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La collina dei gelsi/Capitolo 1°- Il segreto di Drusilla

La collina dei gelsi/Capitolo 1°- Il segreto di Drusilla

di Giulio Ghirelli

Il podere Bardi, che dal 1736 -anno che si leggeva inciso sul muro sopra la porta d’ingresso- stava sul culmine di una collina a quattro chilometri da Pieve sull’Arno, aveva una particolarità: nella proprietà c’era una vasta macchia di alberi di gelso. E quelle piante, nel corso del tempo avevano fatto diventare abituale per la gente del paese, chiamare la proprietà dei Bardi: la collina dei gelsi.
Nel settembre del ’43, quel luogo sembrava fuori dal mondo tormentato dalle bufere della guerra, che da quasi quattro anni infuriava senza tregua. Ma quella notte di fine settembre, le cugine Tosca e Drusilla Bardi, uniche discendenti della vetusta dinastia, non avevano chiuso occhio. Il fragore dei colpi di mitraglia che venivano dalla strada provinciale che attraversava la valle, le avevano tenute sveglie a sbirciare dalla finestra con tutte le luci spente. Pregando in cuor loro di non ricevere delle visite sgradite. Com’era successo la settimana prima, quando un gruppo di sbandati tedeschi in fuga verso l’Alta Italia, aveva fatto irruzione nel loro podere, razziando provviste e portandosi via anche la Fiat Balilla del ’32. Costringendole a riesumare dal magazzino il vecchio calesse e mettere le redini al Bigio, il cavallo color cenere che usavano per i lavori agricoli, ma che ora, prive dell’auto, avevano dovuto mettere al traino del calesse per scendere in paese per le loro commissioni.
Avevano caricato delle bottiglie di olio e di vino, un cesto di uova e alcuni vasetti di confettura di more nere prodotte dalle piante di gelso, e che Drusilla trasformava in succulente marmellate.
Prodotti che ricavavano dal loro podere e che rappresentavano dei genuini alimenti, che una parte cedevano alla gente del paese, e tenendo per sé il necessario. Così pure per il burro e il formaggio ricavati dal latte della Nocciolona, nome dato alla mucca poiché aveva il colore di quel frutto.
Preparavano torte con le uova delle galline, le quali invecchiando non facevano buon brodo, perché le cugine, mai si sarebbero sognate di tirar loro il collo, e i polli finivano per morire di vecchiaia.
Era Drusilla a occuparsi delle galline, che erano tra i frequenti soggetti dei suoi dipinti, e a ognuna delle quali aveva dato un nome. E i quadri delle galline li intitolava col nome del soggetto ritratto.
C’era il quadro intitolato Marta, quello intitolato Ambra, e così via. Tosca non riusciva a capacitarsi di come facesse la cugina a riconoscere le galline, dato che avevano tutte il medesimo piumaggio rossiccio e lo stesso sguardo. Ma Drusilla diceva che le distingueva una a una. E Tosca non avrebbe mai messo in dubbio le parole della cugina, perché era una donna molto attenta ai dettagli.
A differenza sua, che non aveva l’occhio così meticoloso. Però le veniva da ridere quando Drusilla ne chiamava una e arrivavano tutte e ventisette.
“O le tue galline hanno poca memoria, o poca intelligenza” diceva a Drusilla ridacchiando.
Però i soggetti più ritratti da Drusilla erano i bambini. Si recava spesso in paese, ed era ormai di casa nel piccolo asilo, nella scuola e nell’oratorio della chiesa, per disegnare quei soggetti. Poi li terminava nella sua stanza con meticolosità, al punto che erano cosi perfetti da sembrare fotografie.
La sua camera era tappezzata su tutte le pareti di fogli da disegno con i ritratti dei bimbi.
Tosca non aveva mai affrontato l’argomento con sua cugina, ma pensava che in quella predilezione per ritrarre i bambini, potesse esserci un recondito desiderio di maternità. Però Drusilla non aveva mai manifestato il desiderio di farsi una famiglia e avere dei figli.
Dell’orto se ne occupava invece Tosca, e sua cugina non si capacitava di come potessero conciliarsi quelle mani da contadina, forti e grosse come vanghe, con i piccoli tasti del pianoforte a muro, preso usato da sua madre quando aveva intuito che la figlia aveva predisposizione per la musica. E poi l’aveva rifornita dei testi teorici e pratici per imparare a suonarlo. E i risultati si erano visti, eccome.
Erano contente di quella vita spartana, che avevano deciso di proseguire anche quando erano venuti a mancare i loro genitori. E loro, figlie uniche di due fratelli, avevano ereditato equamente il podere.
Però non se la sentivano di condurre un podere che aveva vari ettari di terreno con ulivi e vigne, e una stalla piena di mucche. Una proprietà che aveva dato benessere ai loro predecessori, e da vivere a quelle dei braccianti che venivano a lavorare nella tenuta.
Quindi avevano venduto le mucche, e ridotto la produzione di olio e vino a quel tanto sufficiente per compaesani e per loro. E chiamavano qualche bracciante soltanto per la vendemmia e per pigiare l’uva, che poi imbottigliavano da sé, perché la cantina con le botti era il loro sancta sanctorum, e lì non avrebbero permesso ad alcuno di entrare. E quando c’era quello che loro chiamavano il rito, cioè l’imbottigliamento, uscivano dalla cantina belle allegre. Invece per le olive, anziché nel vecchio frantoio del podere, le veniva a prendere un consorzio che faceva la spremitura per terzi, ma davanti ai loro occhi. Perché l’olio che mettevano nella cantina doveva essere unicamente delle loro olive.
Nel corso degli anni, non erano mancate vantaggiose offerte di acquisto della loro proprietà. Ma di comune accordo le avevano rifiutate, preferendo quella vita a quella più confortevole in una grande città vivendo di rendita. E in quel connubio di alleanza e affetto, avevano garbatamente chiuso la porta in faccia a diversi pretendenti che nel tempo si erano presentati a chiedere la loro mano.
Chi a Tosca, che aveva un viso schietto dai tratti marcati, con la pelle imbrunita dal sole, tipica della gente che fa lavori campestri, con gli occhi e i capelli castani, e il fisico alto sopra la media e ben piantato. “Da contadina toscana” diceva con orgoglio di sé.
Chi a Drusilla, che era meno alta, di carnagione chiara con i capelli color rame e gli occhi verdi.
E che dietro il suo aspetto gentilizio, rivelava un carattere energico, in coesione col suo nome di origine celtica, che significava forte. Infatti il suo concetto di vita era di non mettere filtri davanti allo specchio della realtà. “Iper-realistica come i suoi lavori di pittura” diceva di lei sua cugina.
E con la filosofia di vita delle donne indipendenti, erano giunte a quell’età in cui i giochi sono fatti.
Tosca era arrivata a contare quarantasei primavere, e Drusilla quarantadue.
Quella mattina, come di consuetudine due volte alla settimana, si recavano in paese a consegnare i loro prodotti ai compaesani, i quali benedivano le due cugine, che grazie a loro riuscivano ad avere qualcosa in più delle scarse razioni che ottenevano a causa della carestia provocata dalla guerra. E in quei tempi di miseria nera, non volevano essere pagate. “Quando sarà finita la guerra” dicevano.
E nel fare le consegne, avrebbero chiesto notizie della sparatoria di quella notte.
Ma dopo aver percorso qualche centinaio di metri della strada che scendeva al paese, dopo una curva a gomito, il cavallo aveva improvvisamente scartato sulla sinistra, e Tosca aveva dovuto dare uno strattone alle redini del cavallo per rimetterlo in dirittura. “Ehilà Bigio! Che ti frulla nella zucca stamani!” aveva esclamato, mentre Drusilla si era aggrappata alla leva del freno del calesse.
Ma il cavallo aveva le sue buone ragioni per essersi spaventato, e il medesimo spavento colse le cugine, non appena scorsero nel tratto scosceso che dal ciglio della strada scendeva verso i campi, la sagoma di una persona accasciata a terra con un braccio alzato come per richiamare l’attenzione.
Ma cosa potevano pensare di un uomo che alza un braccio, se con l’altro imbraccia un mitra? E subito dopo reclina la testa sul petto, come se gli fossero venuti a mancare i sensi. O la vita.
Con le ragioni della testa, potevano solo dare uno strattone alle redini e mettere al galoppo il Bigio.
Ma c’erano ragioni più forti che non venivano dalla testa. E come se le cugine avessero avuto nello stesso momento il medesimo pensiero, Tosca tirò le redini del cavallo, e Drusilla la leva del freno.
Poi scesero dal calesse e si avvicinarono all’uomo. Poteva essere un soldato, dato che indossava dei calzoni grigio-verdi infilati alle caviglie in un paio di scarponi anfibi. E anche la camicia color kaki poteva essere militare. Ma la corda che stringeva i calzoni non era certo da militare, così come il fazzoletto annodato al collo sotto la camicia aveva poco a che fare con una divisa. Ed era rosso.
Un rosso più acceso del colore della larga macchia che aveva sulla camicia. E anche i calzoni erano macchiati di sangue.
Le cugine sapevano che molti partigiani usavano mettere al collo un fazzoletto rosso. E quell’uomo che sembrava morto, forse era stato colpito quella notte, quando avevano sentito sparare, ed era riuscito ad arrivare fino a poche centinaia di metri dalla loro casa, Forse sperava di trovarvi rifugio, ma erano venute a mancargli le forze. Probabilmente aveva perso molto sangue.
Tosca guardò con occhi smarriti Drusilla “Sarà morto?” le chiese. La cugina si chinò e tastò il polso dell’uomo, poi disse “E’ ancora vivo”. “Cosa facciamo?” chiese Tosca. La cugina restò per qualche attimo in silenzio, poi guardò negli occhi Tosca, e come se vi avesse letto il suo medesimo pensiero, disse: “Lo portiamo da noi. In paese ci sono le squadre delle camicie nere. E per lui sarebbe la fine. Poi io scendo in paese e torno col dottore. Di lui ci possiamo fidare, è un antifascista. Possiamo solo sperare di tornare in tempo”. E detto questo, trascinarono l’uomo fino sul ciglio della strada.
Metterlo sul calesse fu un’impresa, e forse un miracolo. Ma alla fine riuscirono a caricarlo.
Stavano per avviarsi, quando Drusilla disse: “Il mitra”. Poi scese dal calesse e andò a recuperarlo.
Era la prima volta che toccava un’arma. La canna era fredda. Mai aveva sentito un metallo così gelido. Come la morte, pensò. E un brivido le percorse la schiena.
Arrivarono nel cortile del podere, fin dove poteva arrivare il calesse. Scaricare l’uomo fu peggio che caricarlo. Più di una volta rischiarono di farselo scivolare dalle mani e farlo ruzzolare in terra. Ora dovevano fare venti metri per arrivare fino alla porta di casa. Stavano per trascinarlo come un sacco, quando Tosca disse: “Aspetta” e si diresse in casa. Tornò con una coperta, che usarono come una barella. E con tutte le forze che avevano, e quelle sovrumane donate dal cielo, arrivarono in casa.
Ma i letti erano al piano di sopra. “Portiamo giù un materasso” disse Tosca. Andarono di sopra e tornarono col materasso, lo portarono nella sala e lo sistemarono in un angolo. Poi trascinarono la coperta con sopra il corpo, e infine lo stesero sul giaciglio. L’uomo non dava segni di vita.
Drusilla gli tastò nuovamente il polso. “Poco, ma c’è” disse, e poi fece per avviarsi verso la porta.
“Vado io, tu resta vicino a lui che te la cavi meglio” disse Tosca, e senza lasciar tempo alla cugina di parlare, si avviò di corsa. Uscendo, udì la voce di Drusilla: “Fate presto per l‘amor del cielo!”.
Ma passò più di un’ora, un’eternità per Drusilla, che stava china al capezzale di quel giovane uomo.
Un ragazzo che poteva avere circa venticinque anni, aveva poi realizzato quando, come panacea per la sua ansia, più che per il ferito, aveva bagnato delle pezzuole di lino, e con quelle gli rinfrescava la fronte e gli puliva il viso sporco di sangue. E pensando che quel fazzoletto rosso stretto intorno al collo potesse rendergli faticoso il respiro, glielo tolse. E per far ciò, gli girò leggermente la testa, e quello che vide la fece sussultare. Poi, per la seconda volta nella sua vita, dagli occhi le sgorgarono fiumi di lacrime. Tutte quelle che non aveva potuto piangere per quasi trent’anni.
Aveva quattordici anni, quando al podere era arrivato un giovane a chiedere se potessero dargli un lavoro per qualche giorno, il tempo di racimolare qualche soldo e ripartire verso nord. Aveva detto che veniva dalla Calabria e di avere i genitori a Torino, e gli serviva un po’ di denaro per arrivarvi.
Era un bel giovane di carnagione bruna con i capelli neri e ricci. Poteva avere una ventina d’anni.
Per Drusilla fu un colpo di fulmine, e spesso si recava nella stalla, dove il giovane aveva il compito di accudire alle mucche. E un giorno che il ragazzo era sul fienile sopra la stalla a buttar giù da una botola il fieno per gli animali, lei era entrata nella stalla e lui l’aveva invitata a salire sul fienile.
E per sei giorni, il tempo in cui lui rimase al podere, Drusilla era salita furtivamente lassù.
Fu la mamma, dopo poco più di tre mesi, ad accorgersi che alla figlia stava crescendo il ventre.
E una sera la raggiunse nella sua camera e la interrogò. E non dovette insistere per farsi dire tutto.
Tutto quello che seguì, lo decise il papà di Drusilla. Prima fece giurare alla figlia di non rivelare a nessuno il suo stato. Poi radunò in segreto sua moglie e i genitori di Tosca e disse loro che cosa aveva progettato. Ma prima doveva fare un viaggio fino a una cascina sulle colline di Prato, in cui viveva un bracciante che aveva lavorato nel loro podere. Quest’uomo, dopo anni di lavoro presso i Bardi, era venuto a sapere che era in vendita una cascina nel suo luogo d’origine, e aveva espresso ai suoi padroni il desiderio di comprare quella proprietà e tornare a vivere lì con la moglie. Però i suoi risparmi non erano sufficienti per pagare la cascina, e aveva chiesto un prestito ai Bardi. I quali, pur dispiaciuti di perdere un bravo lavoratore, glielo avevano concesso. Quindi sarebbe stato probabile che accettasse la richiesta del padre di Drusilla. E la mamma della ragazza non aveva voce in capitolo di fronte all’autorità del marito, e dovette rassegnarsi al suo volere. Così, una settimana dopo, Drusilla fu portata dai genitori alla cascina del bracciante. Dove sarebbe rimasta fin quando non avesse partorito. Ufficialmente, la ragazza aveva preso la tubercolosi ed era stata ricoverata in un sanatorio sulle colline dell’Abetone. Ma nessuno le aveva detto che cosa sarebbe successo dopo.
Drusilla era benvoluta da quella famiglia che conosceva da anni, e aveva portato avanti serenamente la gravidanza. E con le visite dei genitori, non si sentiva abbandonata. Anche quando aveva dato alla luce un maschietto, c’era la mamma ad assisterla. Ma di quella creatura che aveva potuto avere tra le braccia solo per pochi giorni, col passare degli anni le si erano cancellati dalla mente i tratti. Però ricordava le lacrime che aveva versato, quando un giorno suo padre gliel’aveva portato via dicendo che quel bambino non poteva tornare a casa con lei. Sarebbe stata un’onta che avrebbe macchiato il nome dei Bardi. Per consolarla, le aveva detto che il bambino sarebbe finito in buone mani.
E le aveva fatto fare giuramento sul nome della Madonna di non parlare mai a nessuno del bambino.
All’ex bracciante aveva azzerato il debito del prestito, col patto di mantenere segreta questa storia.
Drusilla aveva fatto di tutto per riuscire a togliersi dalla mente quel tragico pezzo della sua vita, ma sono ferite del cuore che non rimarginano mai. E anche se col tempo l’immagine di quel bimbo si era sbiadita, una cosa le era rimasta nella memoria: quel piccolo neo di forma ovale che aveva sul collo sotto l’orecchio sinistro. Identico a quello che ora vedeva sul collo, sotto l’orecchio sinistro, del giovane uomo su cui era chinata.
Dagli occhi le sgorgavano lacrime come una fontanella, e le braccia stringevano al petto la testa di quel figlio che non poteva neppure chiamare per nome.
E quella fu la scena che videro Tosca e il dottore quando entrarono nella stanza. E interpretarono quello strazio come il naturale sgomento di chi vede morire sotto i propri occhi un essere umano.
Perché quando il dottore tastò il polso del ferito, questo non aveva più alcun battito.
Tosca entrò in quella scena chinandosi e abbracciando Drusilla, legata a lei in quel dolore.
Il dottore pensò che era di troppo in quella scena, e uscì dalla stanza. E fuori rimase fino a quando venne raggiunto dalle donne. Quello che disse il dottore alle cugine, non era un discorso facile in quel frangente, ma non si poteva perder tempo, prima che capitassero lì le camicie nere o i tedeschi.
Perché era certo che quell’uomo era stato ferito da loro, ed era scontato che lo stessero cercando. E se fossero arrivati al podere, sarebbe stata la fine per tutti. Innanzitutto si doveva frugare nelle tasche del giovane, per cercare qualche traccia di chi fosse e da dove venisse. Ma non trovarono documenti. Drusilla avrebbe voluto dire che sapeva chi fosse quel giovane, ma aveva fatto un giuramento, e col cuore a pezzi non aprì bocca. Il dottore propose di nascondere il giovane nella stalla, ormai abitata solo da una mucca, e coprirlo con del fieno. E poi, nel cuore della notte, lo avrebbero caricato sul calesse e lo avrebbero portato via. Ma dove?
Silenzio per un lungo attimo, poi Drusilla disse: “Lo teniamo noi”.
Tosca e il dottore la guardarono sconcertati, come se pensassero che Drusilla fosse uscita di senno.
Ma prima che riuscissero a dir qualcosa, Drusilla spiegò: “Lo seppelliamo sotto i gelsi. Lei dottore ci aiuti solo a caricarlo sul calesse e a scaricarlo nel bosco, e poi sarà meglio che torni in paese. Dovrà farsi la strada a piedi, ma meglio questo, che essere qui se arrivano i fascisti. Io e mia cugina scaviamo la fossa e lo seppelliamo”.
Il tono di Drusilla non era quello di chi fa una proposta, ma di chi ha deciso per tutti. E Tosca sapeva bene che se avesse fatto una minima obiezione, sarebbero state delle parole al vento.
Ma dopo il primo momento di sconcerto, pensò che la decisione di sua cugina era la meno peggio.
L’unica alternativa era quella di portare il defunto dal parroco e farlo seppellire di nascosto nel cimitero del paese. Ma i fascisti e i tedeschi avevano occhi e orecchi dappertutto, e non avevano pietà per nessuno. Fucilavano anche i preti. Invece sottoterra tra i gelsi, chi l’avrebbe mai cercato?
E così il calesse arrivò con la salma sotto i gelsi. Il dottore si offerse di aiutare le donne a scavare la fossa, ma Drusilla lo ringraziò e disse: “Ci pensiamo noi, abbiamo le braccia da contadine. Lei si metta subito in marcia, e ricordi che questo rimarrà il nostro segreto”.
Il sole stava scomparendo dietro la collina. Le due donne avevano finito da un pezzo di ricoprire la fossa e mettere sulla nuda terra la scorza erbosa che avevano estirpato prima dello scavo. E il lavoro era riuscito alla perfezione. Nessuno avrebbe mai immaginato che in quel punto fosse stata scavata una buca. Poi, con la punta della vanga, Tosca aveva inciso una piccola croce sulla corteccia del gelso più vicino. Infine, erano rimaste a lungo a guardare quel segno in silenziosa preghiera.
Quando tornarono a casa, era quasi notte. Si prepararono una tazza di caffellatte, di più non riuscirono a mandar giù. E rimasero in silenzio sedute al tavolo della cucina, solo rischiarata dalla fioca luce della luna, cerulea come i loro volti.
E in quell’intima comunanza di dolore, Drusilla fu sul punto di svelare a Tosca il suo segreto, e chi fosse il giovane che giaceva sotto i gelsi. Perché da chi altro poteva ricevere conforto, che in quel momento le era necessario come l’aria che respirava? Ma avrebbe tradito il giuramento.
L’orologio a pendolo della cucina aveva da poco battuto due ritocchi, quando un rumore fece quasi sobbalzare dalle seggiole le cugine. Non c’era rischio di confonderlo: era il rumore di un motore.
Si accostarono alla finestra e videro l’ombra di un veicolo che entrava a luci spente nel cortile.
Era troppo alto per essere un’auto. Forse un piccolo autocarro. Che si fermò all’inizio del vialetto che portava all’ingresso. Poi videro le sagome di due persone venire dinanzi alla porta e bussare.
Era meglio aprire, prima che sfondassero la porta, perché quella non era di certo gente in visita di cortesia. Quindi accesero le luci e aprirono l’uscio. I due uomini non avevano la divisa dei tedeschi, e neppure l’aspetto delle camicie nere. I fazzoletti rossi che avevano al collo, facevano pensare altro.
Uno dei due, quello che non imbracciava il mitra, senza troppi preamboli disse: “Stiamo cercando un compagno disperso. Avete visto qualcuno?”. Anche se la voce era dura, gli occhi dicevano altro. Dicevano che quegli uomini non erano in giro ad ammazzare dei poveri innocenti, ma a liberare il paese dal giogo nazista. E davanti a quella faccia sudata e stanca e con la barba sfatta, Drusilla disse all’uomo: “Vado a prendere una lampada e vi accompagniamo”. Poi entrò in cucina, staccò da una trave una lampada a olio, l’accese e tornò sulla porta. Infine disse ai due: “Seguiteci”.
E mentre nel buio della notte, rischiarato appena dalla fioca luce della lampada, percorrevano il sentiero che portava ai gelsi, Drusilla raccontò tutto quello che era successo.
I due uomini non fecero domande, né dissero qualcosa, nemmeno quando furono davanti alla tomba.
Solo quando tornarono alla casa, quello che prima aveva parlato disse: “Sono il comandante della brigata partigiana della Val d’Elsa. Il mio nome di battaglia è Lupo. Stanotte abbiamo avuto uno scontro a fuoco con un commando di tedeschi a un paio di chilometri a nord di Pieve sull’Arno. Tre dei nostri sono rimasti feriti, e uno lo stavamo cercando. Ora lo abbiamo trovato. Il suo nome era Renzo. Di lui so soltanto che veniva da Prato e che era cresciuto in un orfanotrofio. E che si guadagnava da vivere dipingendo quadri che vendeva alle fiere di paese. Quando c’erano le fiere, perché con la guerra…”. A quelle parole, Drusilla si sentì scoppiare il cuore.
“E’ arrivato da noi quattro giorni fa dicendo che voleva unirsi alla nostra brigata, ma non era pratico di armi. Gli ho insegnato a usare il mitra, ma non so se è riuscito a centrare qualcuno. Se il corpo lo avessimo trovato noi, lo avremmo sepolto in fretta dove capitava. Qui almeno è in un bel posto”.
“Avete fame, sete?” chiese Tosca. “Abbiamo dei viveri sul camion, e poi dobbiamo partire al più presto. I miei compagni sono già in viaggio verso Poggibonsi. Ci sono dei camion tedeschi che stanno percorrendo la statale diretti a Firenze. Gliela faremo pagare anche per Renzo. Grazie per quello che avete fatto per lui”. Poi i due uomini girarono le spalle e si avviarono verso l’autocarro.
Stavano salendo, quando il comandante si girò e disse: “Il mitra di Renzo lo avete sepolto con lui?”.
Tosca esclamò: “Ci stavamo dimenticando! Aspettate!”. Corse al calesse, prese dal pianale l’arma, tornò indietro e la consegnò al comandante. “Vale più dell’oro. Abbiamo sempre bisogno di armi”.
Poi estrasse il caricatore dal mitra e lo controllò. “Non ha sparato un colpo” disse.
Drusilla lo guardò infilare di nuovo il caricatore nell’arma, e poi: “Ci sono donne tra voi?”.
“Certamente, alcune fanno le staffette, ma ci sono anche quelle che combattono al nostro fianco”.
Lei guardò a fondo negli occhi di Tosca, e vi lesse che non le avrebbe impedito di farlo.
Allora disse al comandante: “Prendetemi con voi”.

 

La collina dei gelsi/Capitolo 2° – Una nuova vita

La collina dei gelsi/Capitolo 3° – La proposta di Learco

La collina dei gelsi/Capitolo 4° – La vendemmia

La collina dei gelsi/Capitolo 5° – Il giuramento di Levante

 

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