di Giulio Ghirelli
Era il ’68. Un anno caldo, l’anno delle rivoluzioni sociali. Gli studenti occupavano le università, gli operai le fabbriche. Romeo aveva poco da occupare, solo la testa, occupata dall’assillo di portare a casa i soldi per dar da mangiare a moglie e figlia. Non aveva uno stipendio fisso, un impiego sicuro.
Faceva il piazzista -termine obsoleto, oggi si dice più distintamente agente di commercio– per una ditta di ferramenta, e aveva solo la percentuale sulle vendite, che a volte bastava appena per la benzina che consumava per il suo lavoro. Caldo anche per lui, il ’68.
Però, la soddisfazione di farsi un aperitivo serale al bar vicino all’ufficio, in zona Lambrate, non gliela toglieva nessuno. Poi un sera, l’aperitivo glielo aveva offerto quella signora. Lui l’aveva già notata altre volte quella donna; andava in quel locale, più o meno alla stessa ora, a bere un Campari. E dalla confidenza che aveva col padrone del bar, si capiva che era una cliente abituale. Ma la cosa che più aveva destato l’attenzione di Romeo, era il modo di fare e di parlare di quella signora: un po’ scurrile. E anche il suo aspetto non era da lady: una carnagione bruna troppo imbellettata su occhi e labbra, capelli troppo neri per non essere tinti, con una lunga frangetta, non abbastanza lunga per nascondere un pronunciato naso aquilino. Il corpo magrolino -di altezza sotto la media- vestiva abiti molto attillati, con calze di rete nera e scarpe con tacchi a spillo. Quando si conobbero meglio, lei gli disse l’età, trentadue, ma lui ebbe il dubbio che fosse vicino ai quaranta.
“Giuseppe! Non prendere i soldi dal giovanotto. Stasera glielo offro io l’aperitivo a questo bel biondino!”. La voce gutturale di quella signora aveva bloccato il bel biondino con i soldi in mano.
“E se permette mi presento: piacere, Donata” disse subito dopo, porgendogli la mano.
Romeo ci mise poco a capire l’antifona; anche se non aveva ancora compiuto i venticinque anni, ne aveva già viste abbastanza, e certe faccende le capiva al volo. Ricambiò le presentazioni e accettò la gentile offerta della signora; col patto che la sera successiva fosse lui a offrire. E l’indomani mantenne l’impegno: le offrì l’aperitivo al bar del Giuseppe, e anche una pizza in un locale nelle vicinanze. Poi fu lei a offrire, in una buia e appartata piazzola del parco Lambro.
E Romeo scoprì che Donata era una che ci sapeva fare. A far l’amore con lei, si sorvolava sul fatto che fosse racchia, che avesse una voce da minatore, e che usasse un parlata scurrile, come una…
Che quello era il suo mestiere, Donata glielo disse subito dopo, senza troppi giri di parole. Non è che lui pensasse che quella signora dirigesse un educandato di fanciulle della buona società, ma sentirsi sparare a bruciapelo quella notizia gli fece un certo effetto, e lei lo capì.
“Amore, guarda che non sono mica venuta con te per soldi. E’ già da un po’ che ti adocchio, al bar del Giuseppe. Mi piacevi e mi sono detta: -Dài Donata, con tutti quelli che ti devi sorbire per mestiere, uno te lo puoi anche scegliere-. Se ti sta bene, okay, altrimenti amici come prima”. Il ragionamento non faceva una grinza. Fu così che Romeo prese a frequentare Donata un paio di volte alla settimana, di pomeriggio, perché alla sera lei lavorava. Faceva la vita sulla strada Paullese che costeggia l’Idroscalo, quello che una volta veniva chiamato: il mare dei milanesi.
L’Idroscalo è un grande bacino artificiale alimentato da acque sorgive, che fu costruito nel 1930 come scalo per gli idrovolanti. Nel dopoguerra, nella stagione estiva, le sue rive si affollavano dei milanesi che non potevano permettersi il lusso di andare ai laghi o al mare. Anche lui, da ragazzo andava in bicicletta con i suoi amici a fare il bagno all’Idroscalo; e aveva anche visto più di una persona annegare in quelle acque, che formano dei pericolosi gorghi che risucchiano verso il fondo.
Negli anni Sessanta, intorno all’Idroscalo erano sorti vari locali che richiamavano la fauna notturna, compresa Donata, che verso le otto di sera si recava lì, e tornava a casa verso le tre del mattino. La donna divideva un appartamento al quartiere Lambrate con una collega, ma lì non ci portava nessuno, lei faceva l’amore in macchina. Ma dopo un po’ di tempo che si frequentavano, Donata aveva invitato Romeo a casa; col benestare della sua coinquilina, che in quei pomeriggi si faceva un giro per negozi. E fare l’amore a letto con Donata, sono cose che non si possono raccontare.
“E’ l’unica qualità che ho per piacere agli uomini, visto che il mio aspetto non è molto seducente” rispose sorridendo, quando Romeo le disse che era un’amante fantastica. Ma lui pensò che quella donna sbagliava ad avere così poca stima di sé stessa, perché era convinto che Donata fosse una donna che aveva molte altre qualità, oltre a quella del suo mestiere.
E nei successivi incontri, lui si rafforzò nelle sue convinzioni, e si appassionò a Donata non solo per certe sue doti, ma anche per quello che nascondeva dentro l’animo. Perché le donne che fanno la vita, sono abituate a nascondere certi sentimenti. Ma anche per Donata la storia con Romeo era una faccenda diversa, e in lei avvenne una specie di metamorfosi. Quando si vedeva con lui, si truccava in modo poco appariscente e si metteva vestiti sobri; e pure nel parlare usava espressioni meno colorite. Facevano anche qualche uscita pomeridiana in pubblico, cosa che lui aveva sempre evitato, perché non voleva farsi vedere in giro con una di quelle. Ma adesso non la pensava più così.
Donata, per lui non era più una di quelle, ma un’anima bella. E l’amore di quella donna sarebbe anche stato disposto a pagarlo.
“E’ il mio bambino”. Con queste parole, quasi sussurrate, Donata gli aveva porto una foto che aveva estratto dal comodino in fianco al letto. “Lo tengo in un collegio” aveva detto subito dopo. E quando aveva aggiunto: “Ho solo lui”, il suo viso aveva l’espressione di una maschera tragica. Poi si sedette sul bordo del letto, vicino a Romeo, che guardava l’immagine di un bimbo sorridente sul cavallo a dondolo di un Luna Park. Un infinito istante fermò il tempo in quella scena muta. Infine, Donata si distese sul letto in fianco a lui, in un abbraccio che raccontava tutti i tormenti del suo passato, e che chiedeva un poco di quel beneficio che una vita di donna perduta le aveva tolto.
Quel giorno, mentre Romeo si rivestiva, Donata gli aveva chiesto: “Verresti con me una domenica a trovare il mio bambino?”. “Sì” aveva risposto lui, guardandole quegli occhi quasi supplichevoli.
Quando si rividero, due giorni dopo, Romeo capì che Donata era molto inquieta, e allora, invece di restare chiusi in casa, la portò a fare un giro dalle parti di Rivolta d’Adda. Mentre passeggiavano lungo la riva del fiume, lui sentiva che Donata aveva qualche tormento, ma siccome lei taceva, non voleva forzarla a parlare. Ma alla sera, sotto casa sua, prima di scendere dall’auto, Donata gli disse tutto. Aveva paura, perché era stata pericolosamente minacciata. Ma più che per lei, aveva paura per Michele, il suo bambino. Gli raccontò che quel figlio era nato da una relazione con un bastardo che l’aveva sfruttata per anni e poi, di fronte alla responsabilità di diventare padre, se n’era andato con una collega di lei. Non prima di aver fatto di tutto per farla abortire. L’aveva persino presa a calci nella pancia, ma dopo essersi beccato una denuncia per maltrattamenti aveva preso il largo. Anche Donata aveva preso il largo, e da Brescia, suo paese natale, si era trasferita a Milano, dove aveva partorito il bimbo, che aveva subito messo in un istituto per ragazze madri.
Da allora non aveva più voluto saperne di sanguisughe, anche se ciò le aveva procurato dei grossi fastidi col racket degli sfruttatori; quella era gente che non tollerava le professioniste indipendenti, perché erano di cattivo esempio per le altre. L’avevano anche picchiata, ma lei aveva tenuto duro. Però adesso la faccenda stava prendendo una butta piega, perché nel racket erano entrati gli slavi, e quelli suonavano un’altra musica. E la notte scorsa erano andati all’Idroscalo a minacciarla. Le avevano detto che sapevano tutto di lei: l’avevano pedinata fino al collegio dove teneva il figlio, e sapevano pure del suo ganzo, il biondino. Poi le avevano messo sotto il naso l’artiglieria, dicendole che per il bene di tutti doveva mettersi sotto la loro protezione. Lei gli aveva risposto che il biondino non c’entrava niente, era soltanto un amico. Ma loro non avevano voluto sentire ragioni, se non quella che doveva mettersi sotto di loro. E quindi Donata stava decidendo di smettere con quel lavoro. Il bambino aveva sei anni e lei voleva iniziare a dedicarsi a lui come una vera madre, non voleva lasciarlo crescere in un collegio come un orfano. Le si spezzava il cuore quando andava a trovarlo, e più ancora nel vederlo piangere quando lei se ne andava dal collegio. “E’ l’unica cosa bella che ho fatto nella vita. In questi anni ho messo da parte un po’ di soldi, mi trasferisco fuori città e troverò un lavoro onesto. Me la sono sempre cavata da sola, ma adesso sento che se tu mi starai vicino, per me sarà più facile cambiare vita, specialmente per mio figlio” aveva detto asciugandosi le lacrime col dorso della mano.Era la prima volta che Romeo vedeva piangere Donata, e quel “Sì” lo disse per le ragioni del cuore.
Ma poi le ragioni della mente sopraffecero quelle del cuore, e due giorni dopo telefonò a Donata dicendole che era molto preso dal lavoro. Andava in ufficio il meno possibile, e non frequentava più il bar del Giuseppe. Le minacce degli slavi erano pensieri che lo tormentavano giorno e notte, ma il tormento più grande era quello di dire a Donata che non se la sentiva di impegnarsi con lei, e con un bambino di mezzo. Le aveva promesso che sarebbe andato a conoscere Michele; ma che risvolto avrebbe avuto questa storia, nel momento in cui si apriva un rapporto con quel bambino? Magari gli sarebbe toccato di fare le veci del padre; e che razza di padre poteva essere lui, che già non lo faceva con sua figlia; era meglio che il bimbo restasse senza padre, piuttosto che uno come lui. Ma non aveva il coraggio di fare tutti questi discorsi a Donata. In quel momento, quella donna non si meritava delle altre pene. L’unica cosa da fare era prendere tempo, non farsi vedere da lei per qualche giorno ancora. Intanto qualche idea gli sarebbe venuta. Bene o male, avrebbe trovato una scappatoia.
Erano passati altri quattro giorni, quando Romeo si fermò all’edicola sotto casa a prendere il giornale. Diede una rapida occhiata ai titoli in prima pagina e sentì il sangue gelarsi nelle vene. C’era una foto formato tessera di Donata. Il titolo dell’articolo fu come una coltellata nel cuore: Prostituta assassinata all’Idroscalo. Con la testa in pappa, invece del solito giro per clienti, girovagò come uno zombie per le campagne della Lomellina. Alla sera, invece di rientrare in ufficio, tornò direttamente a casa e si mise a letto, dicendo che non stava in piedi per i dolori, probabilmente un’ernia; e non lasciò il giaciglio per i successivi due giorni. Giorni di tormento, che cercava invano di smaltire fumando come un turco.
Uscì il lunedì mattina, ma non aveva ancora la testa per lavorare, e allora si recò all’Idroscalo. Girovagò lungo il viale dove Donata faceva il suo mestiere, ma non c’era in giro anima viva. Un deserto, come se fosse passato il ghibli e avesse spazzato via tutto, compresa la vita di Donata. C’era solo una macchina con dentro due persone, ferma a un centinaio di metri da lui. Prima non ci aveva fatto caso, ma quella Fiat Millecento grigia era dello stesso modello e colore che aveva notato nello specchietto retrovisore mentre si dirigeva verso l’Idroscalo. E adesso era lì, ferma a poca distanza da lui, con a bordo quei due tizi. Un brivido gli percorse la schiena. Forse anche lui era nel mirino di quei bastardi del racket? Salì sulla sua Seicento e prese la strada per Rivolta d’Adda, dove era stato l’ultima volta che era uscito con Donata. Pochi secondi dopo, la macchina grigia si avviò dietro di lui.
Adesso non aveva più dubbi: quei due lo avevano preso di mira. Ma che cavolo volevano ancora? Non gli bastava di avere fatto la festa a quella povera donna? E poi cosa c’entrava lui! Era così fuori di sé, che decise di affrontare quei maledetti. Si fermò di colpo sul ciglio della strada e scese svelto dall’auto, proprio nel momento in cui stava arrivando la Millecento grigia. I due tizi, presi alla sprovvista da quella manovra, lo superarono e proseguirono la marcia, mentre Romeo gli alzava un braccio col pugno chiuso e gridava: “Bastardi!”.
Il sangue gli si gelava nelle vene, prevedendo che la Millecento invertisse la marcia e tornasse verso di lui. Invece l’auto diventò un puntino scuro sul nastro d’asfalto. La camicia era madida di sudore, e le gambe quasi non lo reggevano. Rimase qualche minuto fermo in fianco all’auto, fin quando la tensione si smorzò. Poi si rimise in marcia e arrivò fin dove aveva deciso di andare: sulla riva del fiume dove era stato a passeggiare con Donata.
Ogni tanto si guardava in giro, ma quei due bastardi che l’avevano pedinato non li vide più. Passò il resto della giornata in quei posti, con l’animo a pezzi. Si sentiva addosso tutte le colpe del mondo, per essersi allontanato da Donata proprio nel momento in cui lei aveva più bisogno di lui. Tentò di consolarsi cercando di convincersi che, anche se le fosse stato vicino, il destino di quella donna era segnato, e forse ci avrebbe rimesso le penne pure lui. Ma il tormento di essersi dileguato in modo così vigliacco, prevaleva su ogni ragione. Alla sera ritornò in città e si recò in ufficio. All’ingresso la centralinista gli comunicò che il principale voleva parlargli. Romeo prevedeva già la sinfonia che gli avrebbe suonato il titolare: calo delle vendite. Quella storia con Donata lo aveva sottratto al suo lavoro, e il capo aveva le sue buone ragioni; ma sorbirsi adesso certe prediche, non era proprio il momento. Alla centralinista disse che non stava bene, e rimandò il tutto all’indomani.
Stava per uscire quando lei lo richiamò. “Me ne stavo dimenticando, c’è qui un biglietto per lei”. Poi, porgendogli un foglietto, gli disse che nel pomeriggio era passato un tipo piccoletto coi baffetti neri, che senza presentarsi le aveva chiesto se per caso lavorasse lì un biondino alto e magro, sui venticinque anni, che aveva una Fiat Seicento azzurra. Lei gli aveva risposto che non era autorizzata a fornire informazioni sui dipendenti; casomai poteva tornare verso sera, che avrebbe trovato il principale. Allora l’ometto aveva scritto qualcosa su un foglietto e l’aveva dato all’impiegata, pregandola di consegnarlo al biondino. Romeo prese il foglietto e lo lesse: c’era solo un numero di telefono e un nome: Nardò.
-Il fondo non esiste. Quando pensi di averlo toccato e che potrai solo risalire, ti accorgi che sotto di te c’è ancora il baratro-. Questo stava pensando Romeo quel martedì mattina, seduto davanti a una sgangherata scrivania nera, sulla quale c’era il caos: una pila di cartelline da cui strabordavano alla rinfusa fasci di fogli, un telefono nero scolorito da decenni di uso, due pacchetti di Nazionali senza filtro che inneggiavano al fumo, un portacenere di bachelite rossa con la reclame del Campari soda, strapieno di mozziconi che esalavano un rancido puzzo di tabacco. Tra quel caos c’era una targhetta di plastica bianca ingiallita di nicotina, su cui c’era scritto: Commissario Nardò. Il quale, dalla parte opposta della scrivania, stringendo tra le labbra una delle sue puzzolenti sigarette, lo guardava con aria sorniona e gli faceva domande come se parlasse del tempo che fa. La testa del commissario, dai radi capelli neri stirati all’indietro da una patina di brillantina, emergeva poco sopra il piano della scrivania. Sul gobbo gli pesavano una sessantina d’anni, e un milione di brutte storie.
Gli occhi da faina che ti penetravano fin dentro l’anima, e il caustico sorriso sotto i sottili baffetti scuri, davano la certezza che lui, dopo una vita passata a radiografare le coscienze di ogni genere umano, le palle le fiutava come un cane da tartufi fiuta la trifola. E palle, Romeo non ne cacciò. Anche perché il commissario sapeva già molte cose su di lui. Come e quando aveva conosciuto Donata, glielo aveva detto il barista Giuseppe, che gli aveva pure rivelato dove lavorava il biondino. Ed era tutto confermato dalla collega di Donata, che aveva riferito al commissario anche quella faccenda delle minacce che la sua amica aveva ricevuto da quelli del racket. Ed era in quella direzione che il commissario stava indagando. “Quindi, caro giovanotto, stia rilassato -aveva detto il Nardò- perché lei non è tra i sospettati; però magari può fornirmi qualche informazione, qualche piccolo particolare che può sembrare insignificante, e che invece può far quadrare il cerchio”.
E che non si facesse scrupoli a spiattellargli ogni dettaglio della sua relazione con Donata, dato che pure il commissario era un uomo, e capiva come vanno certe faccende della vita… Riguardo a sua moglie, il biondino poteva stare tranquillo, perché se lui collaborava, il commissario poteva evitare di convocarla e metterla al corrente della storia; meglio risparmiare certi dispiaceri alle persone care. Sarebbe rimasto tutto nel segreto di quel confessionale. E Romeo confessò tutto. Compreso il progetto di Donata di cambiare vita, trovare un lavoro onesto e dedicarsi a suo figlio. Quel povero bimbo, che lui manco sapeva dove fosse. Doveva andarlo a trovare con Donata, e invece…
Chissà se c’erano dei parenti che si sarebbero occupati di quella povera creatura…
“Forse lei ne sa qualcosa, signor commissario?”. Nardò scrutava, annotava, ma non rispondeva.
I commissari sono lì per fare domande, non per dare risposte. Infatti domandò a Romeo che cosa ci fosse andato a fare il giorno precedente all’’Idroscalo. Quella domanda fece sobbalzare dalla sedia Romeo, perché se il commissario era a conoscenza che si era recato all’Idroscalo… Rispose che era andato in quel posto, così come si va al cimitero, per commemorare quella povera donna nel luogo dove aveva perso la vita. E gli dispiaceva di essersi scordato di portare un fiore …
“Ma mi permetta, signor commissario, se lei sa del mio pellegrinaggio all’Idroscalo, quei due tizi a bordo della Millecento grigia, erano forse dei poliziotti in borghese mandati da lei per pedinarmi?”. Ma i commissari non sono lì per dare risposte.
Quando il commissario congedò il biondino, era barricato dietro la scrivania con la testa chinata sui suoi appunti e una Nazionale tra le labbra.
E ignorando la mano che Romeo gli aveva teso, mormorò soltanto: “Giudizio figliolo”.
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