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La collina dei gelsi/Capitolo 2° – Una nuova vita

La collina dei gelsi/Capitolo 2° – Una nuova vita

di Giulio Ghirelli

Settembre 1945
Erano passati quasi due anni, quando Tosca e Drusilla rividero il comandante Lupo. Si presentò di mattina, mentre loro stavano uscendo col calesse dal cortile del podere per scendere in paese.
Di lui non avevano più avuto notizie, e nei loro pensieri ci stava anche quello che potesse aver avuto una brutta sorte. Come tanti partigiani. E come Renzo.
A volte Drusilla ripensava a quella notte in cui aveva chiesto al comandante di prenderla con loro. Era stato l’impulso di aggregarsi al gruppo partigiano per vendicare la morte di Renzo, a spingerla a far ciò. Ma si era subito ravveduta ripensando a quello che diceva spesso sua madre: A ogni vendetta, vien dietro il pentimento. E poi non se l’era sentita di lasciare Tosca da sola al podere, con tutti i pericoli di quella guerra che allora non era così lontana dalla collina dei gelsi.
Quando videro entrare nel cortile quell’uomo alto e bruno, che poteva avere una quarantina d’anni, ma che mostrava in volto i segni di quelle ferite che sono più profonde di quelle fisiche, e che lo faceva apparire più vecchio, le cugine quasi non lo riconobbero e restarono ammutolite.
Fu lui a parlare per primo: “Buongiorno gentili signore, non mi sono scordato di voi. Sono venuto a salutarvi e, se me lo permettete, andare a portare un saluto a Renzo. Poi parto per Piombino. La guerra è finita e ora si torna alla vecchia vita. Ma forse farei meglio a dire: a una nuova vita”.
“Comandante Lupo!” esclamò Drusilla con l’entusiasmo di chi rivede una persona cara.
“La guerra se n’è andata, e con lei anche il comandante Lupo. Ora torno a essere un operaio di nome Levante, il mio vero nome”. In quel momento, come spinte dal medesimo istinto, le cugine Bardi scesero dal calesse e andarono ad abbracciare Levante. E in quel modo di salutarsi c’era tutta la gioia che sprizzava dai cuori di persone che vedevano finalmente terminate le devastazioni della guerra e aprirsi una nuova vita per tutti. Ma forse l’abbraccio di Drusilla significava anche qualcosa di diverso, poiché restò allacciata a Levante più a lungo di Tosca. Poi, darsi del tu, venne da sé.
“Vivi a Piombino?” chiese Tosca, non appena ebbe termine l’abbraccio degli altri due.
“Sì, prima della guerra ero operaio alla Ferriera di Piombino. Ma non so quanto tempo ci vorrà per riprendere il lavoro, perché la fabbrica è stata bombardata”.
Drusilla aveva una certa luce negli occhi quando disse: “A Piombino hai qualcuno che ti aspetta?”.
“No” rispose Levante. Ma non aggiunse altro, come se non volesse parlare di ciò che riguardava la sua vita. E Drusilla pensò che ogni altra cosa avesse voluto sapere da Levante, erano domande che era meglio tenere per sé. Ma subito dopo, quel pensiero fu sopraffatto, e mentre guardava Tosca, come per cercare il suo assenso in quello che stava per dire, si rivolse a Levante: “Dopodomani faremo la vendemmia e la pigiatura dell’uva. Ci facciamo aiutare da un bracciante che sta in paese. Se vuoi fermarti a darci una mano anche tu, potresti rimanere qui per qualche giorno. Per dormire abbiamo più camere di un albergo, e se non hai premura di tornare a casa…”.
Tosca guardò stupita Drusilla. Le parole di sua cugina le erano piombate addosso come un fulmine a ciel sereno. Ma conosceva troppo bene Drusilla, per non capire che i suoi occhi dicevano altro, oltre alle parole che le erano uscite di bocca. E allora si rivolse a Levante dicendo: “Anche questo è un lavoro, visto che a Piombino per ora non ce l’hai”. Poi aggiunse con sorriso invitante: “Sempreché ti vada l’idea di fare il contadino per qualche giorno. Noi lo siamo da quando siamo nate”.
“Mio nonno e mio padre erano pescatori dell’Isola d’Elba, ma anche contadini e coltivavano le viti. Sono nato contadino come loro e ne sono fiero, anche se poi sono finito a fare l’operaio in ferriera. Ma sono cresciuto in mezzo alle vigne e di uva ne ho raccolta e pigiata tanta” disse Levante. E non servì aggiungere altro, perché le cugine Bardi capissero qual’era la risposta dell’uomo.
“Devo solo recuperare la valigia che ho lasciato giù in paese al parroco. Mi pareva fatica sprecata portare quel bagaglio inutilmente fin quassù” disse Levante.
“Forza Tosca! Andiamo a prenderla subito!” disse animata Drusilla.
E fu lì che Tosca si rafforzò in quel pensiero che le era nato da quando sua cugina aveva fatto quella proposta all’uomo. E allora disse: “Andate tu e Levante. Intanto io salgo a preparargli una camera”.
Quella fu la seconda volta che il calesse portava un partigiano. Ma stavolta era un partigiano vivo.
E se nel cuore di Drusilla quel pensiero aveva ravvivato la brace del suo dolore, la figura di Levante seduto di fianco a lei sulla panca del calesse, le irrorava l’animo di gioia, come gocce di pioggia che scendono su una terra arsa dalla siccità.
Perché ne era consapevole, lo era già da quell’unica e tragica volta che lo aveva visto, che Levante aveva lasciato un segno nel suo cuore. Ma quel sentimento se lo sarebbe tenuto segretamente dentro di sé. Perché quell’uomo che era apparso come un arcobaleno dopo un temporale, così come poi l’arcobaleno si dissolve nel cielo, finita la vendemmia, se ne sarebbe andato dalla collina dei gelsi.
Arrivarono in paese senza scambiarsi una parola. Drusilla era talmente presa dall’emozione di avere al suo fianco Levante, che le pareva che anche una sola parola potesse rompere l’incanto di quei momenti. E anche l’uomo pareva non avesse desiderio di parlare. O forse avrebbe avuto da dire troppe cose di quegli anni vissuti da partigiano, che avrebbe potuto riempire mille e più pagine di un
libro. Ma erano argomenti che avrebbe voluto cancellare dalla mente, e non raccontarli. E altre cose di cui parlare, in quel momento non gli passavano per la testa. Così percorsero i quattro chilometri guardando scorrere di fianco a loro i verdi paesaggi della collina, con i prati colorati dai papaveri che spuntavano tra l’erba. E Drusilla pensò che quei fiori avevano il medesimo colore dei fazzoletti che portavano al collo suo figlio Renzo, e colui che aveva conosciuto con il nome di comandante Lupo, e che ora stava seduto al suo fianco. E con quella presenza, i papaveri le apparvero più rossi.
Il paese sembrava rinato, con la gente che brulicava per le strade e l’aria che odorava di vita.
Raggiunsero la chiesa e fermarono il calesse lì davanti. Drusilla tirò la leva del freno e fece per scendere per accompagnarlo, ma Levante le disse di restare pure sul calesse, che sarebbe tornato subito. Poi entrò in chiesa. Don Ersilio, il prete che da una vita era parroco del paese, appena lo vide gli andò incontro e gli chiese: “Sei già tornato? Allora hai proprio fretta di partire. Mi dispiace, dopo tutto il tempo che ti ho visto in questi luoghi, e conosciuto bene, sei uno dei miei più cari credenti”.
Levante gli comunicò del cambio di programma, e sul viso del prete apparve un sorriso, e poi disse: “Sono contento che resti ancora un po’ da queste parti, e chissà che non ci rimani a lungo. Magari se ti allontanassi da Piombino, penseresti meno a quel fatto. Forse non vedendo di continuo il mare, troveresti un po’ di sollievo. E le cugine Bardi hanno spesso bisogno di qualcuno che dà una mano”.
“Solo per il tempo della vendemmia. Ma anche se restassi qui più a lungo, non servirebbe a niente. Certi macigni li porti addosso ovunque vai. Ma le chiedo di non dire alle Bardi del mio passato. E’ una cosa che ho raccontato solo a lei, è come se gliel’avessi detta in confessione” rispose Levante.
“Non c’era bisogno che me lo chiedessi, non lo avrei fatto comunque. Vado in sagrestia a prendere la tua valigia” disse il prete.
Mentre tornavano al podere, Drusilla gli disse: “Noi a mezzogiorno facciamo un pranzo spartano in cucina, poi alla sera preparo qualcosa in più, tipo un minestrone con i nostri ortaggi e una frittata, oppure una pasta al pomodoro e delle verdure lessate. Di questi tempi la carne si trova a fatica. La cuoca di casa sono io. Tosca non è portata per la cucina, e le rare volte che si mette ai fornelli c’è rischio che faccia bruciare il mangiare e la pentola. Se va bene anche a te, oggi c’è formaggio fatto da noi e del salame con un’insalata, altrimenti ti faccio una pastasciutta. Il salame è molto buono, ce l’ha portato l’altro giorno il nostro amico Learco, che abita a Civitella. A dire il vero, è più amico di Tosca, perché anche lui ha studiato musica ed è violinista. Mia cugina suona il pianoforte e certe sere Learco sale al podere e si mettono a suonare insieme. Lui gira per molte fattorie, e a volte riesce a procurarci un po’ di carne o qualche salume. Più raramente, del pesce che gli vende un pescatore di Cecina. Il pesce è il mio cibo preferito, lo cucino in diversi modi, ma la zuppa di pesce è la mia passione. E per me, quando Learco arriva con del pesce, è festa grande”.
“Grazie Drusilla, va benissimo così, pure io a pranzo mangio leggero come voi, e fino a poco tempo fa, anche alla sera, perché da partigiani non ci potevamo permettere dei grandi pasti. Dormivamo nei
boschi o in qualche rudere, ed era già buono se potevamo cenare con del salame o formaggio”.
Erano ormai in prossimità del podere, quando Drusilla tirò le redini del cavallo, così da far fermare il calesse, e abbassando la voce come fosse in chiesa, disse: “Ti dico una cosa in segreto: Learco si è innamorato di Tosca quando l’ha conosciuta prima della guerra alla sagra del nostro paese, ma è molto timido e non si è mai proposto. Anche lei prova dei sentimenti per lui, ma è come se ci fosse un muro di vetro che li divide. E nessuno dei due prende l’iniziativa di romperlo. Più di una volta ho cercato di dare una smossa a Tosca, ma lei dice che la nostra vita è sempre andata bene così, perché complicarla. Ma penso che lo faccia per me, per timore che io poi mi possa sentire messa da parte”.
“Questo vuol dire che tu non hai qualcuno?” chiese Levante. A quella domanda, Drusilla era rimasta silenziosa per qualche istante, e poi rispose: “Una ragazzo l’ho avuto… ma ero tanto giovane…”.
Rimase pensosa per un momento, e poi, allentando le redini del cavallo per farlo ripartire, disse: “Andiamo, è quasi ora di pranzo”. Durante quel tratto di strada che mancava per arrivare al podere, Levante non udì più la voce gaia di Drusilla, e gli venne il sospetto che la domanda che aveva fatto alla donna, potesse averla messa a disagio. E imbarazzato rivolse lo sguardo verso i campi.
Solo il calpestio degli zoccoli del cavallo che arrancava lungo la salita, rompeva il silenzio.
Mentre pranzavano, col conforto del buon vinello della loro vigna, Levante disse a Drusilla: “Senza toglier niente al bellissimo nome di Tosca, il tuo mi piace molto, è la prima volta che lo sento”.
A Drusilla si illuminarono gli occhi, e fu talmente sorpresa dalle parole di Levante, che restò senza parole. Allora Tosca disse: “Drusilla, perché non gli racconti quella leggenda sul suo nome?”.
“Hai voglia, Levante?” disse lei. “Ma certo! Con molto piacere!” esclamò lui.
Allora lei raccontò: “Mia mamma da bambina aveva letto una favola. E ne fu talmente attratta, che quando nacqui io, mi battezzò con questo nome. La storia è questa: C’era una volta, in un regno su una collina con un rigoglioso bosco, una fanciulla di nome Drusilla. Era conosciuta in tutto il regno per la sua straordinaria bellezza e il suo animo gentile. Ma ciò che la rendeva davvero speciale, era la sua singolare dote: poteva comunicare con gli spiriti della natura, con gli animali e con le piante. Comprendeva il linguaggio degli uccelli, che le raccontavano storie di terre lontane, e ascoltare i sussurri degli alberi, che le rivelavano i segreti del bosco. La gente del villaggio l’ammirava e la rispettava, considerandola una protettrice della natura. Un giorno, un terribile drago di nome Thalor si risvegliò dal suo letargo millenario e incominciò a devastare la collina e bruciare il bosco, terrorizzando gli abitanti del regno. Il re, disperato, convocò i cavalieri più valorosi per combattere il drago, ma non riuscirono a sconfiggerlo. La devastazione continuava senza alcuna speranza di porvi fine. Drusilla, ascoltando le grida di aiuto degli animali del bosco, e sentendo il dolore delle piante che bruciavano, pensò che doveva fare qualcosa, e anche se era un’esile fanciulla, decise di affrontare il drago. Preparò un sacchetto di erbe magiche raccolte con cura grazie ai consigli degli spiriti della natura, e si incamminò verso la tana di Thalor. Quando Drusilla arrivò, trovò il drago che riposava su un mucchio di resti di animali. Con il cuore che le batteva forte, si avvicinò e iniziò a cantare una dolce melodia, una canzone che le era stata insegnata dagli spiriti della foresta. La sua voce era così pura e incantevole, che Thalor ne fu rapito. Drusilla parlò al drago con voce suadente, dicendogli il dolore che stava causando e chiedendogli di cessare la sua distruzione. Il drago, toccato dalla bellezza e dalla gentilezza di Drusilla, abbassò la testa e accettò le erbe magiche che lei gli offriva. Le erbe ebbero il potere di placare il suo cuore infuocato e smaltire la sua rabbia. Thalor, ormai tranquillo, promise di non nuocere più, e volò via verso colline più lontane, lasciando vivere gli abitanti del regno senza più paura. La gente, grata e ammirata, acclamò Drusilla come un’eroina. E da quel giorno, lei continuò a proteggere la natura e gli abitanti del regno, diventando una leggenda vivente. La storia si tramandò di generazione in generazione, ricordando a tutti che il coraggio e la forza non sono date dalle armi, ma dalla bontà e dal proposito di rispettare la natura, e ascoltare il sussurro del bosco e la voce degli animali che lo abitano”.
Alla fine del racconto, Levante fece a Drusilla un affettuoso sorriso, che diceva più di mille parole.
E le entrò nel cuore facendole arrossire il viso.
Terminato il pranzo, Tosca lanciò uno sguardo a Drusilla e disse: “Bene! Voi due andate pure avanti a chiacchierare, io salgo a preparare la camera per Levante, così poi se vuole andare a fare un riposino, lo accompagni di sopra e gli fai vedere dov’è la camera e il suo bagno”.
Drusilla fu certa che Tosca avesse capito da che parte proveniva il vento. Quello che gonfia le vele del navigante che fa rotta verso una nuova terra. Un vento con il suo medesimo nome: Levante.
“Grazie Tosca, tu e Drusilla siete due persone squisite. La vostra ospitalità è per me una cosa rara. Comunque fai pure con comodo, perché di pomeriggio non ho l’abitudine di andare a riposare. E anche di notte dormo solo poche ore. Dopo tutto il tempo che ho passato in veglie notturne per non essere colti di sorpresa dal nemico, il mio sonno si è molto ridotto”.
“Grazie, sei molto gentile, allora ci vediamo più tardi” rispose lei. E poi, rivolta a Drusilla: “Potresti portarlo a fare un giro a vedere il podere”. Infine uscì dalla cucina. Drusilla disse: “Ti va l’idea?”. “E’ un invito a nozze per un contadino, andiamo!” esclamò Levante alzandosi dalla sedia.
Il sole stava calando, tingendo di arancione il cielo dietro la collina, quando, dopo aver girovagato per il podere, con una sosta dov’era sepolto Renzo, Drusilla, che da quando erano usciti, aveva in animo di fare quella domanda a Levante, finalmente ci riuscì: “Non vorrei sembrarti invadente nel chiederti una cosa…”. “Dimmi pure” disse lui. “Sei sempre vissuto solo? Senza una compagna?”.
“Sempre” rispose. E si sentì le spine nel cuore.
Quella sera ci fu un arrivo inaspettato al podere. La cena era quasi pronta, il tavolo della sala era apparecchiato con piatti in porcellana decorati con foglioline verdi intorno al bordo e bicchieri a calice di vetro sottile, cose tramandate da generazioni, e che le cugine mettevano in tavola per le occasioni speciali. Per cena c’era minestrone di verdure, e il suo profumo che veniva dalla cucina, Levante non lo sentiva da parecchi anni.
Come al solito, in cucina c’era Drusilla, e intanto Tosca e Levante stavano a parlare seduti su due poltroncine della sala. Poi, mentre la cuoca entrava nella sala con la zuppiera, si udì lo scoppiettio di un motore. Le cugine conoscevano bene quel rumore, era quello della motocicletta di Learco.
“Learco!” esclamò Tosca, e poi si alzò e uscì velocemente dalla sala.
“E’ arrivato l’innamorato” sussurrò Drusilla a Levante, entrando in sala con la zuppiera fumante.
E poi aggiunse: “Vedrai che bel tipo, troppo simpatico”. In quel mentre, Tosca e Learco entrarono nella sala. Lei teneva in mano un pacco, e mostrandolo ai due, esclamò: “Stasera si cena di lusso! Learco ha portato mezzo prosciutto crudo!”.
Non ci misero troppo per le presentazioni, era un peccato far raffreddare il minestrone, e dopo aver aggiunto piatti e bicchieri per il nuovo ospite, si sedettero a tavola. Ma a Tosca interessava poco se la minestra veniva fredda, poiché, invece che mangiare, si era messa a raccontare a Learco come e perché Levante si trovasse ospite in casa loro. Poi, finito di mangiare il primo, Drusilla si recò in cucina ad affettare il prosciutto. E intanto le giungevano le voci degli altri tre. Non riusciva a sentire bene tutto ciò che si dicevano, ma dal tono delle loro voci, era quasi certa che si fosse già creata una sintonia tra Learco e Levante. Pensò che nella sua vita non era mai stata così appagata. E ringraziò i numi che avevano messo seduti a tavola loro quattro. Due coppie felici, fantasticò.
La cena durò quanto un pranzo di nozze, perché il gruppo era più intento a conversare allegramente, che non a mangiare. Levante pensò che era passata una vita da quando si era sentito così a suo agio.
Le due cugine erano catturate dai discorsi di Learco, che era un colto e avvincente oratore.
Anche Levante ne fu conquistato, perché, come aveva detto Drusilla, Learco era molto simpatico. E non era invadente. E per il carattere di Levante, che non sopportava le persone curiose, quelle che vogliono sapere troppo della vita degli altri, fu facile instaurare con lui un rapporto amichevole.
Era passata la mezzanotte, quando Learco decise di congedarsi dal gruppo. Salutò Levante dicendo: “Allora penso che ci rivediamo, visto che rimani un po’ al podere”. Le cugine lo accompagnarono fin sulla soglia di casa. E lì Drusilla disse a Learco: “Se sei libero domani sera, potresti venire su a cena”. E poi, con uno sguardo complice alla cugina: “Se porti il violino, facciamo sentire a Levante i vostri duetti musicali”. “Io ci sto!” disse Tosca. E Learco si aggregò dicendo: “Volentieri! Allora domattina vado a Cecina a procurarmi un po’ di pesce e ve lo porto nel pomeriggio. Così facciamo felice Drusilla. Scommetto che muore dal desiderio di fare una buona zuppa di pesce”.
“In cambio, ti va bene un bacio sulla guancia?”. E senza por tempo in mezzo, Drusilla glielo diede.
Quando tornarono in sala, Tosca disse: “Ragazzi, è quasi l’una, non vi pare che sia ora di andare a dormire? Drusilla, stasera sparecchio io, e tu accompagni di sopra Levante e gli fai vedere la camera e il suo bagno. Ho messo due asciugamani. Vedi tu se gli serve qualcos’altro”. Poi, come se fosse un vecchio amico, Tosca salutò Levante nella stessa maniera di Drusilla con Learco.
“Grazie Tosca, è stato uno dei migliori giorni della mia vita. Buonanotte anche a te” le disse.
Drusilla lo guidò di sopra e gli mostrò il bagno riservato a lui. “Tosca ha messo due asciugamani, se ne hai bisogno altri vado a prenderli nella lavanderia. Il sapone è quello per fare il bucato, perché le saponette profumate non si trovano più da anni. Hai lo spazzolino e il dentifricio?”.
“Sì, però ho finito le lamette da barba. Ma non credo che voi le abbiate” disse con tono spiritoso.
Drusilla rispose pronta: “Aspetta!” e uscì svelta dal bagno. Tornò un minuto dopo. “Mio padre non usava le lamette, preferiva questo” disse mostrando un rasoio da barbiere che aveva l’aria di essere un oggetto pregiato, poiché aveva il manico di corno.
“Abbiamo tenuto un sacco di cose solo per ricordo, però a volte vengono buone”.
“Non ne ho mai usati di questi, sono quelli che se non hai la mano ferma, ti tagliano la gola. Vuol dire che se domattina mi vedi arrivare sanguinante, mi farai le medicazioni” disse ridendo.
“Io no! Il sangue mi fa senso. Te le farai fare da Tosca. Vieni, che ti mostro la tua camera”.
Percorsero un tratto di corridoio e Levante disse stupito: “Quante porte! Sono tutte camere?”.
“Camere e bagni. Ci vivevano i nostri nonni, i nostri genitori e noi figlie, tutti insieme. Eravamo in dieci, una grande famiglia. Ci sono stati momenti felici e altri no… Ora siamo rimaste solo noi due”.
Levante lesse come un dolore negli occhi di Drusilla. Si fermarono davanti a una porta e la donna l’aprì e disse: “Siamo arrivati”. Era una camera con dei bei mobili antichi e un grande letto, di quelli alti, che si usavano una volta. Lui aveva sentito dire che erano alti per non fare chinare il dottore che andava a visitare il malato, ma forse era solo una diceria. Drusilla fece una rapida ispezione e disse: “Mi pare che non manchi nulla”. E poi, come se provasse imbarazzo a essere nella camera insieme a Levante, disse: ”Allora ti do la buonanotte”. “Buonanotte cara Drusilla, e grazie di tutto” le rispose.
E poi non riuscì a trattenersi dall’abbracciarla. Lei sentì invadersi da un fremito, una sensazione che
le era nuova. E desiderò che il tempo si arrestasse. Come avrebbe voluto che si fermasse quando poi le sue labbra cercarono quelle di Levante. Invece gliele sfiorò appena, perché poi scappò via.

 

 

La collina dei gelsi/Capitolo 1° – Il segreto di Drusilla

La collina dei gelsi/Capitolo 3° – La proposta di Learco

La collina dei gelsi/Capitolo 4° – La vendemmia

La collina dei gelsi/Capitolo 5° – Il giuramento di Levante

 

 

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