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La collina dei gelsi/Capitolo 5° – Il giuramento di Levante

La collina dei gelsi/Capitolo 5° – Il giuramento di Levante

di Giulio Ghirelli

L’arrivo di Learco tolse i tre da quella situazione imbarazzante, e dopo aver fatto colazione insieme, rallegrati dai divertenti discorsi di Learco, si avviarono alla cantina. Il locale era saturo dell’odore di uva, che attendeva di diventare mosto. “A piedi nudi? Senza stivali?” si meravigliò Learco.
“Con gli stivali si schiacciano i semi, che hanno un gusto che altera il sapore del vino” disse Tosca.
Levante sapeva che era vero, e anche lui e suo padre la pigiavano a piedi nudi.
Le donne si tirarono su la gonna fin sopra le ginocchia, e uguale fecero gli uomini per i calzoni, e poi entrarono nel palmento.
Se ci fosse stata la possibilità di fermare il tempo in un preciso momento, Levante l’avrebbe fermato ora. E pensò che solo chi aveva vissuto quell’esperienza, poteva capire la sensazione che si prova.
Una sensazione inenarrabile, sentire i grappoli d’uva che sotto i piedi si trasformano in un liquido denso, che ha un odore che arriva a inebriare la mente.
I pensieri svaniscono, lasciando spazio all’allegria, a tal punto di aver voglia di cantare.
Tosca lo fece per prima, a cui seguì la voce di Drusilla. Canti allegri, di quelli di feste campagnole sull’aia delle cascine. Era un quadro allegorico, quello di Tosca e Drusilla che danzavano tenendosi sollevate le gonne con le mani e cantando gaiamente. E intanto si chinavano a prendere i grappoli e li addentavano. Nella rappresentazione di quella scena, mancava solo l’immagine di Bacco.
Non si femarono neppure per il pasto di mezzogiorno. Bastava e avanzava tutta quell’uva.
Alla sera, finita la pigiatura, erano tutti e quattro storditi. Di quel nettare e di felicità.
Per cena, solo una minestra di riso e piselli, accompagnata da infiniti sbadigli.
Poi Learco disse che non stava in piedi dal sonno, e che era meglio che partisse svelto verso casa.
“Non mi sento tranquilla a lasciarti andar via in moto. Se vai fuori strada, mi sentirei in colpa. Ti preparo una camera e ti fermi qui a dormire” disse Tosca con tono che non ammetteva repliche.
Ma a Learco, mai sarebbe passato per la testa di replicare, e i suoi occhi sprizzavano gioia. Non gli era mai capitato di dormire in quella casa. E forse furono i fumi del nettare, che gli fecero vincere per la prima volta la timidezza, al punto da fare una battutina: “Dici che è arrivato il momento?…”.
E Tosca, tra il serio e il faceto: “Vedi tu… la porta della mia stanza non la chiudo mai a chiave”.
Poi, finito di preparare la stanza per il nuovo ospite, si diedero la buonanotte. E nel far ciò, Learco, facendo l’occhiolino a Levante, gli disse a bassa voce: “Rimani qui fin che puoi, mi porti buono”.
Certo non immaginava che l’indomani, lui e le cugine, avrebbero ricevuto da Levante la notizia.
Quella notte non riuscì a dormire per il pensiero di dover comunicare la sua partenza. Mille dubbi lo assillavano. Quello che era successo quella mattina con Drusilla gli aveva infiammato il cuore, non aveva più dubbi sui suoi sentimenti e su quelli di lei. Ma come poteva restare ancora lì a macerarsi l’anima per un sentimento che non poteva permettersi? Perché quella, era una strada senza sbocco.
In quella notte tribolata riuscì a prender sonno che mancava poco al sorgere del sole, e si svegliò che erano quasi le dieci. Quando scese, gli altri tre erano a ciacolare allegramente in cucina, in attesa che lui arrivasse. “Buongiorno!” gli dissero in coro. Poi Drusilla gli andò vicino e gli disse: “Ben svegliato!”. Si sentì pungere il cuore, nel vedere gli occhi felici della donna. E allora decise che era meglio finirla lì, e disse: “Penso che non abbiate più bisogno del mio aiuto, e ho deciso di andare a Piombino a vedere come stanno le cose alla ferriera”. Nella cucina si fece un silenzio tombale.
Poi Tosca disse: “Sono veramente dispiaciuta, ma se hai deciso di andare… però credo che se ti trasferissi qui, potresti cambiare in meglio la tua vita. Magari trovarti un alloggio in paese, e da noi c’è sempre qualcosa da fare. E poi potresti riflettere sulla proposta che ti ha fatto Learco. Saremmo proprio una bella squadra noi quattro. Pensaci intanto che sei a Piombino, e quando vuoi tornare, la nostra porta è sempre aperta”. Levante rispose: “Tornerò”.
“La tua bocca dice così, ma i tuoi occhi dicono altro” disse Drusilla con la voce rotta. E poi abbandonò la cucina.
Si era fatto nuovamente il silenzio, e a Levante pareva di soffocare in quella stanza. Avrebbe voluto partire subito, ma non voleva far vedere di aver l’ansia di andare via. Aveva detto che partiva nel pomeriggio. Allora disse: “Vado a fare quattro passi, ho bisogno di respirare un po’ d’aria fresca”.
“Torni per pranzo?” chiese Tosca . “Non so” rispose. Poi uscì dal podere e scese verso il paese.
Era una giornata limpida, con una leggera brezza che apriva i polmoni. Ma ad ogni passo che lo allontanava dal podere, gli sembrava che la brezza entrasse nei polmoni pesante come i fumi della ferriera. Girovagò per il paese, e poi ne uscì dalla parte opposta. Camminò per un tempo di cui aveva perso la cognizione. Sentì il campanile della chiesa battere tre rintocchi. Erano quasi quattro ore che camminava con la mente persa nel nulla. Tornò verso il paese, e quando arrivò davanti alla chiesa entrò. Era vuota, c’era solo don Ersilio vicino all’altare. “Levante!” lo accolse il prete. Andò
verso di lui e quando gli fu vicino gli disse: “Sono venuto a salutarla, torno a Piombino”. “Di già? -disse il prete con aria sorpresa- hai già finito dalle cugine Bardi?”. “Quello che serviva fare, l’ho fatto” rispose lui. Ma don Ersilio aveva radiografato troppe anime, per non comprendere che quella di Levante era afflitta. Gli disse: “Dai, vieni di là, che festeggiamo la tua partenza con un bicchiere”.
Lo condusse in sacrestia, e una volta seduti al tavolino e bevuto un sorso di vino, don Ersilio lo guardò fisso negli occhi e gli disse: “Levante, ti conosco abbastanza bene per non capire che c’è qualcosa che ti angustia. Già una volta ti sei confidato con me, cosa che non hai mai fatto con nessuno. E per questo mi sento in dovere di chiederti che cosa c’è che ti affligge”.
E Levante glielo rivelò. Ci fu silenzio per un minuto, poi don Ersilio disse: “Tu hai fatto un giuramento davanti a Dio perché è stata una maniera per proteggerti dal dolore immediato. Ma ora il Signore ha giudicato che hai pagato abbastanza e che devi tornare a una nuova vita, dove dare e ricevere amore e felicità, e ti ha fatto incontrare Drusilla. L’amore e la felicità sono doni di Dio, e non puoi rifiutarli e vivere spendendo l’esistenza nel dolore. Avere una nuova compagna, non vuol dire perdere il ricordo di quella che hai perso, o mancare di rispetto alla sua memoria. Puoi onorarla vivendo una vita piena e felice. E se lei potesse parlarti dal cielo, per l’amore che ti ha voluto, ti direbbe: -Vivi e ama! Fallo anche per me!-. E se deciderai di tornare al podere e di offrirti a Drusilla come suo compagno di vita, raccontale tutto. Spiegale ciò che ti è successo, dille del grande amore che c’è stato tra te e Serena, per il quale hai fatto il giuramento. E dille che nel nome di quel Dio che vuole che tu torni a essere felice, io ti ho sciolto dal giuramento”. Poi don Ersilio tracciò tra loro due il segno della croce.
Levante aveva ascoltato tutto con la testa sempre chinata, e quando la rialzò, don Ersilio vide che il volto dell’uomo era rigato di lacrime. Lui guardò un momento negli occhi il prete, poi mormorò un grazie, si alzò e uscì dalla stanza.
Don Ersilio finì il suo bicchiere di vino, si alzò e si diresse all’uscita della chiesa. Vide Levante che prendeva la strada verso la collina. Sopra di essa si era formato un nuvolone scuro.
-Quel figliolo non arriva asciutto al podere- pensò il prete. Poi tirò fuori dalla tasca un mezzo sigaro toscano, lo mise in bocca e lo accese.
Mancava mezzo chilometro per arrivare al podere, quando si scatenò il diluvio. Levante non affrettò il passo. Quell’acqua se la sentì piovere addosso come una benedizione dal cielo.
Arrivò al podere bagnato fradicio. Si fermò davanti alla porta di casa, indugiando ad entrare.
Tosca lo vide dalla finestra della cucina e corse ad aprire la porta. “Levante! -esclamò- Sono stata in pensiero! Dov’eri finito? Stavo per venire in paese a cercarti! Vieni dentro che sei tutto bagnato!”.
Levante entrò di qualche passo, e si fermò lì. “Ho bisogno di parlare con Drusilla” disse.
“E’ di sopra nella sua camera. E’ salita quando tu sei andato via e non è più scesa. Learco è rimasto a mangiare qualcosa con me e poi è tornato a casa. E’ molto dispiaciuto per la situazione… Vado su a chiamare Drusilla”. Stava per salire, ma poi ci ripensò: “Vai su tu, lo sai qual è la sua camera? E’ l’ultima in fondo al corridoio”.
Lui sale le scale e arriva davanti alla porta di Drusilla. Attende qualche attimo e poi bussa.
“Entra Levante”. La voce di Drusilla gli arriva quieta attraverso la porta. Lui la apre e la vede seduta di spalle davanti alla finestra. Fa qualche passo verso di lei e le dice: “Come sapevi che ero io?”.
“Ti ho visto dalla finestra” risponde senza voltarsi. E’ davanti al cavalletto, su cui c’è una tela.
“Hai voglia di ascoltarmi?” le chiede. Lei gira la testa verso di lui e vede i vestiti inzuppati d’acqua.
“Vai in bagno a cambiarti. Ti prenderai un malanno”. “L’acqua ammorbidisce la mia scorza dura”.
“Vuoi sederti sul letto? Qui non ho altre sedie. Se vuoi andare a prendere quella nella tua stanza…”.
Lui si siede sul bordo del letto e lei gira di nuovo la testa sul quadro. Sta dipingendo la scena del disegno della vendemmia. In basso a destra ha aggiunto una figura femminile.
Poi le parole di Levante escono come una liberazione dell’anima: “Avevo ventiquattro anni e avevo già perso i genitori. Mia madre era morta quando io ero piccolo. Mi avevano lasciato la casa e le vigne, e i primi tempi da solo è stata dura, anche se il mestiere l’avevo imparato bene da mio padre. Un giorno arrivò una ragazza a piedi. In quella cala dove vivevo, ci si arriva solo con un sentiero. Mi chiese un bicchiere d’acqua, era arrivata fin lì senza portarsi da bere. Mi disse che era di Livorno, e che era venuta per tre giorni in vacanza all’Elba insieme con una sua amica a cui non piaceva camminare. Il mattino dopo sarebbero ripartite per Livorno. Oltre all’acqua, le offersi un grappolo d’uva. Mi disse che era il suo frutto preferito. Allora le dissi che se voleva vedere le vigne della Solana, l’accompagnavo, tanto erano poco distanti dal sentiero che doveva fare per tornare in paese. Lei disse di sì, e salimmo insieme fino alle vigne. E giunti lì, tra i vigneti che si affacciavano alti sul mare, lei si entusiasmò. Disse che in quel luogo le sembrava di essere nel paradiso terrestre. Rimanemmo un po’ a guardare in silenzio il panorama e poi lei disse che doveva andare. Ci salutammo, e quando lei aveva già fatto una ventina di metri, le gridai: -Aspetta!-. Staccai un altro grappolo e corsi a portarglielo. -Così ti ricorderai del paradiso terrestre- dissi. Lei rispose: -Non lo dimenticherò di certo-. Mi aveva appena voltato le spalle, quando si girò e disse: -Come ti chiami?-. -Levante- risposi. -Come il vento innamorato della sirena- disse lei. -E’ forse una leggenda di mare? Amo quelle leggende- le dissi. -Te la racconterei, ma devo scappare, la mia amica sarà già in pensiero. Addio!- e fece per avviarsi. Ma poi si voltò e mi disse: -Dieci minuti di più cambia poco, te la racconto-. -Mi fai felice- le dissi. Ma la mia felicità era per ben altro che non per il racconto”.
A quel punto Levante si chiede se a Drusilla può far piacere ascoltare quel racconto. Glielo chiede, e lei, sempre girata di spalle, risponde di sì. Allora lui si mette a raccontare, senza perdere una parola.
Ha tutto stampato nella mente, come è impresso nel cuore ogni momento vissuto con quella ragazza.
“C’era una volta un vento misterioso chiamato Levante. Era un vento vigoroso, nato dalle profondità orientali del mare e destinato a solcare le onde e a gonfiare le vele dei marinai coraggiosi che sfidavano l’ignoto in cerca di nuove terre. Era un vento amato dai naviganti. Quando lui soffiava, le vele si tendevano, i legni scricchiolavano e i velieri scivolavano veloci sull’acqua. I marinai cantavano inni in suo onore, ringraziando per il soffio potente che li spingeva oltre i confini conosciuti, verso isole inesplorate. Un giorno, mentre Levante spingeva un veliero attraverso un tratto di mare azzurro e profondo, il suo sguardo cadde su una creatura che mai aveva visto prima. Nuotava con grazia tra le onde, con i capelli lunghi e fluenti come alghe dorate e una coda di squame luccicanti. Era Leucosia, una delle tre sirene incantatrici che abitavano quei mari. Levante, che aveva sempre vissuto libero e indomito, fu improvvisamente catturato dalla bellezza e dal canto di Leucosia. La sua voce era deliziosa come una melodiosa musica, e parlava di amori perduti e di sogni sommersi. Levante, senza volerlo, rallentò il suo soffio e si avvicinò alla sirena. Leucosia, sorpresa dal suo approccio, gli chiese: -Chi sei tu, che osi avvicinarti a me senza timore? Non temi il mio canto, che può portare alla rovina anche il più valoroso dei marinai?-. Lui rispose con voce gentile: -Io sono Levante, il vento dell’Est, e non temo nulla. Sono incantato dalla tua voce e dalla tua bellezza. Mai prima d’ora ero stato affascinato così-. Così iniziò una storia d’amore tra il vento e la sirena. Levante trascorreva sempre più tempo vicino a Leucosia, dimenticando il suo dovere di soffiare sulle vele dei vascelli. I marinai, senza il suo soffio costante, si trovavano alla deriva, persi e disperati. Poseidone, il dio del mare, quando si accorse dell’ascendente di Leucosia su Levante, decise di intervenire. Apparve alla sirena e le disse: -Sirena, tu che incanti i cuori degli uomini, hai catturato anche l’anima del vento. Ma i venti devono restare liberi. Lascia andare Levante, affinché possa tornare a fare ciò per cui è nato-. Leucosia, col cuore spezzato, capì che il loro amore non poteva durare. Con un ultimo canto struggente, si inabissò nelle profondità marine, lasciando Levante solo con il suo dolore. Da quel giorno, Levante tornò a soffiare con la forza di un tempo, ma con la malinconia nel suo sussurro. I marinai sentirono il suo cambiamento, e pur beneficiando ancora del suo soffio, potevano avvertire la tristezza del vento che aveva conosciuto l’amore e l’aveva perduto. E così, ogni volta che Levante soffia forte, spingendo i velieri verso nuove avventure, si dice che lo faccia con la speranza di sentire ancora una volta il canto di Leucosia, che gli aveva rubato il cuore”.
A quel punto Levante tace per qualche attimo, con la speranza che Drusilla si manifesti in qualche modo. Ma lei rimane immobile e silenziosa con lo sguardo fisso sul quadro.
“Quando la ragazza fini di raccontarmi la leggenda, si avvicinò a me, mi sfiorò le labbra con le sue, poi si girò e si avviò lungo il sentiero. Io ero sbalordito, pensai di avere sognato e gridai: -Ma tu non sei reale, sei solamente un sogno!-. Lei si girò e disse: -Sono Leucosia-. Poi sparì dalla mia vista. Per il resto del pomeriggio rimasi smarrito in mezzo alla vigna, con la mente che non pensava ad altro che a quella fantastica creatura. Che riapparve il giorno dopo, mentre ero nella vigna a legare i tralci delle viti. Non la sentii arrivare, e non so quale sensazione mi indusse a girarmi, e quando lo feci, lei era dietro di me. Il mio cuore batteva come un maglio e mi sentivo mancare il fiato. Poi riuscii a dire: -Allora non ti ho sognata… ma non dovevi partire?-. Lei disse: -Se vuoi, rimango-. Sarebbe troppo lungo raccontare tutto il resto, ma Serena, così si chiamava, venne a vivere con me. Tra le vigne si muoveva come una farfalla felice, proprio come te, Drusilla, e le nostre vite parevano mischiate da un destino che più benigno di così, non poteva essere. Con lei uscivo di notte con la barca a mettere le reti, e sembrava che Serena fosse nata su una barca, perché si muoveva con un’agilità sorprendente. Quando andavamo in barca a fare provviste in paese, lei voleva sempre che mi fermassi vicino allo Scoglio dei gabbiani, dove c’è un fondale stupendo, e si tuffava in acqua, e riusciva a restare sott’acqua molto tempo, al punto che una volta, non vedendola risalire, stavo per tuffarmi in suo soccorso, ma poi vidi i suoi lunghi capelli dorati affiorare dall’acqua. -Tu sei Leucosia! Soltanto le sirene riescono a stare sott’acqua così a lungo!-. E spesso mi veniva spontaneo chiamarla col nome della sirena. Poi una sera, con il mare liscio come l’olio, stavamo mettendo in acqua la barca, quando lei si fermò a guardare l’orizzonte sul mare e poi disse: -Sta arrivando una burrasca, restiamo a terra-. Io guardai il cielo, era senza nubi e non aveva il colore di quando porta tempesta. E io ero nato lì, sapevo come si annunciano le burrasche. Le dissi: -Non credo proprio, non so cosa vedono i tuoi occhi- e poi mi misi nuovamente a spingere la barca in acqua. Serena replicò: -Non andiamo-. Io mi stavo spazientendo per quella sua fissazione, e le dissi: -Ormai abbiamo la barca in mare, se non vuoi venire, resta a terra, vado io-. Lei non disse altro, salì sulla barca e partimmo. Avevamo finito di posare le reti e stavamo rientrando, quando all’improvviso il cielo diventò color catrame e il mare prese ad agitarsi, e subito dopo si alzarono delle onde che non avevo mai visto. Serena non dava segni di aver paura, anzi, mi esortava a non farmi prendere dal panico e mi diceva che io ero un bravo marinaio e sarei riuscito a raggiungere terra. Ma da quella burrasca non so quale marinaio se la sarebbe cavata. Vedevamo avvicinarsi il faro di Patresi, e mancava meno di mezzo miglio a raggiungere la costa. Le onde sollevavano in aria la barca come fosse un fuscello, e io non riuscivo più a tenere il timone nella direzione giusta. Serena si era messa al mio fianco e anche lei teneva le mani sul timone. Riuscimmo a reggere la barca fino in prossimità di una piccola cala. Serena gridò: “Ce l’abbiamo fatta! Bravo Levante! Sei il migliore dei marinai!”. Ma aveva appena finito di parlare, quando un enorme cavallone investì la barca e la fece rovesciare. Quell’onda catapultò la barca vicino alla riva, e con poche bracciate l’avremmo raggiunta. Le onde mi impedivano di vedere dove fosse Serena, ma ero certo che avrebbe raggiunto la spiaggia prima di me, perché sapeva nuotare meglio di una sirena. Ma quando raggiunsi la spiaggia, lei non c’era. Era buio pesto e si vedevano solo le bianche schiume dei cavalloni sollevarsi sopra il mare. Mi misi a urlare: “Serena! Serena!”. Ma rispondeva solo il fragore delle onde che sbattevano contro gli scogli. Con quel frastuono era impossibile che potesse sentirmi, e neppure io avrei potuto udire la sua voce. Avrei voluto gettarmi in mare, pur sapendo che non sarebbe servito a niente, se non annegare anch’io. E in quel momento era quello che volevo: disperdermi in mare con lei. Ma mi è mancato il coraggio. Serena non venne mai trovata. Mi sembrò di impazzire, un dolore inenarrabile. Com’è insanabile la colpa per essere responsabile della sua morte, non avendo dato ascolto al suo presagio. E per mitigare questa colpa, feci giuramento di non avere più alcuna donna per il resto della vita. Riuscii a resistere ancora per qualche tempo alla Cala, ma quel posto mi pesava come un macigno. Allora trovai da vendere il podere, attraversai il mare e andai a fare il primo lavoro che mi capitò, l’operaio alla ferriera di Piombino. Ma mai a nessuno mi riuscì di raccontare la mia vicenda, mi pesava troppo sulla coscienza. Poi conobbi don Ersilio quando da partigiano arrivai qua. Qualche notte la passai rifugiato nella sua chiesa, e in una di quelle notti trovai la forza di raccontargli tutto. Poi il destino ha voluto che ti incontrassi, ed è nato l’amore, fulmineo come un lampo che squarcia il cielo. E con quello, la sofferenza di non poter stare con te a causa del giuramento. Se oggi non fossi entrato in chiesa e non avessi parlato con don Ersilio, ora non sarei qui”.
E Levante le racconta quello che ha detto il prete, e che l’ha sciolto dal giuramento. Neppure dopo avergli detto questo, Drusilla ha detto una parola, né gli ha rivolto uno sguardo. E’ rimasta immobile come una statua a fissare la tela, con il pennello tra le dita, che è fermo sempre sullo stesso punto del dipinto. La stanza è avvolta nella penombra, e dopo le parole di Levante, regna un silenzio che è pesante come il piombo. Gli basterebbe che lei volgesse lo sguardo verso di lui. Ma attende invano.
Il tempo sembra volersi fermare così all’infinito.
Vorrebbe alzarsi e andare a prenderla per mano, ma ha il tremore nelle gambe.
I vestiti bagnati se li sente addosso come un gelido sudario. Il tempo scorre colmo di vuoto.
Poi Drusilla posa il pennello sul cavalletto, si alza dalla sedia, si avvicina a passo lento al letto e si siede di fianco a Levante. Dopo un momento gli prende una mano.
Nessuno dei due fa un fiato, e stanno entrambi con gli occhi fissi sul quadro della vendemmia.
Levante si chiede quanto tempo ci metterà Drusilla a finirlo. A giudicare dai quadri che sono appesi alle pareti della stanza, dipinti con un tale realismo che sembrano fotografie, le ci vorranno mesi.
Con tutti quei grappoli d’uva e l’infinità di foglie da dipingere… E poi dove lo metterà? Il posto ideale sarebbe la cantina delle botti, in tema con la scena della vendemmia. Ma è un locale umido, e il quadro si ammuffirebbe. Magari potrebbe appenderlo nella sala del pianoforte. Sarebbe magnifico ascoltare qualche musica in tema col quadro. Lui non è un intenditore di musica, però una volta ha ascoltato Le quattro stagioni di Vivaldi, e il terzo movimento, quello dell’Autunno, pensa che se suonato con davanti la visione del dipinto della vendemmia, sarebbe gioia per gli occhi e gli orecchi.
Drusilla sta pensando che le ci vorrà un po’ di tempo per finire quel quadro. Vuole che i grappoli d’uva siano talmente reali, da far venire la tentazione di staccarli dalla tela. E poi dove lo metterà? Se la cantina delle botti non fosse così umida, sarebbe il posto giusto. Lei è un po’ restìa a esibire i suoi quadri, le piace tenerli tutti nella sua camera, ma quel quadro è molto grande, 80×60 centimetri, e nelle pareti della stanza non c’è abbastanza spazio per quella tela. Magari potrebbe appenderlo nella sala del pianoforte, dove lo vedrebbero solo loro. E pensa che Tosca potrebbe essere contenta, quando, tutti e quattro riuniti per i concertini, guarderanno quel quadro, che è la raffigurazione della più bella vendemmia della sua vita. Quando avrà finito di dipingerlo, glielo chiederà.

* * *
Sono quasi le nove, e Tosca crede che nessuno arriverà a cena.
Pensa di cucinare una minestra. Non sa cosa combinerà, probabilmente brucerà minestra e pentola.
E poi non è che abbia molto appetito. Allora si versa un bicchiere di vino e si dirige al pianoforte.
Suonerà quel notturno di Chopin che piace tanto a Drusilla. E sa che quelle note saliranno al piano di sopra e arriveranno fino in fondo al corridoio.
Certamente non arriveranno fino agli orecchi di Learco. Gli suonerà quella musica la prima sera che lui salirà al podere. E poi gliene suonerà un’altra senza note. Crede che sia giunto il tempo.


Questo romanzo è dedicato a Tosca e Drusilla, mie Muse

 

La collina dei gelsi/Capitolo 1° – Il segreto di Drusilla

La collina dei gelsi/Capitolo 2° – Una nuova vita

La collina dei gelsi/Capitolo 3° – La proposta di Learco

La collina dei gelsi/Capitolo 4° – La vendemmia

 

 

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