di Giulio Ghirelli
Nel 1961 Romeo non aveva ancora compiuto i diciassette anni e faceva l’apprendista in una piccola tipografia di Via Monviso, a poche centinaia di metri dalla sua casa di ringhiera al Borgo degli ortolani, una zona di Milano che allora era considerata di campagna, e che veniva chiamata così perché l’attività prevalente di quel borgo era la coltivazione di ortaggi, e da ogni quartiere della città venivano a comprare quelle verdure.
Con la sua poca voglia di studiare, finite le scuole medie, sua madre gli aveva trovato un lavoro presso una tipografia di Via Monviso, poco distante da casa. E lei non perdeva occasione per andare a rompere le scatole al signor Pozzi, il proprietario della tipografia, un ometto sulla cinquantina, che di fronte a quel grintoso caporalmaggiore della madre di Romeo si faceva ancor più piccolo, perché lei lo tormentava per sapere da lui come andava suo figlio.
“Ha troppa premura di imparare; in questo lavoro ci vuole pazienza e precisione, e suo figlio vuole fare le cose di fretta, e ogni tanto combina qualche pasticcio. Però non è stupido e non ha paura di sporcarsi le mani. Imparerà”.
E Romeo aveva imparato, al punto che pochi mesi dopo, la sua paga, che era di 34 Lire all’ora, era salita a 75. A quei tempi il pane costava 140 Lire al chilo.
In Via Monviso c’era un laboratorio di pasticceria rinomato in tutto il quartiere, si chiamava Bolgé, e quando Romeo vi passava davanti quattro volte al dì per andare e tornare dal lavoro, si riempiva i polmoni di quei deliziosi profumi di dolciumi che uscivano dalla porta del negozio.
Ma per lui e la sua famiglia, entrare in quella pasticceria era come entrare dentro il negozio di una gioielleria, viste le scarse finanze di cui disponevano. Solo nelle feste comandate si potevano concedere il lusso di un piccolo panettone o di una colomba.
E quando da bambino faceva merenda con una michetta farcita di burro e zucchero, a volte passava davanti al Bolgé per riempirsi le narici con i profumi dei dolci. Cosi la merenda sembrava più buona.
Fin quando, quel giorno che uscì dalla tipografia con la paga più alta, decise di entrare dal Bolgé, per la gioia sua e della sua famiglia di festeggiare l’aumento con un piccolo vassoio di pasticcini.
Quando entrò nel negozio, era talmente frastornato dai profumi di tutti quei dolciumi esposti come gioielli dentro le vetrine dei banchi, che neppure pensò di salutare la commessa.
Del resto, neppure lei -una tipa alta quanto lui, che sulla pedana dietro il banco lo sovrastava di una spanna- si prese il disturbo di salutarlo. Anzi, quasi pareva infastidita nel vedere quel ragazzotto con i capelli biondi spettinati, la faccia con qualche sbaffo nero di inchiostro di tipografia sul viso e la tuta blu da lavoro con le medesime tracce.
La commessa, che forse aveva un paio d’anni più di lui, con i capelli color rame, lisci e tagliati corti, un paio di occhiali con la montatura rotonda di tartaruga, e un’aria piuttosto scocciata, lo guardava con aria spazientita, in attesa che lui dicesse qualcosa.
“Otto bigné” disse, facendo il conto che per lui e i suoi familiari, uno era una miseria e tre un lusso.
Mentre lei gli incartava il vassoio, lui guardava ammirato attraverso l’ampio vetro che separava il negozio dal laboratorio, dove quattro o cinque persone con il grembiule bianco, si destreggiavano tra piccoli macchinari e utensili per impastare, cuocere, farcire e decorare dolciumi. E quasi si vergognò di come era vestito e sporco. E come avrebbe voluto cambiare il suo lavoro con quello!
Se non fosse stata una commessa così antipatica, le avrebbe chiesto se cercavano manodopera.
Tirò fuori due biglietti da mille lire dalla busta paga, li diede alla commessa, prese poche monetine di resto, e stavolta intenzionalmente, uscì dalla pasticceria Bolgé senza salutare.
La tipa ricambio nel medesimo modo.
Quel primo approccio con l’antipatica commessa, gli venne in mente quella sera che, seduti su una panchina dei giardini di Porta Volta, la stringeva tra le braccia.
Perché Romeo, dopo quei bigné, era tornato quasi per sfida in pasticceria. Ma stavolta era un sabato pomeriggio, che libero dal lavoro, si era recato ai bagni pubblici di via Filelfo -nella loro casa di ringhiera non avevano il lusso del bagno, solo il lavandino nella cucina e il gabinetto in comune sul pianerottolo-, si era strigliato per bene ogni traccia di inchiostro, poi era andato dal barbiere e si era fatto sistemare i capelli. Non più con la riga, ma tirati all’indietro, come usavano gli adulti di allora.
Il barbiere aveva avuto il suo bel daffare, perché i capelli non volevano saperne di stare in quel modo, e come toglieva il pettine, si alzavano come gli aculei di un riccio. Ma con mezza scatoletta di pasta di brillantina Linetti, era riuscito a farli stare a posto. Poi il barbiere gli aveva spruzzato un profumo che a Romeo dava la nausea. La prima volta che aveva i capelli impomatati e profumati.
Poi, con i jeans lavati e stirati, una camicia bianca presa in prestito da suo papà, e le scarpe della festa color testa di moro, lucidate che ci si poteva specchiare dentro, verso le diciassette si avviò.
“Buongiorno signorina, si ricorda di me?” disse con voce altezzosa entrando nella pasticceria.
La commessa, al momento restò impassibile, forse manco l’aveva riconosciuto.
“Vorrei ancora otto bigné come quelli dell’altro giorno, che erano proprio una bontà!” la agevolò lui nella memoria.
“Ah buongiorno! Non l’avevo riconosciuto!”. E con un acceso sorriso che mutò quell’inespressiva maschera in un affascinante volto, la ragazza era tutta un’altra persona.
Romeo avrebbe voluto approfittare per attaccar bottone, ma erano entrate altre persone, e non gli rimase che pagare i bigné e salutarla.
Ma il sabato seguente era ancora lì, lavato e stirato.
Per prima cosa pensò bene di presentarsi: “Non le ho ancora detto il mio nome, mi chiamo Romeo” e le tese la mano. Lei la strinse e disse: “Piacere, io mi chiamo Iolanda”.
Stavolta prese solo un bigné per la sua sorellina, perché comprarne otto alla settimana, anche con la busta paga più sostanziosa, era troppo un lusso.
Poi prese a far capolino nel negozio quando usciva dal lavoro, per un veloce saluto alla commessa, dopo aver tolto la tuta sporca ed essersi dato una bella strigliata in faccia nel bagno della tipografia.
Era un venerdì sera, quando, dopo essersi accertato che il negozio fosse vuoto, entrò e si avvicinò al banco, e dopo il saluto con un accattivante sorriso, da lei corrisposto, le disse quasi bisbigliando: “Lo ha visto il film Via col vento?”.
Lui lo aveva già visto, un pizzone di quattro ore, ma gli pareva che fosse un film adatto, casomai lei avesse accettato l’invito. Poiché quattro ore nel buio di un cinema, chissà…
“Lo danno al cinema Aurora, qui vicino, in Via Paolo Sarpi. Se è libera domani sera…”.
“L’ho già visto” rispose la Iolanda. E Romeo si senti un groppo in gola. Non sapeva più che cosa dire e sarebbe voluto sprofondare sottoterra.
“Però lo rivedrei volentieri, un film così appassionante…” aggiunse poi la commessa.
“Allora domani sera?” chiese lui, quasi senza credere nel miracolo.
Si diedero appuntamento davanti al cinema Aurora, per l’ultimo spettacolo che iniziava alle venti.
E dalla contentezza, quel giorno tornò a casa con otto bigné.
Il film era lungo che non finiva mai, ma per lo spiacevole motivo che qualche impacciata iniziativa di approccio con la Iolanda, falliva miseramente. Lei pareva dentro nello schermo insieme con gli attori del film, e non c’era verso di tirarla fuori. Qualche manovra di metterle una mano sulla sua, oppure di avvicinare il suo viso a quello di lei, veniva silenziosamente respinto.
Alla fine del film, lui si offerse di accompagnarla a casa, poco distante da lì, in Via Farini, ma lei rifiutò cortesemente. Si salutarono davanti al cinema, e anche un timido tentativo di darle un bacio sulla guancia, non venne accolto.
I giorni seguenti, Romeo, quando passava davanti alla pasticceria, tirava dritto senza rivolgere lo sguardo dentro il negozio.
Finché il venerdì sera, oltrepassata la pasticceria, sentì la voce della Iolanda, che aveva messo la testa fuori dal negozio: “Romeo?”.
Il cuore gli sussultò. Si fermò e si girò.
“Non ti fai più vedere…” disse lei.
“Pensavo che…” rispose lui, senza trovare altre parole.
Le trovò la Iolanda: “Domani sera c’è la sagra del rione con i mercatini e le strade addobbate…”.
E fu la sera che alla fine della sagra del rione, si fermarono su quella panchina dei giardini di Porta Volta a mangiare un gelato. E lì, lui prese tutto il coraggio che aveva per dirle che si era innamorato di lei. Poi lasciò cadere in terra il gelato, l’abbracciò e fece per baciarla. Ma lei ritrasse il viso di quel poco che diceva e non diceva.
Ma poi finalmente si lasciò baciare.
E il bacio che la Iolanda gli ricambiò, era il più bel bacio che avesse mai ricevuto.
E’ vero che Mariagrazia, il suo primo amore e l’unica ragazza che aveva baciato, era maestra in fatto di baci, e in quel poco tempo in cui erano rimasti insieme, se n’erano dati una tale quantità e con una tale passione, che Romeo era certo che nessun’altra dopo di lei gli avrebbe fatto provare tutti i turbamenti che provava con i suoi baci.
Invece adesso, dopo il bacio della Iolanda, quelli del suo primo amore poteva anche dimenticarli.
Si sentiva come ubriaco dall’effetto di quel bacio.
E mentre stava stringendo con ancor più passione la ragazza, e posare di nuovo le sue labbra su quelle di lei, improvvisamente Iolanda si divincolò dal suo abbraccio, si alzò dalla panchina come un fulmine, e dicendo: “Si è fatto tardi, devo andare” scappò via come fosse inseguita da un branco di lupi. E in pochi secondi sparì nel buio della notte.
Romeo ci capiva più niente. Un minuto prima gli pareva di esser dentro un sogno, ora in un incubo.
A diciassette anni, le uniche due donne della sua vita lo stavano riducendo uno straccio.
E’ vero che dire alla Iolanda che era innamorato di lei, era stato un po’ esagerato. Di certo non era lo stesso sentimento che aveva provato, e che ad essere sinceri stava provando ancora per il suo primo amore, e che nonostante fosse passato un anno, la ferita nel cuore non si era ancora rimarginata.
Però un bel sentimento per la Iolanda gli stava nascendo nel cuore, e forse sarebbe stata una buona cura per guarire la vecchia ferita.
Invece adesso si sentiva il cuore pugnalato più di prima.
E con quel pensiero, sentì gli occhi inumidirsi.
C’era forse qualcuno che a quell’età si sentiva così devastato?
Perché lui percepiva che il misterioso comportamento della Iolanda non portava niente di buono.
E nel tornare a casa, decise che per mettersi in salvo, quella era l’ultima volta che la vedeva.
Il lunedì seguente non passò davanti alla pasticceria, ma fece una strada diversa, molto più lunga, per recarsi alla tipografia.
Ma non risolse molto. Non bastò non vedere quella ragazza per togliersela dalla testa.
Erano passati due giorni, quando verso le cinque di sera il principale lo chiamò in ufficio.
“Nella cassetta della posta ho trovato questa busta per te” gli disse.
“Per me?” disse stupito Romeo.
“Sulla busta c’è scritto Romeo, e qui ci sei solo tu” rispose il suo capo.
Era una busta bianca, e c’era scritto proprio il suo nome, solo quello.
Romeo la prese, e un brivido gli percorse le vene.
Certe cose si sentono senza saperne il motivo.
Si mise in tasca la busta, e in tasca gli scottò fin quando, un’ora dopo, uscì dal lavoro.
Appena fuori, la levò dalla tasca e l’aprì.
Romeo,
vorrei tanto chiamarti “Mio caro”, ma vista la situazione, non posso proprio concedermelo.
Sono le due del pomeriggio di lunedì e ho appena ritirato la liquidazione.
Quando avrò finito di scrivere questa lettera, la darò a un’operaia della pasticceria, che si è resa disponibile per metterla domani pomeriggio nella cassetta delle lettere della tua ditta.
Poi alle quattro e venti prenderò il treno.
Ci conosciamo da poco tempo, e di te so soltanto il tuo nome, dove lavori e poche altre cose.
Però credo di conoscerti abbastanza per aver desiderato di stare insieme con te.
Ma il destino ha giocato proprio delle brutte carte per noi.
Magari non sei innamorato come mi hai detto l’altra sera, però so che dei buoni sentimenti per me li provi.
E oltre a quel bacio, avrei voluto dartene altri mille, ma tu non puoi immaginare cosa provavo in quel momento, sapendo che poi avrei dovuto lasciarti
L’altra sera ti ho proposto di uscire per dirti tutto, ma quando tu stavi per baciarmi ho avuto un attimo di incertezza, perché sapevo che ti avrei illuso. Ma poi non ce l’ho fatta a negarmi.
Ma dopo quel bacio, non ho più avuto la forza di dirti tutto, e sono scappata come una ladra.
E non è stata solo quella volta, che ti ho desiderato.
Quella sera al cinema, tu non puoi credere quanto avrei voluto accettare i tuoi baci e le tue carezze, ma ero troppo tormentata per quello ci riserva il destino.
Da quasi tre mesi porto in grembo una creatura, il cui padre è sparito subito dopo aver saputo che sono incinta.
Non era un grande amore, e non soffrirò per l’abbandono.
E poi sono abituata alle sofferenze e agli abbandoni, non avendo conosciuto i miei genitori ed essendo cresciuta in un orfanotrofio, dovendo imparare a cavarmela da sola sin da piccola.
E nei miei diciotto anni di vita, sono arrivata ad avere un lavoro dignitoso e una modesta casa.
Ma ora devo gettare tutto quanto al vento, perché nelle mie condizioni non riuscirei ad andare avanti da sola, e devo appoggiarmi a dei conoscenti che abitano distanti da qui, e che mi hanno offerto di aiutarmi fin quando non riuscirò a camminare di nuovo con le mie gambe.
Altre soluzioni sono per me impensabili, come quella di abortire, o abbandonare mio figlio come hanno fatto con me.
Oppure come quella di coinvolgerti in questa mia complicata situazione.
E forse tu lo avresti fatto, ma basta la mia, di vita disastrata.
Ma non pensare che io sia alla disperazione, sono una ragazza forte, amo la vita e rialzerò la testa come e più di prima.
E sicuramente la creatura che nascerà mi darà nuova linfa e ancora maggior voglia di vivere.
Farò di tutto per dare a mio figlio quello che a me è mancato. Innanzitutto l’amore.
Sono sicura che non ti dimenticherò, perché nonostante che la nostra conoscenza sia durata il tempo di un arcobaleno dopo il temporale, nel mio cuore tu resterai quell’arcobaleno.
Abbiamo entrambi tutta una vita davanti a noi, e chissà che un giorno ci si possa incontrare.
Il modo è grande, ma quando il destino è favorevole, può diventare piccolo.
Tua
Iolanda
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