di Giulio Ghirelli
Il sole ancora non aveva fatto capolino sulla collina dei gelsi, che Levante già da un po’ gironzolava a piedi nudi per la stanza, cercando di non far scricchiolare le assi del pavimento, per non disturbare le cugine Bardi, che forse avevano il sonno leggero. Il suo lo era certamente, e non solo leggero, ma anche interrotto da continui risvegli. Ancor più di quando in guerra faceva le veglie di guardia.
I pensieri che gli avevano agitato il sonno, non erano cose di poco conto. Il giorno precedente, era stato veramente eccezionale. Da una vita non si era sentito così bene, grazie all’ospitalità e al calore che aveva ricevuto dalle cugine Bardi, e anche con Learco si era trovato in grande sintonia.
E quel pomeriggio a passeggiare per il podere tra vigne e ulivi, era stato un ritorno alle origini, e ciò lo aveva fatto star bene, al punto che quello che gli aveva detto don Ersilio: “Le cugine Bardi hanno spesso bisogno di qualcuno che dia una mano” ora nella sua mente echeggiava come una profezia.
E allora perché non dar retta a ciò che aveva detto il prete? Che allontanarsi dal mare lo avrebbe aiutato ad alleviare la sua sofferenza. E anche se la ferita nel cuore avrebbe continuato a sanguinare, era molto meglio quella nuova vita che gli dava l’opportunità di tornare a essere una persona, piuttosto che un pezzo d’ingranaggio di una ferriera.
E quello che gli si prospettava, forse dipendeva solo da lui deciderlo. Perché aveva la sensazione che se si fosse offerto di lavorare al podere, le cugine non gli avrebbero detto di no. Magari non a tempo pieno. Ma oltre a quello, avrebbe potuto fare altri lavori. Con le distruzioni della guerra, c’era bisogno di gente per ricostruire. E non gli mancava forza per fare il muratore, oltre che il contadino.
Bastava imboccare quella nuova strada. Però c’era un ostacolo su quella via: Drusilla.
Perché anche ad avere le fette di salame sugli occhi, si vedeva lo stesso che le si era acceso un certo fuoco, e si vedeva pure che ad aggiungervi benzina sopra, era sua cugina Tosca.
E siccome chi è abituato a star solo, ha molto più tempo per ragionare, lui aveva messo in fila un elenco di fatti del giorno prima. Iniziando dall’abbraccio di Drusilla quando era arrivato al podere.
Troppo passionale per essere solo di benvenuto. E anche trascurando la domanda che gli aveva fatto poco dopo, cioè se avesse qualcuno che l’aspettasse a Piombino, la proposta di fermarsi da loro per la vendemmia, era solamente per necessità di manodopera? E la premura di scendere subito in paese a prendere la valigia? E poi il discorso dell’amicizia tra sua cugina e Learco, che non andava oltre perché Tosca temeva che se avesse fatto coppia con lui, poi lei poteva sentirsi messa da parte…
Era così strambo interpretare quelle parole come un sottinteso messaggio? Cioè: Tosca dice di sì a Leandro, qualora anche lei trovasse un compagno. E poi tutti quegli sguardi con certi occhi…
E se per far quadrare i conti, non bastava tutto questo, ci si poteva aggiungere quel fuggevole bacio che gli aveva dato sulle labbra nel darsi la buonanotte.
E se veramente le cose stavano come pensava, poteva ringraziare il Padreterno, perché Drusilla gli piaceva, non solo per il suo aspetto, ma anche perché trovava in lei una gran sensibilità e dolcezza.
Inoltre, aveva un temperamento estroverso, che poteva dare una smossa al suo carattere solitario.
Ma la cosa preponderante, era che Drusilla gli stava entrando con passione nel cuore.
E ciò lo angosciava, perché non poteva permetterlo. Non tanto per il sentimento, che non è peccato averlo, ma perché doveva nasconderlo. Poiché aveva fatto un giuramento davanti al Padreterno.
Anche se erano passati sedici anni da quando l’aveva fatto, non poteva infrangere un giuramento fatto per tutta la vita. E gli pesava come un macigno spiegare a Drusilla il motivo di quel voto.
C’era riuscito solo con don Ersilio, con la speranza che farlo con un uomo di Dio gli alleggerisse la coscienza. Speranza vana.
Quindi, non poteva far altro che fare la valigia e salutare le cugine Bardi. Rimanere lì, avrebbe solo alimentato inutili speranze a Drusilla e sofferenza a sé stesso. Ma doveva trovare una giustificazione da dare alle cugine, che oltretutto avevano organizzato per quella serata una specie di festa con lui e Learco. Allora decise di restare fino all’indomani, così avrebbe avuto il tempo per trovare una scusa convincente per andarsene da quel luogo.
Quando verso le sette sentì dei rumori al piano terreno, andò in bagno a lavarsi e farsi la barba.
Ci mise un paio di minuti per farsi la mano a usare il rasoio tagliente come un bisturi, però riuscì a non tagliarsi. Poi tornò in camera, finì di vestirsi e scese al piano di sotto, dove trovò in cucina le cugine che trafficavano a preparare la colazione. Fu accolto con due larghi sorrisi, poi Drusilla gli andò vicino e vedendogli il viso sbarbato, gli disse: “Hai imparato bene, neanche un taglietto!”.
Poi gli chiese se gli andava bene il caffellatte con il burro e la marmellata di gelsi. “La preparo io!” disse orgogliosa Drusilla. Lui rispose che al mattino prendeva soltanto il caffè. “Quello buono non l’abbiamo, si fa ancora fatica a trovarlo, e noi ci siamo ormai abituate a quello di orzo. Però stasera chiedo a Learco se riesce a procuracene un po’ per te”. “Grazie sei molto gentile, ma non stare a disturbarti, per quel poco tempo che rimango, non è il caso”. A quella frase, vide rabbuiarsi il volto di Drusilla, e pensò che fosse meglio non tirare più in ballo il discorso della partenza, almeno fino all’indomani, quando avrebbe dato la notizia. E per mettere una pezza a quella frase, disse: “Allora prenderò una fetta di pane e marmellata, col caffè d’orzo credo che ci stia proprio bene”.
“Squisita!” si affrettò a dire appena assaggiò la marmellata. Anche se a lui le marmellate piacevano poco. Però servì almeno a far tornare di nuovo il sorriso a Drusilla. Durante la colazione, Tosca gli disse che poi avrebbero incominciato a prendere fuori dal magazzino le ceste e i vari attrezzi per la vendemmia, così poi se nel pomeriggio fosse arrivato Learco col pesce, Drusilla si sarebbe rintanata in cucina fino a sera, e loro tre si sarebbero messi sotto la pergola con una bottiglia di vino a ciacolare fino all’ora di cena. “Mettine pur quattro di bicchieri, mica penserete che anche se sono in cucina, vi lascio lì fuori a bere da soli!” esclamò Drusilla.
E durante quella mattina a trafficare, Levante vide la cantina delle botti, perché il giorno precedente avevano girovagato per il podere, ma Drusilla non lo aveva portato a vedere quel posto.
Era un grande locale rischiarato appena da due piccole finestre senza vetri, con il soffitto fatto a volte in mattoni rossi, Le quattro grosse botti, dall’aspetto potevano avere più di un secolo. In un angolo c’era il palmento per pigiare l’uva. Era simile a quello che aveva all’Isola d’Elba, dove suo padre gli aveva insegnato a fare quel lavoro. Quanto calpestare uva aveva fatto fin da quando era bambino! E quante centinaia di volte aveva percorso su e gìù la mulattiera che dalla cantina portava alle vigne. Perché i terreni erano in alto, a mezza costa, dove il sole tramontava più tardi. Infatti suo padre chiamava la terra dove c’erano le vigne: la Solana. E poi giù, con sulla groppa dell’asino due sacchi d’uva da cinquanta chili, fino alla cantina vicino al mare. Quanti sacchi s’era portata sulla groppa la Baccellona. Era il nome che suo padre aveva dato all’asina, perché era ghiotta dei baccelli delle fave. A suo padre piacevano molto le fave, e ne piantava una gran quantità. E piacevano anche a lui. Le mangiavano crude con sopra il sale, o le faceva con la minestra, oppure stufate in padella.
Suo padre era bravo a far da mangiare, e dopo la morte della moglie, portata via da un malaccio, non si risparmiava in niente. E fin quando Levante non fu grandicello, gli aveva fatto anche da mamma.
Non aveva mai voluto trovarsi un’altra donna, e faceva tutto lui in casa. E si era piegato la schiena a zappare le vigne, a fare l’orto con ogni genere di ortaggi, e a mettere le reti in mare di notte.
Aveva visto la schiena di suo padre curvarsi come una falce, giorno dopo giorno, fin quando una volta che Levante era salito alla Solana un po’ più tardi, lo aveva trovato a terra senza vita. Non che per la morte di sua madre non avesse sofferto, ma era ancora bambino. Da piccoli, i dolori sono più facili da guarire. Invece quando morì quel grande uomo -il re della Cala, era nominato dalla gente del luogo-, fu un dolore che ancora si portava dentro il cuore, a far compagnia a quell’altro, enorme.
L’unica consolazione, fu quella che suo padre diceva sempre che quando fosse giunta la sua ora, avrebbe voluto che fosse tra le sue amate vigne.
“Levante! Ti sei innamorato del palmento?”. Sentì la voce di Drusilla che lo riportava al presente.
“Questa cantina mi ha riportato a certi vecchi ricordi, di quando facevo il vino a casa mia”.
“Bene! Allora sarai contento di tornare a fare quel lavoro!”. “Sì” rispose. E nel dirlo sentì le spine nel cuore. Perché aveva deciso che il giorno appresso avrebbe lasciato il podere. Mettendo così altre spine in un altro cuore.
La mattina passò nei lavori di pulizia e preparazione di tutto quanto serviva per la vendemmia. Non erano lavori faticosi, salvo quello di pulire il palmento, che andava lavato per bene con acqua e aceto, perché le pareti e il fondo di cemento dovevano essere spazzolati a mano e con almeno due risciacqui. Questo lavoro volle farlo Levante, non solo per non fare faticare le due donne, ma perché rimettere i piedi dentro il palmento era una cosa che lo faceva stare bene. Però non era un lavoro da fare con i vestiti che aveva addosso. Ma non ci furono problemi per rimediare una tuta e gli stivali di gomma. In quel podere, le cugine conservavano tutto, calzature e vecchi indumenti da contadini.
E nel fare quel lavoro, la sua mente tornò ancora ai tempi della sua vita alla Cala, quando, dopo la morte di suo padre, in un primo momento si era sentito perso. Solo allora aveva compreso quanto quell’unica presenza gli riempiva la vita. E il passaggio sporadico di qualche turista che passava per quei luoghi e gli dava modo di scambiare qualche parola, era poca cosa. Quando si recava con la barca in paese a fare provviste, al massimo faceva due chiacchiere con qualche conoscente, ma gli veniva sempre la premura di tornare a casa. E poi non era uno di tante parole. Nato e cresciuto in quel luogo solitario, lo aveva abituato a una vita da eremita. Non che questo gli dispiacesse, anzi.
Però avrebbe potuto trovarsi una compagna che lo aiutasse. Occuparsi di tutto da solo non era uno scherzo. E in paese c’erano un paio di ragazze che gli avevano messo gli occhi addosso, e gli avevano fatto intendere che se lui era dell’idea… E in quei posti, l’usanza di mettersi insieme per amore, era meno importante di quella di avere una donna che sapesse zappare e mettere le reti in mare. Lo aveva fatto anche suo padre, che si era portato alla Cala una donna, così come si porta nella stalla un asino da soma. Non che non avesse voluto bene a sua moglie, però quello era venuto dopo. Ma lui non aveva quelle idee, e anche se non sapeva che cosa significasse amare una donna, era certo che senza quel sentimento, non avrebbe aperto la porta della sua casa a nessuna.
E il destino gliel’aveva mandata, e se n’era innamorato a prima vista. Poteva essere solo un dono del cielo, una creatura che era vissuta negli agi di una grande città e aveva scelto di vivere in quel posto difficile, fuori dal mondo. Senza avere la struttura della contadina. Aveva una corporatura esile e le sue mani erano così delicate, che solo l’idea di mettergli in mano una zappa era una bestialità. Così come metterla ai remi quando lui calava le reti in mare. Invece saliva con lui alla Solana a zappare le viti, e remava quella pesante barca.
“E’ mezzodì, si va a tavola!” lo distolse dai sui ricordi la voce allegra di Drusilla.
“Ho quasi terminato, finisco di asciugare il fondo del palmento e tra due minuti vi raggiungo”.
Si stava bene seduti al tavolo sotto la pergola. E la frittata aveva la gustosità di quelle pietanze che, come tante altre, hanno un sapore migliore quando sono condite con la serenità. Sentimento per lui raro da molto tempo. L’allegro chiacchierio delle cugine lo faceva star bene, e lo invogliò a bere un tantino di più. E a un certo punto, anziché seguire le donne nei loro discorsi, gli si abbassavano le palpebre. Cosa che Drusilla notò per prima, e gli disse: “Non pensi che ti farebbe bene andare a fare un riposino? Così stasera sei in piena forma per la festa. Tanto per oggi abbiamo finito con i lavori”.
Levante era indeciso, ma pensò che un po’ di sonno gli avrebbe fatto bene. Riuscire a recuperarne un po’ di quello della notte precedente, sarebbe stata una buona cosa.
“D’accordo, cara gentildonna, salgo a fare le abluzioni e poi mi ritiro nella mia dimora. Spero che non le manchi troppo la mia presenza” disse tra il serio e il faceto.
E mentre saliva le scale, pensò che se gli era venuto quel modo spiritoso di parlare, poteva solo ringraziare quella bella compagnia.
E in quello stato di benessere, prese sonno appena si coricò sul letto.
Stava ancora dormendo, ma lo sentì subito quel toc toc alla porta. I suoi orecchi erano abituati allo stato di allerta da partigiano. “Un momento!” rispose alzandosi in fretta e infilandosi i pantaloni. Poi andò ad aprire la porta. Non si meravigliò di vedere Drusilla.
“Hai dormito bene? Scusa se ti ho svegliato, ma sono quasi le cinque”. “Di già?” si meravigliò lui.
Ma fu ancor più meravigliato nel vedere Drusilla con i capelli tirati indietro, che le mettevano in risalto i tratti delicati del viso. La camicetta nera era infilata dentro una gonna color nocciola con le con le pences, lunga fino alle caviglie. Ai piedi aveva due ballerine nere sopra un paio di calzini bianchi corti. Insieme al corpo esile e al giovanile viso senza trucco, quell’abbigliamento le dava l’aspetto di una giovane studentessa. E Levante fu colpito nel vederla ancor più bella, e di quanto gli piacesse.
Ma prima che potesse farle un complimento, lei lo anticipò dicendo: “Learco è arrivato in giacca e cravatta, e Tosca si è messa in lungo. Non li ho mai visti così agghindati. Credo che lo abbiano fatto in tuo onore” e accompagnò la frase con un ridente sorriso. Poi, un po’ timorosa, come se temesse di dire qualcosa di impudente, disse: “Nell’armadio della camera di mio padre ci sono ancora dei suoi vestiti. Sono lavati e stirati. Tu sei alto e di corporatura simile alla sua. Se ti va di sceglierne uno, penso che addosso a te starebbe proprio bene per questa serata”.
Qualsiasi pensiero che passò per la testa di Levante, fu azzerato dalla dolcezza che esprimevano gli occhi di Drusilla, e dal tono di quella frase, che faceva immaginare il sentimento che conteneva.
“Grazie! Così stasera faccio anch’io la mia bella figura! Andiamo a farci belli!” le disse allegro.
Si recarono nella camera del padre, arredata con vecchi mobili conservati con cura, poi Drusilla gli aprì l’armadio e tirò fuori due giacche e calzoni grigio scuri, li pose sul letto e disse: “Aspetto fuori, tu provali e poi mi chiami”. Levante non dovette provare troppo, il primo vestito che indossò, gli andava a pennello, come fosse stato confezionato per lui. Aprì la porta e si mostrò a Drusilla.
“Perfetto!” esclamò lei, guardando ammirata quell’uomo che era la bella copia di quello di prima.
Poi entrò con lui nella stanza, e senza dir parola, aprì un cassettone e tirò fuori una camicia bianca, che pareva appena uscita da una boutique. E poi dall’anta dell’armadio staccò una cravatta color pesca, e da un cassetto un fazzoletto da taschino del medesimo colore, e li mise sul letto.
“Mio padre era un bell’uomo e si vestiva in modo elegante” disse con orgoglio.
Poi apri uno stipo e indicò a Levante le scarpe che vi erano contenute. “Prova se ti vanno bene”.
Levante era commosso. Nello sguardo di Drusilla leggeva molto di più di quella generosità. Ma gli riuscì di dire solo: “Grazie. Allora vado a darmi una sciacquata e radermi, la mia barba cresce rapida come il bambù. Poi mi vesto e scendo”. Forse Drusilla si aspettava un ringraziamento diverso, ma fece buon viso, e mentre usciva dalla camera, disse scherzosa: “Sarai accolto con un applauso!”.
L’applauso non ci fu, ma i sorrisi compiaciuti delle tre persone che stavano chiacchierando seduti sulle poltroncine della sala, dicevano tutto. E anche se era un uomo di carattere schivo, si sentì bene nell’essere ammirato. L’unico neo, erano le eleganti scarpe nere che gli andavano strette, ma non lo diede a vedere, e sopportò stoicamente il dolore ai piedi per tutta la serata.
“Signore, stasera siete più affascinanti del solito, disse ammirando Tosca, che indossava un lungo abito turchese senza maniche e con un ampio décolleté, impreziosito da una collana di ambra chiara.
Un’eleganza diversa da quella di Drusilla, ma, come si dice, Noblesse oblige, visto che quella sera era nel ruolo di artista al pianoforte. E Learco, in completo scuro e farfallino, le faceva pendant.
La zuppa di pesce era già pronta dal pomeriggio, e il profumo arrivava fino in sala. Levante aveva un appetito che avrebbe cenato subito. Ma quella era una serata speciale, di quelle che non si cena con l’orario delle galline, quindi si sedette insieme con loro intorno a un tavolino su cui c’era posata una bottiglia di vino bianco, calici e un vassoio con crostini conditi con olio e fettine di pomodoro.
Durante l’aperitivo, Learco raccontò un po’ della sua vita a Levante. Gli disse che aveva quarantatrè anni -due più di lui- e che viveva con l’anziana madre, vedova di un commerciante di attrezzi agricoli, e con una badante che la assisteva. Aveva continuato a portare avanti l’attività del padre, e quel lavoro lo portava a muoversi per le campagne della Toscana. Ciò gli aveva consentito, in tempo di guerra, di procurarsi dai contadini che avevano mucche e maiali, qualche taglio di carne e un po’ di salumi. Aveva iniziato a lavorare col padre dopo il liceo ad Arezzo, frequentando anche la scuola di musica, dove aveva imparato a suonare il violino. “Non posso lamentarmi della mia vita, il lavoro rende bene, anche se con la guerra si è fermato, ma adesso che è finita, si riparte. Mi manca solo di metter su famiglia” disse lanciando un’occhiatina a Tosca. La quale fece finta di non sentire.
Poi chiese a Levante qualcosa della sua vita. Lui fu molto stringato, e gli disse solo delle sue origini di contadino elbano, e che poi, dopo la morte di suo padre, aveva ceduto casa e terreni ed era venuto a Piombino, dove aveva trovato un posto da operaio meccanico nella ferriera.
“Come mai un cambio così drastico?” chiese Learco. “Era troppo di sacrificio quella vita” mentì lui.
“E ora cosa pensi di fare? Tornare alla ferriera?”. “Per ora è ferma, è stata bombardata. Tra qualche giorno vado a vedere com’è la situazione”. “Hai detto che sei meccanico. Allora te lo dico così, en passant. A me serve un meccanico per le riparazioni degli attrezzi agricoli dei miei clienti. Avevo una persona che lo faceva, ma durante la guerra è tornata al suo paese in Puglia a coltivare ulivi. Da solo non posso seguire quel lavoro, sono già troppo impegnato con le vendite. Se ti interessa, ne possiamo parlare. Magari, se vanno bene le cose, un domani potrei associarti nell’azienda”.
Poi si era fatto silenzio. Le cugine erano ammutolite, con gli occhi con un’espressione che si poteva interpretare come una speranza che Levante dicesse che la proposta di Learco lo interessava.
Invece il silenzio regnò ancora qualche secondo, fin quando Tosca disse: “Ragazzi, si va a tavola?”.
La zuppa di pesce era squisita, e i bocconi erano intervallati dai complimenti a Drusilla.
Ma pareva che la cuoca fosse poco interessata alle lodi, e che il suo umore non fosse dei migliori.
Nella proposta che Learco aveva fatto a Levante, aveva visto la possibilità che rimanesse lì, poiché aveva la sensazione che se fosse ritornato a Piombino, ci sarebbe rimasto per sempre.
Quando finirono di cenare, si trasferirono nel locale dove c’era il pianoforte. Drusilla e Levante si sedettero su un antico divanetto di legno a due posti di velluto bordò. Learco prese il violino e si mise di fianco al pianoforte. Tosca sfogliò degli spartiti, e insieme al violinista scelsero le musiche.
Suonarono dei brani classici, di cui Levante non conosceva gli autori. Ma non era fondamentale sapere chi. La cosa essenziale erano le note melodiose che uscivano dai due strumenti. E si capiva che le avevano suonate spesso insieme, perché a Levante, pur non intendendosi di musica, parve che fossero perfettamente in pieno accordo. E pensò a Serena. Non l’aveva mai sentita suonare.
Anche lei da ragazza aveva studiato il pianoforte nella sua città natale, Livorno. E Levante era certo che le sarebbe piaciuto continuare a suonarlo. Come era sicuro che lei avesse le dita perfette per quello strumento, lunghe e sottili. Ma fare arrivare un pianoforte alla Cala, era impensabile. O forse si sarebbe potuto fare, anche se con grande fatica. Ma in quel luogo, in cui ogni giorno i problemi spuntavano come funghi, il progetto di portare lì un pianoforte, era rimasto sempre nel cassetto .
“Ti piace?” gli sussurrò Drusilla, posando una mano su quella di lui, sradicandolo dai suoi pensieri.
“Sono estasiato. Non immaginavo che suonassero così bene” rispose lui a bassa voce. E avrebbe voluto fare degli applausi alla fine di ogni brano, ma prima di iniziare a suonare, Drusilla gli aveva detto che Tosca non voleva applausi tra un brano e l’altro, perché rompevano l’atmosfera che quelle note creavano. Casomai alla fine del concerto. Poi gli chiese sottovoce: “Lo conosci il primo brano, quello che Tosca ha suonato da sola?”. “L’ho già sentito, ma non conosco l’autore. E’ bellissimo”.
“E’ il Notturno opera nove, numero due di Chopin. Lo suona sempre per primo, sa che lo adoro”.
Quando terminarono di suonare, Levante applaudì con calore. Invece Drusilla, anziché applaudire, andò ad abbracciare i due musicisti. Poi, restando abbracciata ai due, fece segno a Levante di unirsi a loro. Lui non ci pensò un istante. E restarono a lungo allacciati tutti insieme.
I loro respiri si mischiavano, e pareva che tutti loro volessero respirare quella linfa. Un nutrimento che aveva il sapore della gioia di essere sopravvissuti allo sterminio della guerra, del desiderio di iniziare una nuova vita, del piacere di essere uniti in quell’alleanza. E dell’amore.
Perché non si poteva dubitare che in quell’abbracciarsi, di amore ce n’era tanto.
E ciò soppresse il progetto di partire all’indomani. Decise di restare fino alla fine della vendemmia.
La collina dei gelsi/Capitolo 1° – Il segreto di Drusilla
La collina dei gelsi/Capitolo 2° – Una nuova vita
La collina dei gelsi/Capitolo 4° – La vendemmia
La collina dei gelsi/Capitolo 5° – Il giuramento di Levante
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