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La “müżüra dal lüĝhànaĉh’”

La “müżüra dal lüĝhànaĉh’”

di Sergio Scuffi

La “müżüra dal lüĝhànaĉh’” (ovvero: dell’ingenuità dei ragazzi cresciuti senza televisione)

Ancora oggi la “mazìglia” è diffusa tra le famiglie dei nostri paesi. Nel dopoguerra tuttavia, fino agli anni sessanta inoltrati, non si trovava nessuno che non macellasse in casa, anche più d’una volta nella stagione fredda, il proprio maiale. Era un avvenimento che coinvolgeva tutti quanti, grandi e piccini, ancora prima dell’alba (i primi indaffarati a preparare tutto l’occorrente, gli altri, risvegliati anzitempo dal trambusto provocato dal continuo andirivieni e dai richiami, incuriositi e desiderosi di partecipare, e convinti di poter dare, in qualche modo, il proprio contributo).

Giunto quindi il macelàar, persona del luogo che, per qualche combinazione, aveva avuto occasione di occuparsi di questo lavoro raggiungendo una buona pratica ed esperienza, si procedeva alla macellazione, alla pulizia della cotenna (levando tutto il pelo annaffiato abbondantemente con acqua bollente e raschiando con coltelli affilatissimi), alla separazione delle interiora (messe da parte, perché poi, con calma, si sarebbe consumato tutto quanto). Si proseguiva quindi con la cernita delle carni per insaccare i diversi tipi di salumi. Dopo averle passate, anche più volte, nella macchinetta azionata faticosamente a mano, per triturare il tutto, il macelàar procedeva alle operazioni di pesatura ed alle successive combinazioni di spezie varie e dai nomi misteriosi. A sera (in quella stagione sopravviene subito dopo il tramonto, quindi alle quattro del pomeriggio circa: alle sei si è a… notte inoltrata!), finalmente, giungeva il momento più gradito: quello di insaccare il prodotto di tanto lungo e faticoso lavoro: “fè al lüĝhànaĉh”. Era questa l’occasione nella quale, puntualmente, il macelàar si grattava la zucca con aria preoccupata, esclamando: “ E adèss cumē n’à da fè, ĉhe ô desc’menteghēe a ĉhè la müżűra dal luĝhànaĉh? (Ora come facciamo, dal momento che ho dimenticato la misura per le salsicce?).
Fortunatamente, qualcuno si ricordava che il vicino di casa doveva averla conservata dall’anno precedente, per cui uno dei piccini (che non aspettava altro che un pretesto per rendersi utile) veniva invitato a farsela prestare.

Il vicino di casa, interpellato,  dopo aver riflettuto con aria grave per qualche minuto, raggiungeva la cantina, un ripostiglio o il solaio, ritornandosene con in mano gli oggetti più svariati (un palanchino di ferro, un rastrello, una cesta, una gerla) affermando: “‘l mē pàar ĉhē quésc’tu ‘l varēss da ‘ndè béen” (Secondo me questa è la misura giusta). Il bimbo se ne tornava tutto orgoglioso, accolto dalle clamorose risate di tutti quanti. Finalmente accortosi della burla, se ne stava per un po’ immusonito in un angolo, salvo riprendere la propria genuina ed irrefrenabile vitalità non appena sentiva il profumo della cottura del primo assaggio, accompagnato dall’immancabile polenta.

 

 

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