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La compagna del Rossini

La compagna del Rossini

di Giulio Ghirelli

Nel 1983 abitavo in un piccolo paese a una decina di chilometri da Magenta. Uno di quei paesi dove dopo sei giorni tu non sai ancora niente dei suoi abitanti, mentre loro sanno già tutto di te. O quasi…
E il fatto che io girassi sempre con la fotocamera a tracolla, forse insospettiva la gente del paese, che magari pensava che fossi un agente segreto mandato da chissà chi per spiarli in certe loro faccende.
Poi, dopo qualche tempo, col mio carattere socievole, riuscii a instaurare qualche rapporto amichevole.
Uno di questi era Peppino, un giovanotto mio vicino di casa, che abitava con i genitori al piano sopra il mio, in una vecchia villa con un giardino piantumato con pini di alto fusto. La costruzione era stata edificata alla fine dell’800 per conto di una sconosciuta attrice di teatro. Probabilmente l’unica persona di cui i paesani sapevano poco o niente, poiché l’attrice arrivava alla villa in auto col suo autista, se ne stava rintanata nella sua dimora per qualche giorno e poi ripartiva.
Quando negli anni ’50 l’attrice era passata a miglior vita, la villa era stata comprata da un notabile del luogo, il quale, non avendone bisogno per sé, l’aveva divisa in due appartamenti e affittata.
Un giorno, mentre passeggiavo in paese con Peppino, incrociammo una persona dimessa nel vestire. Poteva avere una settantina d’anni, e mi colpì il suo grosso naso che spiccava in una faccia burbera. Quando fummo a faccia a faccia, come mio uso anche con chi non conoscevo, gli diedi il buongiorno, ma lui abbassò lo sguardo verso terra e passò oltre.
Peppino mi spiegò: “E’ il Rossini, un uomo scostante col carattere da orso, e non rivolge la parola ad alcuno. Vive da solo in una vecchia casa col cortile interno, dove non fa entrare nessuno. Gira con un carretto a raccogliere rottami nelle discariche”.
Era passato qualche giorno quando incrociai di nuovo il Rossini, e quando fui a un passo da lui, gli dissi: “Buongiorno signor Rossini” A quel saluto, lui si fermò e mi fissò con aria sorpresa -forse perché l’avevo chiamato signor?-. Poi guardò la fotocamera che avevo a tracolla e mi domandò: “Sei un fotografo?”. “A tempo perso” gli risposi. “Ci verresti a casa mia a farmi una fotografia con la mia compagna? Non gratis, in cambio ti do qualcosa. Ma se vieni, non devi dir niente a nessuno”.
Ero stupito, perché Peppino aveva detto che il Rossini non faceva entrare nessuno nella sua casa. Ma ciò che più mi stupiva, era il fatto che non si sapeva che avesse una compagna. Che cosa mi aspettava?
Gli risposi di sì, e allora lui mi fece cenno di seguirlo. Percorremmo una cinquantina di metri, poi entrammo in un vicolo fino ad arrivare a un vecchio portone. Lui lo aprì, entrammo, e mi trovai nella tana dell’orso. C’erano ammassi di rottami di ogni genere, da cui proveniva un acre odor di ruggine.
Poi aprì una porta ed entrammo in una piccola cucina con un tavolo quadrato, su cui c’erano le cose più strane, persino un piccolo arco per bambini con la freccia a ventosa. E una colomba bianca, vera.
“E’ la mia compagna” disse guardandola con affetto. Poi si avvicinò al tavolo e si sedette sull’unica sedia che c’era, accarezzò un attimo la colomba e infine mi guardò accennando un sorriso un po’ sdentato, in attesa che scattassi la foto. La scattai velocemente, per non perdere l’espressione che aveva il Rossini. Mi era già capitato di dilungarmi nel fare una foto, e avevo perso l’attimo giusto.
“Quando viene pronta?” mi domandò poi. “Stasera la stampo e domani mattina potrei portargliela”.
“Non ho il campanello fuori dal portone. Te lo lascio socchiuso e ti aspetto qui”.
La foto era venuta sfocata. Per cogliere l’attimo, non avevo regolato bene la messa a fuoco.
Il mattino dopo portai la fotografia al Rossini, col timore che non gli sarebbe piaciuta. In quel caso gliene avrei fatte delle altre, ma con il grande dubbio di riuscire a cogliergli la medesima espressione.
Invece quando si vide ritratto con la sua bianca compagna, gli si illuminarono gli occhi, ed ebbi l’impressione che si fosse commosso.
Poi mi chiese come poteva sdebitarsi, e perlustrò con gli occhi i vari oggetti che aveva sul tavolo e sugli scaffali della cucina. Volevo rispondergli che il suo sorriso era la migliore ricompensa. Ma pensai che lui ci tenesse a ripagarmi con qualcosa. Allora mossi un passo fino a uno scaffale, dove misi gli occhi su una maschera antigas color verde militare. Era in ottimo stato, come nuova.
Pensai che fosse un oggetto pregiato per un collezionista di anticaglie militari. Però, anche se io non facevo collezione di quelle cose, mi piaceva. Ma chiedergli quella maschera mi sembrava troppo.
“E’ della prima guerra mondiale, se ti piace prendila. E prendi anche qualcos’altro, quello che vuoi”.
Presi solo la maschera, che conservo ancora con cura come dono ricevuto da un’anima così bella.

 

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