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  La conchiglia dipinta

  La conchiglia dipinta

    di Giulio Ghirelli                                              

“… e il naufragar m’è dolce in questo mare”
(Giacomo Leopardi – L’infinito)


Capitolo primo
Lea diede un ennesimo tocco di pennello alla tela. Era sempre così, da quando dipingeva. Le pareva sempre che il quadro non fosse perfetto. Eppure ciò che raffigurava nei suoi quadri era sempre più reale che non una perfetta fotografia. E per dipingere quella conchiglia su una piccola tela, era già da sei giorni che passava tutte le ore della giornata seduta davanti al cavalletto nella sua stanza, illuminata dalla luce del sole che entrava dalla finestra affacciata sul mare.
Ma il tempo non le mancava. Ai primi di ottobre i turisti se n’erano già andati da un po’, e le sue tre camere che dava in affitto ai villeggianti erano vuote. Però nella stagione estiva aveva il suo bel da fare con tutti i clienti che andavano e venivano. E di mettersi a dipingere poteva solo sognarselo.
Non è che il lavoro di affittacamere la facesse impazzire di gioia. Anche perché era una donna che amava stare sola. Quella beata solitudine che le permetteva di mettersi davanti al cavalletto nella sua stanza della casa in riva al mare a dipingere. Era la casa dei suoi genitori. Suo padre era pescatore, e gliel’aveva portato via una burrasca notturna mentre era al largo a pescare. Lei aveva solo sei anni.
E sua madre aveva fatto tutti i sacrifici possibili per tirar grande quell’unica figlia e farle prendere il diploma al liceo artistico, poiché la figlia aveva passione per il disegno. Ma quel pezzo di carta non le era servito per qualche professione artistica, poiché quel piccolo paese non era un luogo per certe attività. E di partire a cercar fortuna non poteva permetterselo. Però un diploma è sempre un titolo di studio, e con quel pezzo di carta, dopo un concorso, era stata assunta all’ufficio postale di Iglesias.
E dal suo paese di Portoscuso, ogni giorno faceva una ventina di chilometri per recarsi al lavoro. Prima con la corriera, fino a quando era riuscita a comprare un’utilitaria. Non aveva mai fatto i conti di quanti chilometri avesse fatto in quei trentasei anni di va e vieni. E quel tempo si era portato via i migliori anni della sua vita, lasciandola alla soglia della pensione senza qualcuno al suo fianco. Solo due genitori a cui portare un fiore al cimitero. Per la verità, non si era data molto da fare per trovarsi un compagno. E quelli che le si erano proposti, per un verso o per l’altro, non le andavano bene. Ma ciò, finora, non le era pesato, dato che il suo grande amore era la pittura. E ogni minuto del tempo libero lo passava davanti al cavalletto. Aveva riempito quasi tutte le pareti di casa con i suoi quadri. E con quella sua arte avrebbe potuto incrementare la modesta pensione di impiegata postale. Così come la incrementava affittando le tre stanze libere della casa.
E ce n’erano parecchi dei suoi ospiti villeggianti che le chiedevano di vendergli i quadri. Ma lei non era mai riuscita a staccarsi da uno dei suoi dipinti. Adesso però cominciava a sentire un po’ il peso di quella beata solitudine. E il pensiero di mettere in tavola due piatti anziché uno, e vedere la faccia di qualcuno mentre stai cenando, invece di guardare la parete piena di quadri, e scambiarsi la buonanotte prima di prender sonno, le metteva malinconia. E forse da questo era originato il sogno che aveva fatto la notte di sei giorni prima. E ciò che aveva sognato, il mattino dopo l’aveva messa davanti al cavalletto e aveva dipinto senza tregua, e con una passione ancor maggiore che per gli altri quadri.
Perché, pur sapendo che i sogni rimangono tali, tutto può succedere nella vita. E quella conchiglia doveva mettere la tentazione di appoggiare l’orecchio al dipinto per udire l’eco del mare.
Al pomeriggio del sesto giorno, Lea era finalmente soddisfatta del suo lavoro. Ora doveva solo aspettare che venisse notte, e poi sarebbe uscita da casa col dipinto e avrebbe camminato per una cinquantina di passi fino a raggiungere la sua piccola barca di legno sulla riva del mare.

Capitolo secondo
Leonardo, che gli amici avevano soprannominato Ulisse per la sua perizia nel navigare, una mattina di fine ottobre, dopo aver messo nel bagagliaio dell’auto una piccola valigia, e sul sedile di fianco a lui una sacca di tela, aveva acceso il motore e aveva lasciato il suo paese, Rio Marina all’Isola d’Elba, e in meno di un’ora era arrivato a Portoferraio, dove si era imbarcato sul primo traghetto che partiva per Piombino. Da lì, in circa due ore e mezza, era arrivato a Civitavecchia, dove era di nuovo salito su un traghetto diretto a Olbia, in Sardegna, e lì aveva pernottato. Il mattino dopo si era rimesso in marcia, e aveva calcolato che avrebbe dovuto sorbirsi almeno quattro ore di macchina.
Non aveva dimestichezza con l’automobile e guidava lento. Lui era un uomo di mare e in Sardegna ci veniva con la sua barca. Aveva un vecchio cabinato a vela comprato usato, e quando aveva le ferie si metteva in navigazione e raggiungeva l’isola sarda, e le girava intorno per tutto il periodo di vacanza. Sempre in solitario. Su quella barca non ci voleva nessuno, ne era geloso come fosse una bella donna. Bella come quella svedese che era stata la sua compagna per quasi un anno, fino a quando non lo aveva lasciato per un altro uomo. La ragazza si chiamava Christine, e l’aveva conosciuta a bordo di uno dei traghetti che faceva la spola tra Piombino e Portoferraio, sul quale lui lavorava come addetto agli ormeggi. E durante quell’ora di navigazione, gli restava tempo per posare gli occhi sulle turiste che si recavano all’Elba. E su più di una non vi aveva posato solo gli occhi. Ma con Christine non era stata una botta e via. Per lei aveva perso la testa, al punto che aveva mollato il lavoro e l’aveva seguita in Svezia. Ma poi gli era toccato ritornare all’Elba come un cane bastonato. Lasciando in Scandinavia un bel pezzo del suo cuore. Da allora era passata una trentina d’anni senza che lui avesse guardato negli occhi di una donna.
E quel pezzetto di cuore che gli era rimasto, lo aveva donato alla sua barca.
A Portoscuso, dove si stava recando adesso, c’era già arrivato un mese prima, all’inizio di ottobre, con la barca durante le ferie. Era giunto in vista della splendida spiaggia di quella località che era notte, e lì aveva gettato l’ancora. Al levar del sole aveva messo in acqua il canotto gonfiabile e aveva remato fino alla spiaggia. Era deserta, e questo la rendeva ancor più affascinante. Aveva fatto una lunga camminata per sgranchire le gambe, e a un certo punto era passato davanti a una piccola barca di legno. Niente di particolare, una barca come tante, ma ciò che lo aveva fatto fermare era quella cosa appoggiata su una panchetta della barca: una piccola tela sulla quale vi era dipinta una conchiglia sopra dei sassi sulla riva del mare, il quale era raffigurato leggermente mosso dalla brezza e variopinto di riflessi rossi, come fosse al tramontar del sole.
Nelle sue navigazioni, aveva visto molte conchiglie sulle spiagge o nelle immersioni sui fondali marini, ma di conchiglie belle come quella del quadro, mai ne aveva viste.
Ed era dipinta talmente bene, che neppure la migliore fotografia avrebbe potuto immortalarla così. 
Solo dopo vari minuti i suoi occhi erano riusciti a liberarsi dall’incanto di quella visione e avevano perlustrato tutt’intorno. Niente e nessuno, salvo una casa a una trentina di metri dalla spiaggia.
Avrebbe potuto recarsi lì e chiedere se sapessero qualcosa di quella tela. Ma a quell’ora, era quasi certo che chi l’abitava fosse ancora a letto. Però Leonardo non poteva nascondere a sé stesso che quella era una scusa bella e buona, perché per la prima volta in vita sua, stava mettendosi addosso le vesti di ladro. Mai si sarebbe sognato di rubare qualcosa, ma quel dipinto era ben altro che qualcosa.
Prese quindi la tela e a passo svelto tornò al canotto, lo mise in acqua e raggiunse la barca. Poi salpò l’ancora e prese il largo. Mentre manovrava il timone, con un occhio guardava il quadro posato sulla panchetta di fianco a lui. E più lo guardava e meno sentiva il rimorso per aver compiuto quel gesto.
Per il resto della vacanza, fu sempre più attratto dal dipinto. Se lo portava appresso in ogni momento della navigazione, al punto che il grande amore della sua vita, cioè la barca, era passata in secondo piano. E quel dipinto lo aveva talmente stregato, che una notte, nel dormiveglia, dal quadro posato sulla cuccetta di fianco alla sua, gli era parso che dalla conchiglia uscisse l’eco del mare.  

Capitolo terzo
A Lea veniva spesso in sogno sua madre, ma erano sempre sogni criptici, impossibili da decifrare.
Come da bambina le era stato impossibile capire perché era stata battezzata con quel brutto nome, che ogni volta che lo sentiva pronunciare, le veniva da piangere. E urlava che non voleva essere chiamata con quel nome. E allora i suoi genitori per farla contenta presero a chiamarla Lea.
Poi, quando fu grandicella, sua mamma le spiegò il motivo per cui l’avevano battezzata con quel nome. Era stato per una leggenda che sua madre aveva sentito narrare dal nonno. E le aveva raccontato così:
“Nelle più profonde acque del Mar Egeo, dove le sirene danzavano con antichi segreti e intonavano canti melodiosi, viveva una dea dall’animo gentile: Leucotea. Non era nata tra le divinità olimpiche, né il suo trono era scolpito nelle rocce di vette celesti. La sua storia era intrisa di un’antica tragedia, un destino mortale tramutato in divina compassione. Un tempo Leucotea era Ino, una principessa tebana perseguitata dalla follia di Era, sposa di Zeus. Per sfuggire all’ira della dea, Ino si gettò in mare con il figlio Melicerte, ma Poseidone, commosso per quell’immeritata sorte, li trasse in salvo, trasformando Ino nella dea Leucotea, e il figlio Melicerte in Palemone, protettore dei porti. Da quel giorno, Leucotea non dimenticò mai l’angoscia di chi si trovava in balìa delle onde. La sua casa sul fondo del mare era fatta di alghe e conchiglie, e da lì sorvegliava incessantemente i naviganti. E quando si scatenavano le tempeste, trasformando il mare in mostro ruggente, e le navi erano sballottate come fuscelli, i marinai non invocavano solo Poseidone, ma sussurravano anche il nome di Leucotea. E lei rispondeva. La sua presenza non era mai come quella di una divinità autorevole, ma gentile e rassicurante come il raggio di sole dopo la tempesta. Spesso appariva sotto forma di un grande pesce dalle scaglie d’argento, e nuotava a fianco delle barche in difficoltà, guidandole verso approdi sicuri. Quando il mare era in bonaccia, si mutava in un soffio di vento che gonfiava la vela, spingendo la barca verso la riva. Di notte appariva in veste di manta luminosa che indicava la via tra gli scogli affioranti. Ma la più grande prova di misericordia avvenne quando la nave del valoroso Ulisse si trovò preda di una tempesta. Leucotea apparve tra i marosi, e con una mano gli mostrò un velo magico, dicendogli: -Tuffati in mare e legati questo velo intorno al petto-. Ulisse obbedì, e il velo lo sostenne tra le onde furiose e nuotò fin quando raggiunse la terraferma. E poco prima di raggiungere la riva, il naufrago si immerse sul fondo del mare e raccolse la più bella conchiglia, e la lasciò sulla spiaggia come segno di gratitudine a Leucotea”.
A Lea la leggenda era piaciuta, ma neppure il racconto di sua madre l’aveva convinta ad accettare di farsi chiamare con quel nome. Invece agli strani messaggi che le mandava durante il sonno, non riusciva a trovare un senso. E anche quell’ultimo sogno, era buono solo come favola per bambini.
La madre le aveva detto di dipingere una conchiglia e andare di notte a posare il dipinto sulla riva del mare, affinché la conchiglia potesse assorbire la voce del mare e mandarla a Ulisse, che a quel richiamo sarebbe approdato alla spiaggia. E lì avrebbe trovato Lea nelle sembianze di Penelope.
L’unica cosa positiva di quel sogno, era che sua madre le aveva dato l’idea per dipingere qualcosa.
Ma poi, man mano che sulla tela la conchiglia prendeva vita, l’impulso di andare a metterla nella barca sulla riva del mare si faceva sempre più forte. Tanto, cos’aveva da perdere?
Invece aveva perso il dipinto, poiché, anziché Ulisse, era arrivato un ladro. Perché il mattino dopo, quando si era recata alla spiaggia, la tela era sparita. E aveva passato tutto il il resto del mese davanti al cavalletto a dipingere con lo sguardo che spesso attraversava la finestra e finiva sulla spiaggia, deserta come sempre in quella stagione. Fino a quando, verso le quattro di quel pomeriggio di fine ottobre, qualcuno era apparso sulla spiaggia.
La visione di quella figura che si stava avvicinando alla sua barca, aveva fatto sobbalzare Lea.
Poi l’uomo, dopo essersi fermato per qualche istante con lo sguardo rivolto nella sua direzione, si era incamminato verso la casa. Il cuore della donna pareva scoppiarle nel petto.

Capitolo quarto
Quando Leonardo tornò dalla crociera in Sardegna, la prima cosa che fece, fu di recarsi da un suo amico falegname con il dipinto della conchiglia e gli chiese di fare una cornice. L’amico gli rispose di lasciargli la tela, che nel giro di un paio di giorni gliel’avrebbe fatta. Ma con tutta la fiducia che aveva per l’amico, il pensiero di lasciargli la tela gli fece venire i brividi. E tanto lo aveva pregato, che infine il falegname lo aveva assecondato. E una volta scelto il legno, di ciliegio chiaro, nel giro di due ore, Leonardo si accomiatava felice dal falegname col quadro sottobraccio.
Arrivato a casa, aveva passato tutto il pomeriggio a ispezionare le pareti per scegliere quella su cui appendere il quadro. Il posto ideale sarebbe stato di fianco alla finestra del soggiorno, così quando si sedeva sulla poltrona, oltre a vedere il paesaggio marino che gli offriva quella finestra, godeva della visione del dipinto. Ma poi pensò che su quella poltrona ci si sedeva poco o niente. Quando era a casa, il suo posto preferito era il letto. Ci si sdraiava sopra non soltanto per riposare, ma per leggere e per qualche spuntino notturno. Quindi appese il quadro nel mezzo della parete di fronte al letto.
E alla prima notte avvenne ciò che era accaduto quella volta sulla barca. Ma se allora aveva pensato che fosse suggestione, stavolta era certo di avere udito bene. Dal quadro era uscita l’eco del mare.
Leonardo si era alzato dal letto e andato ad accostare un orecchio al dipinto. Ma non udì più nulla.
La stessa cosa avvenne la notte seguente. Era sveglio sul letto con gli orecchi tesi come un cane da guardia, e a un certo momento dalla tela uscì il medesimo suono. Come un lontano respiro del mare.
Era balzato dal letto e si era accostato al quadro, ma non udì altro, se non la voce del silenzio. 
Di giorno, durante il lavoro sul traghetto, la sua mente era sempre su quel quadro misterioso, e le notti la passava con gli orecchi all’erta. Così era arrivato alla fine di ottobre, e lui vi era arrivato sfinito.
Allora decise di liberarsi del quadro. Ma come? Darlo a qualcuno? O distruggerlo? No, non era una cosa giusta. L’unica cosa giusta era di riportarlo dove l’aveva rubato.
Chiese quattro giorni di ferie e due mattine dopo si mise in viaggio col quadro in una sacca di tela.
Il giorno appresso, verso le quattro del pomeriggio era arrivato a Portoscuso. Aveva posteggiato l’auto e aveva camminato lungo la spiaggia fino ad arrivare sul posto. Stava per aprire la sacca per posare il quadro sulla barca, quando si accorse che dalla finestra della casa poco distante, una donna lo osservava. Gli venne l’istinto di scappare, ma poi la testa tornò alla ragione e si avviò verso la casa.

Capitolo quinto
Quella sera Lea aveva preparato la tavola per due, e mentre cenavano non aveva, come al solito, lo sguardo sui quadri della parete di fronte a lei, ma osservava di sottecchi Leonardo.
Quell’uomo poteva avere circa la sua età, una via di mezzo tra i cinquanta e i sessanta. Però non poteva esserne certa, perché le rughe sulla faccia dei marinai, scavate dal sole e dalla salsedine, possono ingannare. Aveva una vaga memoria di suo padre, se n’era andato che lei era piccola, ma le rughe sul volto di Leonardo ricordava di averle viste anche su quello di suo padre.
E ripensava a tutto quello che era accaduto nel pomeriggio, da quando, col cuore in subbuglio, non aveva atteso che l’uomo bussasse alla porta, ma si era precipitata ad aprirla quando lui aveva mosso i primi passi in direzione della casa, e poi gli era andata incontro senza pensare a nulla. E a metà strada tra il mare e la casa, si era trovata a faccia a faccia con l’uomo, che teneva in mano una sacca.
Passarono diversi secondi prima che qualcuno aprisse bocca, e il silenzio sulla spiaggia deserta era rotto solo dalla risacca del mare. Poi, con parole che faticavano a uscire, lui disse che era venuto per riportare una cosa. E quando tirò fuori dalla sacca il quadro, a Lea sembrò di svenire.
Con la testa confusa e il cuore che le martellava nel petto, gli disse che il quadro lo aveva dipinto lei. Ma il motivo per cui lo aveva posato sulla barca se lo tenne per sé. Se gliel’avesse detto, lui l’avrebbe presa per matta. Gli disse invece che lo aveva messo lì ad asciugare al sole, e alla sera si era dimenticata di andare a riprenderlo. Poi le toccò di sentire la vergogna nella voce dell’uomo, che le confessava quel furto. Gli sentì dire come era arrivato lì, della passeggiata all’alba sulla spiaggia, e che quando era arrivato davanti alla barca e aveva visto il dipinto posato sopra, era rimasto talmente colpito dalla sua bellezza, che aveva perso il lume della ragione e l’aveva rubato. Ma il resto, cioè che quando era tornato a casa, di notte udiva uscire dalla conchiglia l’eco del mare, se lo tenne per sé. Se gliel’avesse detto, lei lo avrebbe preso per matto. Le disse invece che il rimorso per quel furto gli aveva tolto il sonno e passava le notti col tormento, e per questo  era tornato a riportare il quadro dove l’aveva preso. Poi le spiegò chi fosse e da dove venisse, del lavoro che faceva, che amava navigare in solitario, così come in solitario viveva, e che erano anni che veniva in ferie con la sua barca in Sardegna, per lui l’isola più bella.
“Non solo per te” commentò Lea, stupendosi di essere passata dal lei al tu così spontaneamente.
Era la prima volta in vita sua che le succedeva di dare del tu a una persona sconosciuta.
Anche lei gli raccontò qualcosa di sé, del lavoro che aveva svolto per tutta la vita e di quello che faceva ora, cioè affittare ai turisti le tre camere libere della sua casa. E delle giornate che passava seduta davanti al cavalletto a dipingere. Dicendo infine: “Anch’io in solitario”.
Il tempo era volato e stava imbrunendo. Lea pensò con vergogna che, da tanto che erano stati presi in tutti i loro discorsi, aveva tenuto Leonardo in piedi in mezzo alla spiaggia senza invitarlo in casa a bere qualcosa. Ma quando lui stava per salutarla dicendole che doveva andare a cercare un albergo per la notte, gli disse: “In questa stagione ho tutte le camere libere, se vuoi fermarti a dormire qui…”.

Capitolo sesto
Stanno finendo di cenare e hanno parlato poco o niente. Ma nel pomeriggio sulla spiaggia si sono già detti molte cose. Molte più di quelle che si dicono due persone che si sono appena conosciute.
Lea alza gli occhi dal piatto e guarda quelli di Leonardo. Sono neri, con le sopracciglia folte e scure come la barba e i capelli, e li tiene leggermente socchiusi. Sa che molti marinai li tengono così per ripararli dalle intemperie, e alla fine diventa il loro sguardo abituale.
Si ricorda di aver visto il volto di Ulisse in qualche disegno di personaggi della mitologia, e le pare che assomigli a quello del suo ospite. E la mente viene invasa dal sogno che ha fatto.
Leonardo alza gli occhi dal piatto e vede quelli di Lea che lo stanno osservando.
Sono passati trent’anni dall’ultima volta che ha guardato negli occhi di una donna.
Quelli di Lea hanno il colore del mare profondo. E pensa che semmai dovesse naufragare, vorrebbe che fosse in quel blu.

                                                                         *   *   *

[Nota dellìAutore] Ho letto qualcosa sui fenomeni paranormali ed extrasensoriali, ciò che dice la scienza tradizionale, cioè che senza prove riproducibili non c’è da credere, e ciò che dice la scienza dell’occulto, che è un insieme di dottrine, pratiche e credenze che non sono dimostrabili attraverso la logica razionale, ma si ritiene che possano essere comprese o persino manipolate tramite particolari tecniche.
Devo confessare che non so quale posizione prendere, però l’argomento mi ha stimolato a scrivere questo racconto, che termina lasciando irrisolto il mistero dell’eco della conchiglia dipinta.
Ma ricorrendo alla scienza dell’occulto, l’arcano potrebbe essere svelato in questa maniera:
L’eco della conchiglia dipinta fa parte di un fenomeno paranormale non percepibile da tutti, e solo in momenti di quiete notturna, quando l’aria è densa di sogni e il confine tra mondo fisico e mondo etereo si assottiglia. In quel momento il dipinto della conchiglia si anima, non con un movimento visibile, ma con un’eco udibile.
Chi è dotato di capacità paranormali  -che in parapsicologia significa: relativo ai fenomeni psichici o fisici non spiegabili razionalmente e si trova in prossimità del quadro con la mente sgombra e il cuore aperto, può percepire un lieve, quasi impercettibile sussurro.
All’inizio potrebbe sembrare solo un soffio di vento, ma con l’attenzione, il suono si intensifica leggermente, rivelando l’eco lontana delle onde che si frangono, o il sussurro del mare tranquillo.
Non è il suono amplificato di una conchiglia fisica, ma una vera e propria risonanza spirituale, un’eco della memoria acquatica che l’anima del mare ha impresso nel quadro.
A volte, se l’ascoltatore è particolarmente sensibile, il sussurro può portare con sé frammenti di antiche storie marine, come parole incomprensibili portate dalla marea o flebili melodie di sirene.
E’ la conchiglia dipinta che funge da portale eterico, permettendo alle reminescenze acquatiche di filtrare nel nostro mondo.
Il fenomeno è delicato e fugace, svanendo con qualsiasi rumore, anche un piccolo movimento di chi ha percepito il suono, come se l’anima del mare si ritirasse portando con sé il suo segreto marino.


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