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La collina dei gelsi/Capitolo 4° – La vendemmia

La collina dei gelsi/Capitolo 4° – La vendemmia

di Giulio Ghirelli

Il mattino dopo era già sveglio prima del sorgere del sole, però aveva dormito profondamente, come se l’abbraccio della sera prima gli avesse rasserenato i pensieri. Si alzò, andò in bagno cercando di non fare rumore e si diede una sciacquata veloce sul viso. Radersi nuovamente non era il caso. Poi tornò in camera, si mise la tuta da lavoro, uscì e scese le scale. Si recò in cucina e fece bollire una tazza d’acqua, poi vi aggiunse un cucchiaino di caffè d’orzo macinato. Non provò alcun imbarazzo nel far ciò, come se invece che ospite, fosse parte della famiglia. Poi uscì da casa con la tazza del caffè fumante e andò a sedersi sotto la pergola. Il sole stava apparendo sulla collina e tingeva di rosa il cielo. L’aria settembrina gli entrava nei polmoni come un balsamo. Vedeva la valle immersa nella sottile nebbiolina che si forma al mattino, quando il sole inizia a riscaldare. E regnava il silenzio.
Si sentiva emozionato in quello scenario, e non si accorse del passar del tempo. O forse desiderava che il tempo non passasse.
“Buongiorno!”. Era la voce allegra di Tosca. Poi, vedendo la tazza del caffè sul tavolo: “Vedo che hai preso dimestichezza con la cucina! Così magari ti fai assumere da Drusilla come aiuto cuoco!”.
Lo faceva star bene il rapporto con quella donna, lo metteva a suo agio, lo trattava come se fosse un vecchio amico. Con Drusilla non era così, perché c’erano di mezzo certi sentimenti contrastanti.
“Sta scendendo anche Drusilla. Se vuoi farla contenta, quando entri chiedile di far colazione con la sua marmellata di gelsi” gli disse a bassa voce. In quel momento udirono dei passi calpestare il ghiaietto dello stradello che portava al podere, e poco dopo apparve un uomo piuttosto anziano. Aveva in mano un paio di cesoie da potatura. “Buongiorno Tazio! Non le dimentichi mai le cesoie! Non ti fidi proprio delle nostre!” lo accolse Tosca. Tazio si avvicinò a loro e ricambiò il saluto.
Levante vide che era di corporatura massiccia, coi capelli bianchi e la schiena un po’ incurvata. Gli venne in mente suo padre, e pensò che anche Tazio doveva aver passato una vita piegato sui campi.
“Lui è Levante, e oggi ci darà una mano -disse Tosca- e lui è Tazio, la nostra colonna portante nei lavori della vigna e degli ulivi. E’ una vita che lavora al podere, da quando io non ero ancora nata”.
“Una colonna un po’ storta” disse con uno schietto sorriso Tazio. A Levante piacque subito quel vecchio, aveva il viso segnato dalle rughe e il colorito bruno dei contadini vissuti sotto il sole.
In quel momento si sentì la voce di Drusilla che si avvicinava a loro. “Buongiorno Tazio! Non tardi di un minuto! E mai che si riesca a venirti a prendere! Vuoi proprio fartela sempre questa salita!”.
“Fa bene alle gambe, signorina Drusilla”. “Ci ha viste nascere e non siamo mai riuscite a farci dare del tu!” disse Drusilla rivolta a Levante, posando in modo affettuoso una mano sulla spalla di Tazio.
Ma Levante non si meravigliò di quella cosa. Accadeva spesso che i contadini dessero del lei a tutta la famiglia dei loro padroni, anche ai bambini. Era un retaggio dei tempi più remoti.
“Entriamo a far colazione” disse Tosca. E mentre stavano avviandosi, udirono lo scoppiettare della motocicletta di Learco. Appena spense il motore davanti a casa, Tosca esclamò: “Che sorpresa a quest’ora del mattino!”. “Sono venuto a offrirmi come aiutante, se mi ritenete in grado” rispose lui.
“Ma che novità è questa! Non sapevo che fossi capace di usare le cesoie, ma solo di venderle! Da quando ci conosciamo, è la prima volta che vieni a piegare la schiena nelle vigne!” esclamò Tosca.
“Non è mai troppo tardi. E comunque non sottovalutarmi, ti potrei stupire” rispose lui ridendo.
Poi entrarono tutti in casa e Drusilla andò in cucina. E quando fu tutto pronto, arrivò in sala con la colazione. Levante non si meravigliò che ci fosse anche salame, formaggio e la bottiglia del vino.
Perché Tazio, al pari di suo padre, non era uomo da caffellatte, burro e marmellata.
E pure lui avrebbe fatto colazione alla maniera di Tazio. Ma voleva esaudire la richiesta di Tosca, quella di far contenta sua cugina. E anche se la marmellata non gli piaceva per niente, specialmente quella di gelsi, che era dolce da stomacare, fece buon viso e ne spalmò una cucchiaiata sulla fetta di pane abbrustolito.
Quell’allegra combriccola pareva a un pranzo di nozze, perché se la presero talmente comoda, che se non fosse stato Tazio, che alzandosi disse: “Io mi porto avanti”, chissà fin quando rimanevano lì.
Fu Tosca a determinare le mansioni dei lavoratori: Tazio, lei e Levante, erano addetti a staccare i grappoli. Learco avrebbe voluto prendere il posto di Tosca, ma lei disse: “Per l’amor del cielo! Le cesoie sono molto affilate e non voglio che rischi di tagliarti un dito! Poi come lo suoni il violino? Tu e Drusilla portate col carretto l’uva nella cantina e la vuotate nel palmento”. Learco ci rimase male, perché tra le viti insieme con Levante, poteva fare un po’ di chiacchiere. Ma dovette obbedire. E lui e Drusilla avevano il loro bel daffare, perché gli altri tre viaggiavano spediti, e staccavano uva più di quanta ne riuscissero a portare in cantina loro. Era da una vita che Levante non faceva quel lavoro, ma ci mise poco a riprendere la mano, e viaggiava spedito come gli altri. Era meravigliato dalla destrezza di Tosca, che tagliava e metteva i grappoli nelle ceste più svelta che lui e Tazio.
Il quale, vedendo Levante lavorare con perizia gli disse: “Da come lavori, sei pratico del mestiere. Hai anche tu le vigne?”. Levante non amava parlare della sua vecchia vita, lo riportava a ricordi che cercava di lasciare chiusi in un angolo della memoria. Ma quell’uomo gli ricordava suo padre, e ciò lo indusse a raccontargli la sua vecchia vita in quel paradiso in terra che era la Cala di Marciana.
Gli raccontò di quando suo padre lo portava nelle vigne da quando lui aveva mosso i primi passi. Lo aveva fatto crescere tra quei vigneti che amava più dei cristiani, erano il suo orgoglio. E forse era anche per questo amore, che il suo vino era il migliore di quella costa dell’isola. Lo aveva sentito dire spesso dagli altri contadini, specialmente dopo la morte di suo padre. E glielo dicevano come per fargli intendere che lui non riusciva a farlo altrettanto bene. E anche per questo, suo padre era da tutti nominato: il re della Cala. Non che Levante non ci mettesse passione, anzi, però era così.
Poi Tazio gli fece una domanda scabrosa: “Perché non sei rimasto là?”. Ogni volta che dava quella risposta, la lingua pareva bruciargli in bocca. Non aveva mai mentito in vita sua, e quelle parole che aveva già dovuto dire altre volte, suonavano peggio di una bestemmia. “Volevo cambiare vita”.
“E adesso che cosa fai?” chiese Tazio. E a Levante parve che negli orecchi del vecchio contadino, entrasse come un’eresia la sua risposta: “L’operaio nella ferriera di Piombino”.
“Se andiamo avanti di questa lena, per sera abbiamo finito” disse Tosca, forse per interrompere quei discorsi, che certo per Levante non erano piacevoli. Il quale si sentì sollevato dalle parole di Tosca, perché ciò significava che avrebbe potuto anticipare di un giorno la partenza. L’indomani avrebbero fatta la pigiatura, e poi il mosto doveva fermentare qualche giorno prima di essere travasato nelle botti. E quello era un lavoro che le cugine potevano fare con comodo da sole senza l’aiuto di altri.
Quindi il suo impegno terminava dopo la pigiatura.
“Si va a tavola!” annunciò Drusilla. “Di già?” esclamò Levante, a cui non sembrava che fosse già ora di pranzo. Tra quelle viti, il tempo era volato via.
Sotto la pergola, Drusilla aveva messo in tavola una pasta condita con la zuppa di pesce avanzata la sera prima. Ma il pesce era stato passato al setaccio e si era trasformato in un delizioso sughetto, che fece meritare a Drusilla dei calorosi complimenti da tutta la squadra. Ad esclusione di Tazio, che aveva il suo rituale pasto con prosciutto e formaggio. Le cugine sapevano quali erano le abitudini del vecchio, e gli avevano messo in tavola quel cibo.
A Levante venne in mente Adelmo, un vecchio bracciante dell’Elba che veniva ad aiutarlo a fare la vendemmia dopo la morte di suo padre. Anche lui aveva usanze particolari. Più di una volta Levante aveva cercato di fargli mangiare qualcosa di diverso. Ma non c’era riuscito. E rifiutava anche il formaggio che gli offriva Levante. Lui mangiava solo quello che faceva col latte delle sue capre.
Ma la cosa più strana, era che non voleva entrare in casa a mangiare. E a tavola non si voleva sedere neanche quando Levante preparava il tavolo nel cortile. Lui mangiava seduto sul muretto basso che delimitava il cortile. Quando era ora di mangiare, Levante si sedeva a tavola e Adelmo sul muretto.
Poi levava da una tasca il cartoccio con il pezzetto di formaggio, e da un’altra il coltellino. Però il bicchiere col vino che gli dava Levante, lo lasciava sul tavolo. Così veniva lì a bere e poi tornava a sedersi sul muretto. E se col mangiare era parco, col vino era l’opposto. Quindi era tutto un andare avanti e indietro dal muretto al tavolo. Fin quando non vedeva il fondo dl fiasco.
La prima volta che Adelmo era venuto ad aiutarlo, quando venne l’ora di mangiare, Levante aveva messo piatti e posate per due sul tavolo in cortile, ma quando disse al vecchio di sedersi, lui rispose che si sedeva sul muretto. Levante gli chiese il perché, e lui rispose: “Qui siete voi il padrone”.
Levante non poteva credere che Adelmo si portasse addosso quel retaggio medievale, ma sapeva che era inutile insistere. Quell’uomo era come suo padre, che se diceva di no, era un no definitivo.
E seppure Adelmo lo avesse visto nascere, gli aveva sempre dato del voi.
Almeno Tazio si sedeva a tavola con i suoi padroni. E, al pari di Adelmo, era un buon bicchiere.
Rimasero a tavola solo il tempo di mandar giù l’ultimo boccone, e poi ripresero il lavoro.
Verso le cinque avevano quasi finito. Il sole di quell’ora dava alla vigna dei morbidi colori, con le foglie delle viti che avevano un caldo color ruggine, e i grappoli d’uva con il tono scuro del rubino.
Drusilla, mentre arrivava col carretto vuoto, disse: “Visto che abbiamo quasi finito, vorrei fare una cosa. Tazio, non ti spiace prendere il mio posto per una mezz’ora?”. Lui chiudendo le cesoie e mettendosele in tasca, rispose: “Certamente signorina Drusilla”. Allora la donna si recò in casa, e poco dopo ne uscì tenendo in una mano una matita e il blocco da disegni, e nell’altra uno sgabello.
Levante la osservò stupito, e allora Tosca gli disse spiritosamente: “Credo che ci voglia immortalare!”.
Poi Drusilla chiamò Learco e gli disse di mettersi nella vigna insieme agli altri due a staccare l’uva.
“Attento con le cesoie!” si raccomandò Tosca. Infine la pittrice si sedette, pose sulle ginocchia il blocco dei fogli e iniziò a disegnare. Non prima di aver detto con tono canzonatorio a Learco: “Non stare lì in posa a guardarmi, deve essere una scena naturale. Fai finta di lavorare!”.
Il sole stava per nascondersi dietro la collina, L’uva era tutta dentro la cantina, e la vigna era spoglia d grappoli e di gente. Si stavano ristorando sotto la pergola con un bicchier di vino, e Drusilla aveva appoggiato sul tavolo il suo blocco da disegno, quando Tosca le disse: “Mi fai vedere quello che hai disegnato?”. La cugina rispose: “E’ solo una bozza per dipingere un quadro, ora dice poco…”.
“Muoio dalla curiosità di vedere in che modo mi hai ritratta. E’ la prima volta che mi prendi come modella. Ti spiace farmelo vedere?”.
Drusilla prese il blocco e lo porse a Tosca. Lei guardò il disegno e il suo volto si illuminò di un radioso sorriso, si alzò e andò ad abbracciare la cugina. Poi prese di nuovo in mano il blocco, e lo mostrò agli altri. Anche se era solo una bozza in bianco e nero, il disegno era stupefacente.
La vigna disegnata non era quella dove avevano vendemmiato, ma la pergola d’uva dove stavano seduti. Tosca, al centro del disegno, occupava buona parte della scena, piegata con le ginocchia in terra e tenendo in grembo il cesto colmo di grappoli d’uva. Dietro, sulla destra, vi era la figura di Levante con le braccia alzate a staccare i grappoli. Mentre sulla sinistra, dietro Tosca appariva la figura di Learco, che nonostante le intenzioni di Drusilla, nel disegno appariva come nullafacente.
“Stupendo! Sono proprio io!” esclamò Learco. Drusilla rivolse lo sguardo verso Levante, che in quel momento non riusciva ad aprir bocca. Era colpito di vedersi bello come non lo era dal vero. E quel ritratto lo emozionò a tal punto, da riuscire solo a dire: “Non sapevo che avessi questo talento”. E non poteva saperlo, perché nella casa non vi erano appesi i suoi quadri, li teneva nella sua camera.
“Però tu non ci sei…” commentò Tosca indicando con un dito il disegno. “Come faccio a esserci, se io sono la pittrice?” fece Drusilla. Tosca disse: “Fa niente, desidero che nel quadro ci sia anche tu”.
Drusilla lasciò in sospeso la risposta, e il discorso finì lì.
Stava facendosi buio e decisero il da farsi. Learco era piuttosto stanco e disse che, pur se dispiaciuto di rifiutare l’invito a cena, preferiva tornare a casa presto. A Tazio era inutile chiederlo, conosceva già qual’era la risposta, ma Tosca glielo chiese ugualmente “Ti accompagno in paese col calesse?”.
“Grazie signorina Tosca, ma lei lo sa che il mio mezzo di trasporto sono le mie gambe”.
Quindi salutarono i due uomini e rimasero a guardarli partire. Tazio si avviò per primo, e mentre Learco si infilava il giubbetto, Tosca gli disse: “Ci vediamo domani? Sempre se non hai da fare…”.
Poi gli diede un bacio quasi sulla bocca, che aveva il sentore di essere qualcosa di più che un saluto.
Learco restò interdetto per un attimo. Era la prima volta che Tosca se ne usciva con quelle effusioni.
Poi, col suo spirito goliardico, le disse: “Se la paga per il lavoro è questa, domani chiudo l’azienda e vengo a fare il bracciante fisso al podere”. Tosca fece una risatina e poi: “Potrei anche pensarci”.
Quella sera Drusilla cucinò una minestra di porri e patate. Nessuno volle altro. La giornata di lavoro era stata faticosa per le cugine, e mezz’ora dopo aver cenato, si diedero la buonanotte.
Levante si girò nel letto per un bel po’. Avrebbe voluto essere stanco per riuscire a prender sonno subito. Ma a lui, il lavoro di quella giornata non lo aveva affaticato. Era un uomo vigoroso, abituato a ben altre fatiche. La vendemmia nella vigna delle cugine era una passeggiata in confronto a quella della Cala. In quel posto, la vendemmia era tutto un su e giù con i sacchi in spalla lungo una mulattiera ripida, perché mica solo la Baccellona si portava in groppa i sacchi con l’uva. E quel lavoro gli aveva fatto venire un fisico che non c’erano palestre che lo facessero venire così.
E mentre nel buio rischiarato dalla luna piena che la faceva da padrona nel cielo stellato, guardava le travi del soffitto, pensava al disegno di Drusilla, e alle lodi che avrebbe voluto farle. Perché era una raffigurazione che esprimeva molta dolcezza nel descrivere la scena e le tre figure ritratte.
E si propose per l’indomani, di trovare il modo per dirle quanto lo avesse emozionato quel disegno.
Anche se tirar fuori dalla sua bocca certe emozioni, era come tirar fuori un macigno da un pozzo.
Quasi non si accorse di addormentarsi, come se d’improvviso i suoi pensieri fossero stati rapiti dai raggi di luna e portati nell’universo stellato, a perdersi nello spazio celeste.
Come le mattine precedenti, fu il primo a svegliarsi. O forse non lo era, però il silenzio che regnava gli diede a pensare che le cugine fossero ancora tra le braccia di Morfeo. Si alzò e cercando di non far rumore, andò in bagno, fece quel che doveva fare, però non si rasò. Gli era venuta voglia di farsi crescere la barba. Non lunga, solo quel tanto che gli mascherassero un po’ i due solchi che partivano dai lati del naso e scendevano fin quasi al mento. Da quando era lì, nel guardarsi allo specchio, si vedeva più vecchio, non certo somigliante al bel ritratto di Drusilla. Poi tornò in camera, si infilò la tuta da lavoro e scese. E inaspettatamente trovò in cucina Drusilla che preparava la colazione. E pensò che se non lo avesse fatto subito, d’emblée, forse non sarebbe più riuscito a farlo. E mentre lei gli dava il buongiorno, le andò vicino e le disse: “Drusilla, ieri quando ho visto il tuo disegno, mi sono emozionato al punto da non riuscire e dire altro, oltre a quelle quattro parole. Io sono fatto di una scorza dura, e non ho la capacità di tirar fuori dall’animo ciò che provo. Forse è anche colpa di mio padre, che dopo la morte di mia madre, mi ha tirato su con tutto l’impegno e si è dedicato a me in maniera esemplare, però il suo carattere chiuso, duro come la terra pietrosa delle nostre vigne, mi ha privato del dialogo, se non che per le cose materiali. E il mio carattere si è forgiato come il suo. Forse è anche per questo che non sono mai riuscito a farmi degli amici. E forse questa difficoltà di comunicare, mi ha dato la capacità di leggere nell’animo della gente, di cercare di capire al di là delle parole. E nel tuo animo vi ho letto le più belle cose. E credo che anche tu abbia difficoltà a esprimere certi sentimenti con le parole. Però hai avuto un grande dono dal cielo: di poterle dire in un altro modo, e il disegno che hai fatto, mi dà la certezza di ciò che dico. Sei una donna meravigliosa, e non sai quanto vorrei poterti dire che… ”. Ma non riuscì a terminare di parlare. Non riuscì a dire quella dolorosa cosa che non avrebbe mai voluto dirle. Gli fu impedito dalle labbra di Drusilla, che si stamparono sulle sue. E nel far ciò, lo abbracciò stretto, come volesse legarlo a sé per timore che lui si svincolasse da quel bacio.
Ma Levante non si sarebbe tirato indietro. Da troppo tempo quel bacio gli bruciava nel petto.
E allora le sue braccia avvolsero Drusilla, senza pensare più a niente. Senza ragionare che facendo così, poi avrebbe sofferto di più. E al male che stava procurando a lei.
E quel bacio, chissà quanto sarebbe potuto durare, se non si fosse udito il rumore dei passi che scendevano lungo la vecchia scala di legno.
“Buongiorno ragazzi! Stamattina sarei rimasta a letto fino a mezzogiorno!” squillò la voce di Tosca entrando in cucina. “Per fortuna ho la cuginetta che pensa a me, e mi risparmia certe incombenze!”.
Poi si accorse che le espressioni di Drusilla e Levante le erano nuove. E capì quello che non era difficile da capire. Ma fece finta di niente.

 

La collina dei gelsi/Capitolo 1° – Il segreto di Drusilla

La collina dei gelsi/Capitolo 2° – Una nuova vita

La collina dei gelsi/Capitolo 3° – La proposta di Learco

La collina dei gelsi/Capitolo 5° – Il giuramento di Levante

 

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