e tornare a nuoto alla Cala, scolarmi la mia ciotola di caffelatte e infilarmi sotto le lenzuola. Alla faccia di tutti i lupi e le iene di mare! Ma forse qualche anima pia mi aveva acceso un cero alla Beata Vergine dei Mozzi, perché la situazione cambiò, circa un’ora dopo. Fu quando superammo il Capo di Sant’Andrea e giungemmo in prossimità delle Formiche (degli scogli sommersi affioranti sull’acqua, che si estendono fino a un miglio dalla costa, e che devono il loro nome alla somiglianza che queste rocce hanno con tali insetti). Questi scogli sono molto pericolosi, e molti marinai inesperti hanno sfondato le chiglie delle barche su queste secche. Per prudenza è meglio aggirarli, portandosi al largo. Ma i naviganti pratici, e che hanno imbarcazioni con chiglie poco profonde, riescono a passarci attraverso, manovrando con prudenza e guardando sotto il pelo dell’acqua. Per far ciò, una persona deve collocarsi a prua per scrutare e fare segnali al timoniere.
Dalla rotta che Nilo teneva, avevo capito che non voleva sprecare carburante per aggirare le secche. Ma mai mi sarei aspettato che il lupo, dopo aver ridotto al minimo la velocità, si alzasse di scatto e mi dicesse: “La sai tenere la barra del timone?”. Pensai di aver capito male. Non era possibile che il Capitano mi affidasse la manovra della Manola in quella situazione così rischiosa; o forse cercava un pretesto per buttarmi in mare? Ma se dovevo finire in acqua, era meglio su queste secche vicino alla costa, piuttosto che al largo. Ero distratto in queste riflessioni, quando il lupo ululò: “Sei sordo? Lo vuoi tenere il timone?”. Avrei risposto che avrei tenuto anche quello di un transatlantico, pur di allontanare i miei piedi dal tritacarne. E con un superbo cenno della testa, risposi di sì. Lui mi lasciò alla barra del timone, corse a prua e si sporse con tutto il busto fuori bordo, per individuare le secche sotto il pelo dell’acqua, con un braccio alzato per segnalarmi le manovre. Intanto io avevo tolto le gambe dal pozzetto del motore, e mi ero messo in ginocchio sulla panchetta, in modo da poter vedere i segnali del Capitano, tenendo con la mano destra la barra del timone e con la sinistra la leva di marcia. Malignamente pensai che se avessi inserito la marcia indietro e avessi dato una brusca accelerata, il lupo sarebbe potuto slittare in mare, e magari si sarebbe fracassato la testa su uno di quegli scogli semisommersi. Ma quella specie di lupo mannaro aveva sicuramente altre vite di riserva, e così pensai a fare bene il mio dovere. Uscimmo indenni dalle secche, senza nemmeno un graffio alla chiglia, e quello fu il mio esame di ammissione. Il Capitano mi aveva messo subito alla prova, com’era nel suo carattere. Non aveva né i modi, né la pazienza per spiegare; o capivi da te, oppure menare le tolle! Ma anche se avevo superato quell’esame, che non mi montassi la testa, perché quel lupo era sempre in guardia, senza mai mollare l’osso; e la ringhiata ce l’aveva sempre pronta in gola. Sempre con la medesima frase: “Chi non sa andare per mare, deve stare a terra!”.
Dopo una sosta per uno spuntino alla Cala delle Ghiaie Nere, una bellissima spiaggia di sassi lisci color ebano, e un pisolino che il Capitano fece nella stiva della Manola, arrivammo in vista della Capraia al tramonto. Nilo decise di calare l’ancora sotto costa, dove avremmo cenato, per poi fare rotta sulla zona di pesca. Dovevamo iniziare a pescare col buio notturno e al chiarore della luna, perché quelle erano le condizioni migliori per la pesca dei totani. La frugale cena con una scatola di carne e un po’ di formaggio si concluse velocemente. Poi io mi misi in meditazione a godermi gli ultimi colori del tramonto. Anche il Capitano, dopo aver trafficato un po’ col motore della Manola, si era seduto poco distante da me, talmente rilassato che sembrava un’altra persona. Vedendolo così tranquillo, mi azzardai a chiedergli di quella vistosa cicatrice che aveva sopra un ginocchio, lunga almeno cinque centimetri; ma quello che attirava di più erano i segni di una cucitura così maldestra, da denunciare il medico che ci aveva messo le mani. Nilo mi guardò accigliato, come per valutare se fosse il caso di rispondermi, poi mi raccontò che cosa era successo: “Ero fuori a pescare di notte a ovest dell’Elba, verso la Corsica, e avevo calato le lenze in mare; mentre aspettavo che i pesci abboccassero, mi era ricordato che dovevo sciogliere un nodo della corda dell’ancora, ma era molto stretto e siccome con le mani non riuscivo a scioglierlo, ho messo la corda tra le gambe, e con la punta del coltello ho tentato di allentare il nodo. Spingevo forte e il coltello è scivolato dalla corda e si infilato nella gamba. Il taglio era profondo e il sangue usciva a fiotti; ho tamponato la ferita con uno straccio, ma il sangue non si fermava; allora ho bevuto due bei sorsi di vino per sentire meno dolore, ho preso un amo piccolo e il filo da pesca e ho cucito la ferita, e poi ho ripreso a pescare”.
“A pescare in quelle condizioni? Non hai pensato di andare a farti medicare?” gli chiesi strabiliato. “Mica son grullo! Tornare a casa senza pesci?” rispose. E a farsi medicare non ci andò neppure quando rientrò a Portoferraio.
Mentre facevamo rotta sulle secche, pensavo con terrore alla mia sorte, se mi fosse capitato un infortunio su quella barca! Arrivammo alla meta verso le nove e calammo l’ancora su un fondale di una trentina di metri. Nilo andò nella stiva e risalì con l’armamentario per la pesca del totano.
Questo mollusco è simile al calamaro, con il corpo e i tentacoli più allungati; e vederlo danzare con eleganza sott’acqua non si avrebbe mai la crudeltà di pescarlo; ma cotto alla griglia, o con la ricetta di Giovanni -in umido con le patate- certi sentimentalismi spariscono. Questa pesca si fa con la totanara, un’esca fatta con un piombo pitturato con colori vivaci, e sulla parte inferiore del piombo c’è una corona di piccoli uncini simili agli ami. La totanara viene legata al filo e calata in mare fino a circa due metri dal fondo. Poi, tenendo il filo tra le dita, si oscilla su e giù il braccio lentamente.
Il totano, che è un animale curioso, col chiarore della luna viene attirato dai colori e dal movimento della totanara e l’agguanta. (Infatti in Toscana, per dare del babbeo a qualcuno, gli dicono totano).
Nel caso che non ci sia il chiaro di luna, viene accesa la lampara, una lampada a gas appesa fuori bordo della barca. Anche Nilo aveva una lampara a poppa della Manola, ma preferiva la luce della luna, che costa niente. Quando il totano afferra la totanara, si sente un leggero strappo della lenza, e si deve recuperare velocemente il tutto; a questo punto il totano cerca di sganciarsi dall’esca, nuotando verso l’alto a maggior velocità della lenza, e spesso riesce a liberarsi. E anche quando è già fuori dall’acqua, prima di essere tirato a bordo, a volte riesce a staccarsi dall’amo. Quando poi è ormai nelle mani del pescatore, tenta l’ultima disperata difesa emettendo un potente spruzzo del suo liquido nero. Col totano non basta il detto: Chi dorme non piglia pesci; oltre che svegli, bisogna essere più che svelti, fulminei come la zampata di un gatto. E a quel gatto nervoso di nome Nilo, quella pesca si confaceva perfettamente. Non così a me; quei molluschi, o si liberavano prima che li recuperassi, o mi scivolavano tra le mani spruzzando il loro liquido. Per schivare quella doccia, cercavo di sganciarli girandoli in modo che lo spruzzo non mi colpisse; ma così facendo succedeva che a volte la doccia se la beccava il lupo, che attaccava a ululare e insultare. Avevo risolto il problema fingendo che alla mia lenza i totani non abboccavano. Io li sentivo agganciarsi, ma non tiravo su la totanara; e così il mollusco, anche se con qualche buchetto, tornava libero. E Nilo recitava il suo rosario: Chi gliel’aveva fatto fare di prendersi in barca un terrazzano buono solo con la zappa… che tra viaggio e pesca erano due giorni e una notte di lavoro… le spese del carburante… e avanti così…
La costa della Capraia era ad almeno una decina di miglia, e non sarei riuscito ad arrivarci a nuoto, quindi chiusi l’audio, mandandolo tacitamente a quel paese. Ma le mie pene erano solo all’inizio. Dopo quasi un’ora di quella tortura, ci si mise pure il mare; arrivò una corrente sottomarina che portava a spasso le lenze, e i totani non si agganciavano più. “Sarà mica che oltre a essere buono a nulla, porti pure rogna?” ringhiò il lupo. Poi aveva mollato la lenza e messo i totani in due cassette di polistirolo. Infine mi aveva ordinato di riavvolgere le lenze, mettere tutto nella stiva e rimanere lì sotto a dormire; lui si sarebbe sdraiato nella cabina sul ponte, in attesa che il mare migliorasse.
Non ero per niente entusiasta di scendere in quella stiva, però era un momento pericoloso, uno di quei momenti in cui un lupo di mare può trasformarsi in lupo mannaro. Disobbedire era rischioso, quindi scesi i tre gradini che portavano nella stiva e mi ritrovai nel buio pesto. Chinato in due per non picchiare la testa sul soffitto, cercai a tastoni una sistemazione tra le puzzolenti cassette di polistirolo; ma lo spazio che ero riuscito procurarmi era pari a quello di una bara, ugualmente duro e un po’ più corto. A consolazione, arrivò la voce del lupo, per dirmi che nell’angolo di prua c’era una coperta. Allungai un braccio davanti alla mia testa e la trovai; più che una coperta era un puzzolente sudario, ma in quella stiva umida e fredda non era il caso di far troppo lo schizzinoso.
Rannicchiato su quelle dure assi, mi chiedevo perché, in quella bella notte di luna piena, invece di essere sulla mia terrazza a guardare le stelle in compagnia del canto delle cicale, ero in quel pozzo nero solo come un cane. Ma proprio da solo non ero, perché incominciai a sentire un formicolare di animaletti lungo le gambe; ne toccai uno con le dita: al tatto sembrava una scolopendra, con tante zampette. Ma con quel buio era difficile riconoscere che animali fossero. Il primo istinto fu di schizzare fuori dalla stiva, ma siccome all’esterno avrei trovato un animale ben peggiore…
Per fortuna il supplizio durò poco, perché non passò molto tempo quando un grido del Capitano raggiunse me e gli altri inquilini della stiva. In un balzo fui sul ponte della barca e vidi Nilo che correva verso il motore, ma vidi qualcos’altro che mi lasciò come ipnotizzato. A una cinquantina di metri da noi passava una grossa nave da crociera. Era uno spettacolo straordinario: l’occhio faticava a contenere l’immagine di quell’enorme mostro marino, con una miriade di luminarie che si mischiavano con le stelle del cielo. La sagoma scura dello scafo faceva pensare a un preistorico animale acquatico, e la Manola, al confronto, era come un pesciolino vicino a una balena, e in quel momento avrebbe potuto diventarne la sua preda. Io era incantato da quella visione, e mi richiamò alla realtà l’ordine del Capitano, che mi diceva di salpare l’ancora. Nel frattempo, lui aveva avviato il motore e ingranato la marcia. Il mostro marino proseguì sulla sua rotta, lasciandoci per ricordo due enormi onde che raggiunsero velocemente la poppa della Manola. Quando la barca fu sollevata dalla cresta della prima onda, io ero rifugiato nella cabina, mentre il nocchiere reggeva con entrambe le mani la barra del timone. Il Capitano sapeva come combattere le sue battaglie e quando la barca, dopo la seconda onda, si ristabilì nel suo assetto, era come se nulla fosse accaduto.
Era quasi mezzanotte, e Nilo decise che in attesa di rimetterci a pescare, per evitare altri rischi, avremmo cercato riparo in qualche cala della Capraia, e lì avremmo potuto riposare tranquilli. Dopo mezz’ora di navigazione, calammo l’ancora in una rada, e il Capitano mi disse di ritornare a dormire nella stiva. Ma piuttosto che scendere in quel puzzolente loculo abitato da strane bestie, sarei sceso all’inferno. Perciò gli risposi che non avevo sonno e che sarei rimasto sul ponte.
“Allora scendo io. Stai attento a non raffreddarti, che qui fuori fa freddo” disse Nilo con inconsueta gentilezza, e poi sparì nella stiva. Mi sedetti sul ponte della Manola con la schiena appoggiata alla cabina, a guardare il confine fra cielo e mare. Lo scenario che avevo davanti agli occhi era uno spettacolo: sulla linea dell’orizzonte, il tremolio della luce delle stelle le faceva sembrare fiammelle danzanti sul palcoscenico marino. Ripensai all’avventura di quella notte e alla vicenda del mio naufragio, e mi vennero in mente tante altre avventure di naviganti. Cullato dal dondolio della barca, presi sonno. Fui destato dal rumore del motore e vidi Nilo che stava salpando l’ancora. Non mi aveva svegliato; forse aveva avuto riguardo per me e per i miei sogni, e stava facendo tutto da solo. Restai seduto sul ponte a svagarmi con i miei pensieri, guardando la prua della Manola che penetrava il buio del mare. Ero affascinato da quell’immensa massa scura, che altre volte aveva mostrato una spaventosa ostilità, e che adesso sembrava volermi accogliere nel suo grembo come una madre amorevole.
Ritornammo sulle secche dei totani e ci rimettemmo a pescare, ma il bottino fu scarso. Alle prime luci dell’alba il Capitano era stanco e di pessimo umore. Dopo aver messo nella stiva gli strumenti della pesca, accese il motore, mi ordinò di salpare l’ancora e poi mi chiese: “La vuoi portare tu la barca? Ti ricordi la rotta?”. Dissi di sì. Lui scolò una lattina di birra e sparì nella stiva. Non tirava un alito di vento, e il mare stava mutando il suo scuro colore in un pallido grigio ed era liscio come l’olio. La Manola fendeva l’acqua senza il minimo rollio, scandendo il ritmo del suo diesel monocilindrico: pom-pom-pom. La sorte di quel vecchio legno, testimone di chissà quali avventure, era nelle mie mani, quelle di un moderno Ulisse, che avrebbe potuto reggerne il timone fino a Itaca.
Navigai in solitudine quasi un’ora, e poi sbucò dalla stiva il legittimo nocchiere della Manola, che prese a trafficare con gli arnesi da pesca, lasciando ancora nelle mie mani la barra del timone. Dopo tre ore di navigazione avvistammo il faro di punta Polveraia, più avanti le Formiche, che stavolta il Capitano ordinò di aggirare al largo, poi Capo Sant’Andrea e infine arrivammo alla Cala.
Nilo si mise al timone e mi disse di stare pronto a gettare l’ancora, ma il rumore del motore non mi fece udire il comando del Capitano, e rimasi col rampone tra le mani. Il lupo schizzò dalla poppa come un felino e balzò a prua, mi strappò l’ancora dalle mani e la gettò in acqua. E poi mi gridò a muso duro la solita litania: “Chi non sa andare per mare, deve stare a terra!”.
Mi lasciò un po’ di totani da spartire con Giovanni, e senza uno straccio di saluto levò l’ancora e mise la prua in direzione di Portoferraio. Ero certo che i miei rapporti con quel lupaccio finivano lì.
Un tardo pomeriggio di qualche giorno dopo, dalla mia terrazza vidi la Manola entrare alla Cala.
Evitai di scendere alla spiaggia, per non avere a che fare con quel selvatico individuo. Il quale calò l’ancora, e col vecchio barchino a rimorchio approdò alla spiaggia. Ero sicuro che Nilo avrebbe preso il sentiero che porta alla casa di Giovanni, invece me lo ritrovai sulla terrazza con aria allegra. Aveva in mano un polpo di almeno quattro chili. “Andiamo su da Giovanni e gli chiediamo se ce lo cucina per cena!”. Non mi feci pregare, ero cosi felice di quell’inaspettato approccio del Capitano, che lo seguii come un cagnolino. E quella sera facemmo festa a casa di Giovanni. Ma la cosa più straordinaria, fu che Nilo mi propose un’altra battuta di pesca. Pensai che il Capitano fosse sbronzo, per farmi quell’invito. Infatti bevve qualche bicchiere di troppo, e quando venne il momento di congedarsi, si reggeva male sulle gambe. Giovanni gli propose di fermarsi lì a dormire, ma erano discorsi al vento. Il Capitano non avrebbe mai lasciato la Manola in balìa di qualche burrasca improvvisa, però ci assicurò che non avrebbe preso il largo, che sarebbe rimasto a dormire sulla barca e avrebbe salpato l’ancora al sorgere del sole. Lo accompagnai alla spiaggia e lo aiutai a mettere in acqua il barchino, poi restai lì fin quando lo vidi salire a bordo della Manola. Mi ero messo a letto da pochissimi minuti, quando udii l’inconfondibile rumore: pom-pom-pom…
Mi alzai e uscii sulla terrazza, e vidi la Manola che stava prendendo il largo. Ci avrei scommesso…
Da quella sera fummo amici -ma forse lo eravamo già da quella prima navigazione insieme, perché il mare è come una madre, e anche se è volubile, non divide mai i suoi figli ma li unisce-.
E anche se il lupo continuò a mostrarmi i denti al minimo sbaglio, avevo capito che con i lupi ci si può convivere bene, basta non lisciargli il pelo dal verso sbagliato.
Andammo ancora a pescare insieme, e più di una volta Nilo mise a disposizione la Manola per portare dei miei amici in gita all’isola della Capraia, affidando sempre a me il timone.
E ancora adesso, dopo tanti anni che ho lasciato l’isola, mi piace pensare che il Capitano nutrisse una speranza nei miei confronti: che sarei potuto diventare un lupo di mare.
Nota: Mi scuso con i veri lupi di mare per avere usato termini non marinareschi, come ad esempio: corda anziché cima. Ma qualche terrazzano come il sottoscritto, avrebbe potuto pensare alla cima alla genovese, lo squisito arrosto farcito.
C’è una marea di vocaboli del tipo: abbisciare, bigotta, bocche di rancio, braca, caviglia, cagnaro, cazzare, femminella… che non so quanta gente di terra sia a conoscenza del loro significato marinaresco.
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