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La caṣéda

La caṣéda

di Sergio Scuffi

L’economia delle nostre famiglie ruotava, essenzialmente, attorno all’allevamento. Fra tutti gli animali, quello senz’altro più importante era la mucca, particolarmente apprezzata per la produzione del latte e, quindi, per tutto quanto si poteva ricavare dalla sua trasformazione in burro e formaggio, attraverso la caéda.
La lavorazione veniva svolta in paese nelle latterie sociali da un esperto casaro (caṣée). Quando ci si trasferiva in montagna per i mesi estivi, prima sui maggenghi (móont, a giugno) e, successivamente sugli alpeggi (alp, a luglio ed agosto), il compito era affidato agli stessi pastori.
Di fatto se ne occupavano le donne (gli uomini erano impegnati al piano nei lavori di sfalcio del fieno, oppure nei cantieri della zona o della vicina Svizzera, e raggiungevano l’alpeggio solo per le feste principali, specialmente a Ferragosto, fèšt d’aóšt); tuttavia l’operazione impegnava anche i ragazzi e durava per buona parte della giornata. Si deve precisare, innanzitutto, che la quantità di latte (lècc) prodotta da ciascun nucleo familiare non sarebbe stata sufficiente per raggiungere nei tempi previsti la giusta quantità. Si ricorreva, pertanto, ad una forma di consorzio fra tre-quattro famiglie; a ciascuno toccava, a turno, raccogliere il latte dei soci (culè).
Chi riceveva il latte, nell’orario prestabilito (dopo la mungitura mattina e sera) si poneva sulla porta di un minuscolo fabbricato appositamente costruito e particolarmente fresco, il caèl, quasi sempre attraversato da un gelido ruscello sopra il quale venivano direttamente posate le conche (cóonc’) recipienti in rame destinati a conservare momentaneamente il prodotto. Munito di bilancia e quaderno, pesava e registrava il latte da ciascuno conferito prima di depositarlo nelle conche. Il quaderno passava poi a chi iniziava il turno successivo, e così via per tutta l’estate. Ciascuno, nel giro di due-tre giorni, raccoglieva una quantità di latte giudicata sufficiente per la lavorazione: in effetti, veniva considerata la capacità del grosso pentolone in rame (culdéra, štagnée), di almeno 80-100 litri, che si utilizzava per ottenere il formaggio.

Giunto il momento della caéda, si iniziava a šgramè, ossia raccogliere, con l’ausilio di una particolare spatola in legno (cazéta) la panna che si formava in superficie, trasportandola alla rustica abitazione e versandola nella zangola (penégia), mentre il latte finiva dentro la culdéra e posto a scaldare sul fuoco.

La penégia, in legno, poteva avere la forma di un cilindro posto verticalmente (più difficile e faticoso da manovrare, attraverso il movimento di una specie di stantuffo dal basso verso l’alto e viceversa), oppure di una botticella rotante su perni (simile al cestello della moderna lavatrice), azionata da un manico a pedivella e con dei tappi per versare la panna ed estrarre il burro, prodotto finale. La lunga e noiosa operazione richiesta dal movimento della zangola (quasi sempre affidata ai ragazzi) veniva periodicamente interrotta e gratificata dalla verifica dei risultati, consistente nel gustoso assaggio della panna che si era venuta formando (fasótt), della quale l’addetto ai lavori cercava di versarsi delle generose dosi. Finalmente, un rumore inconfondibile rivelava che il burro si era ormai formato; arrestato il congegno, si estraeva da un piccolo tappo il latte che si era nel frattempo formato (lècc de penégia), dolce e gustosissimo, ingordamente bevuto così com’era, e molto richiesto anche da occasionali visitatori (scióor, furèšt) o consumato annegandovi dentro dei bei pezzi di polenta (pulénta lècc) in grossolane scodelle di legno (napèl). Il burro (bütéer), estratto a grumi, pressato con le mani, lavato e risciacquato ripetutamente con la gelida acqua dell’alpe, si trasformava in un bel pezzo di colore giallastro, detto panèl, che poi veniva sagomato variamente, a seconda della destinazione. Si aveva pertanto il burèl, di forma grossolanamente cilindrica, per il consumo della famiglia; si poneva invece in uno stampo in legno a forma di parallelepipedo, con qualche semplice decorazione, quello destinato alla vendita.

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Nel frattempo, il latte nella culdéra, appesa ad un semplice e rustico supporto girevole (scigógna), veniva spostato sopra il fuoco acceso e riscaldato alla giusta temperatura (circa 30° C). Vi si versava quindi la necessaria quantità di caglio (quácc) e, trascorso il tempo stabilito (circa 35 minuti) si otteneva la pasta del formaggio, detta quagéda. Essa veniva rimestata con un arnese simile ad un pettine, costituito da un ramo con tutti i suoi rametti (ródac’ dála quagéda, líra); si poneva quindi nuovamente sul fuoco riscaldando a 38° C; si rimestava a lungo il prodotto ottenuto con il rόdac’ (circa 20 minuti).

Lasciata a riposo sul fondo per altri 20 minuti, la pasta veniva infine raccolta con le mani nude, posta in una forma circolare di legno (báalz) e pressata; il formaggio fresco (furmái, magnóca, magnucíin), così ottenuto, veniva deposto a sgocciolare su una mensola di pietra sporgente direttamente dal muro della baita. Il latte residuo (seróon), versato nel truogolo in legno (büi) diveniva alimento per i maiali.

In qualche caso, specie se vi era contenuto latte di capra, si riutilizzava per ottenere la ricotta (mašcárpa): si scaldava fino a 50° C, vi si aggiungeva un po’ di latte intero e si portava a circa 87° C, prima di aggiungervi dell’acido (aceto o limone).
Si formava gradualmente una pasta denominata špess: appena il liquido accennava a bollire, vi si versavano delle piccole quantità di acqua fredda, iniziando gradualmente a scremare la pasta ed a versarla in un contenitore in legno, a forma di secchiello bucherellato (garòtt).

La mašcárpa così ottenuta si poneva quindi ad affumicare su una mensola a ridosso del focolare (non esisteva canna fumaria, ed il fumo usciva direttamente attraverso le fessure del muro a secco e le lastre di pietra (piòtt) del tetto.
Quanto al formaggio, esso richiedeva lunghe ed attente cure per tutto il tempo della stagionatura (le “forme” venivano salate, rivoltate e raschiate ad intervalli regolari, trattate con particolare cura al fine di evitare la formazione di vermi).

A fine stagione venivano trasportate a valle (naturalmente a spalla, con gerli e zaini: solo pochi possedevano animali da soma su cui caricarle), dove le cure continuavano all’interno dei crotti (cròtt), molto adatti alla giusta stagionatura.

 

 

Immagini estrapolate dal libro

n cuštümáva

su gentile concessione dell’autore

 

 

 

 

 

IDVV- ISTITUTO DI DIALETTOLOGIA E DI ETNOGRAFIA VALTELLINESE E VALCHIAVENNASCA

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