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La lettera

La lettera

di Giulio Ghirelli
Terza parte di sei

Il primo giorno

Non fu la luce del sole a svegliare Bren, poiché l’astro era di là da un cielo plumbeo che mandava sulla terra una pioggerella sottile e costante, come succede in certe giornate d’autunno.
A fargli aprire gli occhi fu invece il profumo del caffè, che era entrato nella stanza insieme a Stella, la quale aveva addosso un corto accappatoio di spugna bianco, colore che le faceva risaltare la pelle ambrata e i capelli color del rame.
Reggeva un vassoio su cui, oltre alle tazze del caffè, vi erano due bicchieri di latte caldo, il piattino col burro, delle fette biscottate e un vasetto di marmellata.
“Ben svegliato!” disse festosamente lei posando il vassoio sul letto.
“Che ore sono?” barbugliò lui, ancora imbastito al punto di dimenticarsi di ricambiare il saluto.
“Quasi le undici” rispose lei. “Ossignore! Ho dormito così tanto? E tu è da molto che sei in piedi?”.
“Giusto il tempo di fare la doccia e preparare la colazione. Ma per quello che abbiamo da fare con questo tempo, possiamo prendercela comoda. Se fosse stato bello ti avrei portato a vedere qualcosa. Però il meteo ha previsto che da domani torna sereno” disse lei sistemandosi sul letto.
“Giusto, prendiamocela comoda” si associò lui, mettendosi seduto sotto il lenzuolo “Anche perché, se devo dirla tutta, questo letto offre molte opportunità, oltre a quella di dormire. Si può mangiare, chiacchierare, riflettere…”.
“Ne hai volutamente esclusa una o non te la ricordi?” disse Stella con tono ironico.
“Perché? Abbiamo fatto altro?” fece lui. “Scemo!… oh scusa, mi è scappato!” esclamò Stella.
Tra loro c’era il vassoio con la colazione, e se Bren avesse fatto quello che desiderava fare, avrebbe rovesciato tutto. Quindi, il bacio che voleva darle, glielo mandò con la mano.
Finita la colazione, Stella disse: “Se ti va bene, per la doccia e le altre necessità puoi usare il mio bagno, così non sto lì ad aprire l’acqua delle camere”.
“Grazie! Sei una doppia stella! Una con la maiuscola e una con la minuscola. Sapessi quanto adoro stare nella la tua doccia…”.
“Scemo! E stavolta non mi è scappato!”.
“Quanto tempo mi dai per tirarmi fuori dal letto?”.
“Tutto il tempo che vuoi. Io ho da sistemare un po’ di cose. Ci vediamo dopo. Ciao!”.
Il ‘dopo‘, arrivò quando Stella dovette dare un buffetto sulla spalla di Bren, che aveva richiuso gli occhi poco dopo che lei lo aveva salutato.
“Buon pomeriggio!” gli disse. “Che ore sono?” bofonchiò lui, che quel giorno non riusciva proprio a rispondere ai saluti.
“Quasi le tre, signor dormiglione! Credo sia ora che ti alzi, altrimenti questa notte la passi sveglio”.
“Non mi dispiacerebbe…” disse Bren, allungando una mano fino sulla scollatura della camicetta bianca, che insieme a un paio di attillati jeans color ciliegia, rendevano Stella molto attraente.
Lei diede uno schiaffetto alla mano toccacciona e poi gli propose un piatto di tagliolini al salmone.
“Con un Vermentino fresco” aggiunse.
“Fantastico! Però mi serve un po’ di tempo per lavarmi e lustrarmi, perché anche con l’accappatoio di spugna posso essere attraente…”.
“Me ne stavo dimenticando, i tuoi vestiti sono nella tua camera lavati e stirati. Ho fatto tutto questa mattina mentre dormivi”.
“Sei una donna da sposare!” esclamò lui.
“Adesso non potrei” rispose lei uscendo dalla camera.
-Strana risposta- pensò Bren. Ma poi rifletté che sondare la mente delle donne…
Prima di entrare nella doccia, si recò nella sua camera a prendere i jeans e una maglia.
Mancava poco alle sedici quando si sedettero nella saletta da pranzo, satura di profumo di pesce.
Avevano da poco finito i tagliolini, quando Stella gli chiese: “Perché sei venuto via dall’Irlanda?”.
Parlare di quella storia era come infilarsi un punteruolo nel cuore. Aveva sempre evitato di farlo.
Ma Stella gli era entrata nell’anima, e allora gli parve giusto dirle quello che era accaduto là.
“Negli anni ottanta, la guerra civile tra gli Forze Inglesi e l’IRA, Irish Republican Army, che voleva l’indipendenza dall’Inghilterra, era all’apice. Dublino era un campo di battaglia, e le sparatorie e le bombe, le potevi incontrare ad ogni angolo della strada. Mia madre stava andando a consegnare con la bicicletta un mazzo di girasoli a una sua cliente, e mentre passava davanti al Consolato Inglese, scoppiò un’auto bomba. Morì tra quei fiori che erano i suoi preferiti. Aveva compiuto quarant’anni. Mio padre quasi impazzì di dolore, e il negozio di fiori andò a ramengo. Restare in Irlanda divenne per lui pericoloso, se la prendeva con tutti, colpevolizzava chiunque per la morte della moglie. Più di una volta lo portarono a casa pieno di botte, perché alla sera andava a ubriacarsi nei pub e poi prendeva a pugni la gente. Fin quando un amico irlandese prese in mano la situazione. Lo convinse a tornare in Italia e lo aiutò a vendere i muri del negozio e la sovrastante abitazione dove vivevamo. Mio padre aveva cinquantacinque anni e io quattordici. Ma le cose all’Elba non andarono meglio. Lui non aveva alcun interesse a trovarsi un lavoro. Passava le giornate nella casa di Capoliveri che aveva ereditato dai suoi genitori, e i soldi li spendeva in bottiglie di liquori. E di me, che prima della tragedia si prendeva cura con tutto l’amore possibile, non si occupava più. Io con l’italiano me la cavavo bene, perché sin da piccolo lui me l’aveva insegnato, e avrei voluto riprendere con gli studi. Ma ormai a mio padre non interessava più niente del mio futuro. Un suo vecchio amico che aveva una trattoria nel paese, mi prese a lavorare come lavapiatti. Le poche uscite che faceva mio padre, era per andare in mare a pescare con la vecchia barca dei nonni. Ma una sera non rientrò a casa. Io ero talmente sbandato con la testa, che non mi preoccupai di dare l’allarme. La barca fu ritrovata il mattino dopo al largo di Capoliveri, ma il suo corpo non fu mai ritrovato. Il vecchio amico di mio padre si occupò di me nel miglior modo possibile, e quando una decina di anni dopo, poiché aveva da tempo raggiunto l’età della pensione, cessò l’attività e mi fece assumere come cameriere in quel prestigioso hotel dove ci siamo conosciuti. E anche se con qualche incidente di percorso, come due matrimoni naufragati, non posso lamentarmi troppo di come mi sono andate le cose. E se ora mi trovo qui con ancora la voglia di vivere, e magari fare anche qualche progetto, va bene così”.
Poi parlò solo il silenzio. Si era fatto buio, Stella non si era preoccupata di accendere la luce, e lui non riusciva a vedere il suo volto. Ma il silenzio che regnava nella saletta, lo indusse a pensare che forse il suo racconto l’aveva turbata a tal punto, da non riuscire a dire una parola.
E lui si rammaricò di averle raccontato la sua storia. Ma era Stella che glielo aveva chiesto, e se il destino avesse voluto che tra loro nascesse qualcosa, il peggior modo di iniziare era quello di tacere la verità, pur dolorosa che fosse.
Poi vide la sagoma di Stella alzarsi, venire verso il lato opposto del tavolo, e poi non la vide più. Infine sentì abbracciarsi da dietro la sedia, e il viso di lei, bagnato come se vi fossero scese lacrime, incollarsi al suo.
Tutto quello che seguì, avvenne al buio e nel silenzio.
Le loro ombre che si prendono per mano ed escono dalla saletta, poi attraversano il corridoio per entrare nella camera di Stella.
Aveva smesso di piovere, e la fioca luce della luna che penetrava attraverso i vetri della finestra, era sufficiente per rischiarare la stanza, quel tanto per scorgere due figure vestite distese sopra il letto, abbracciate.
E in quel silenzio si potevano udire i loro respiri, che dicevano di più di mille parole.

 

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La lettera II° parte di VI
La lettera IV° parte di VI
La lettera V° parte di VI
La lettera VI° parte di VI


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