di Sergio Scuffi
L’alpeggio rappresentava non solo una parte importante dell’economia agricolo-pastorale, ma corrispondeva ad un periodo non indifferente trascorso sulle montagne, lontani dalle abitudini del paese e dai normali contatti con i propri amici, conoscenti, parenti. Si tenga conto infatti che, sommando le varie tappe di questa vera e propria transumanza, si stava sui monti per quattro mesi (la terza parte dell’intero anno).
Lassù non esistevano negozi, si dimenticava la scuola, e non vi era alcuna possibilità di frequentare la chiesa. Si iniziava a salire sul maggengo (móont), località ad una quota relativamente modesta (800 – 900 metri). Erano tutta una serie, allineati a mezza costa ad interrompere, con i loro prati, i boschi che ricoprivano tutto il fianco della montagna: sono ancora visibili dal piano, per quanto ormai frequentati solamente in modo saltuario, da chi ha deciso di sfruttare e recuperare le cascine come case di vacanza. Al móont si rimaneva per tutto giugno, sfruttando il pascolo e, a tempo perso, raccogliendo legna, funghi, frutti spontanei, fra i quali delle piccole ma gustosissime fragole.
Approfittando dell’abbondante linfa che scorreva nelle piante, si toglieva la corteccia alle betulle, ottenendo i dòrp, utilissimi per accendere il fuoco. Si tagliava anche, per ben due volte, il fieno dei prati, allora molto curati e regolarmente concimati con il letame (ingrasè). Questo foraggio, accuratamente lavorato, seccato e stipato nelle stalle/fienile (inquadrelè), serviva come scorta per i periodi di scarsità, durante i quali esistevano due alternative: o trasferire le bestie sul maggengo, magari a marzo/aprile (fè mangè ‘l féen), oppure trasportare il fieno in basso (ed erano fortunati colori che potevano utilizzare, invece delle proprie spalle, il filo a sbalzo che, magari posizionato in occasione del taglio dei boschi, veniva lasciato sul posto anche per molti anni).
Verso fine giugno o all’inizio di luglio, nel giorno stabilito dal messo, avveniva il trasferimento verso l’ “alpe”, (carghè l’alp), posto a quota molto più elevata (non meno di 1500 – 1600 metri.
Il cammino era lungo e faticoso, interrotto da soste ristoratrici in alcuni punti ben definiti, che permettevano anche al bestiame di riposare, pascolare un pochino ed abbeverarsi. E poi di nuovo in cammino, fino a raggiungere la meta magari verso il mezzogiorno, e trovare finalmente ristoro nelle rustiche e semplici baite, rallegrate dal gorgogliare delle gelide acque di qualche ruscello che non mancava mai, nelle vicinanze.
L’ambiente si presentava talmente sereno e riposante che, in breve, si dimenticavano tutte le fatiche: pur arrivando a destinazione verso mezzogiorno o anche oltre, la giornata si considerava positivamente conclusa se nessuna bestia si era persa o, peggio sc-mersjüda, ossia caduta in qualche burrone (ce n’erano molti e spaventosi, almeno ai nostri occhi di bambino, durante il tragitto). Poi, mentre le mamme sistemavano la casa, svuotavano i “gerli” collocandone il contenuto nella semplice cassapanca (árcha), cambiavano il fieno che fungeva da materasso nei rustici letti (i “gròol”), i ragazzi, riprese immediatamente le forze, uscivano in cerca degli amici, per dare inizio a giochi e svaghi. Dal giorno successivo, iniziava il lungo periodo di due mesi durante i quali, per tutti, c’era una serie precisa di impegni. Compito degli adulti era preparare i pasti, mungere le mucche mattina e sera (anche lontano, sui pascoli dove avevano pernottato), provvedere alla lavorazione del latte (casèda) per ricavare burro e formaggio. I ragazzi dovevano, dal canto loro, custodire le bestia sui pascoli, provvedere alla ricerca delle capre e riportarle, mattina e sera, presso le cascine per la mungitura, provvedere alle scorte di legna: e trovavano ancora tempo ed energie per giocare e divertirsi, in modo semplice e con mezzi rudimentali.
La capacità di “carico” dell’alpeggio, ossia la quantità stimata di bestie che potevano trascorrervi l’estate, era indicata in vacée (“vaccate”, ossia quote corrispondenti al pascolo necessario per ogni vacca): potevano essere di proprietà (comprese le eventuali frazioni, όonz) oppure prese in affitto.
Durante l’estate, ciascuna famiglia doveva prestare delle giornate di lavoro per le necessità dell’alpeggio (pulire pascoli, aggiustare sentieri), in rapporto al numero di bestie “caricate”: curioso il fatto che la giornata dell’uomo veniva considerata per intero, mentre quella delle donne o dei ragazzi valeva la metà.
Le decisioni importanti venivano prese dal messo d’alpe, eletto per uno o due anni, secondo norme ben codificate (per l’Alpe di Campo è stato trovato un regolamento dettagliato, di dodici “capitoli” o articoli, risalente al 1814). Egli curava l’amministrazione generale, stabiliva la data di carico e scarico dell’alpeggio, indicava i luoghi nei quali prestare le giornate di lavoro. Provvedeva inoltre a pagare la tája (tassa sull’alpeggio) con le quote raccolte da ciascuna famiglia, secondo precisi calcoli; riscuoteva infine le eventuali quote a carico dei proprietari di pecore accudite per tutta l’estate da un pastore appositamente incaricato, provvedendo a pagare il suo compenso ed accantonando il resto per le necessità dell’alpeggio.
A fine agosto si tornava a scendere nei maggenghi, dove si rimaneva per circa un mese, durante il quale si continuavano a sfruttare i pascoli, si raccoglievano le patate nei piccoli orti presso le cascine, si completavano le scorte di legna.
L’inizio di ottobre, finalmente, riportava tutti al basso: gli adulti alle prese con le consuete mansioni, i ragazzi, loro malgrado e con qualche rimpianto, sui banchi di scuola.
Immagini estrapolate dal libro
Nü’n cuštümáva
su gentile concessione dell’autore
IDEVV – ISTITUTO DI DIALETTOLOGIA E DI ETNOGRAFIA VALTELLINESE E VALCHIAVENNASCA
Racconti & Ricordi*anzianiincasa_2018