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Dalle due alle cinque

Dalle due alle cinque

di Giulio Ghirelli

Se andava avanti così, gli esami della terza media non li avrei passati. Le cose si erano messe molto male riguardo ai miei profitti scolastici, e la mamma, che aveva poca voglia -e pazienza- di mettersi diverse ore al giorno a controllarmi negli studi, non trovò di meglio che chiedere alla signora Rossi di occuparsi di me. Pensando che la signora, con la cultura e la pazienza dei solutori di cruciverba, sarebbe stata la persona giusta per seguirmi nei compiti scolastici.
La signora Rossi abitava al primo piano della facciata di fronte a noi, che era l’ala elegante del fabbricato, senza ringhiera e con l’ingresso dalle scale. Due piani sopra ci abitava la mia coetanea Wilma, che forse era responsabile dei miei scarsi profitti scolastici, avendo io la mente ingarbugliata a causa di quella cicciottella ragazzina coi boccoli castani, e mi concentravo poco sullo studio.
E siccome la Wilma mi rispondeva sempre picche, la mia mente era ancor più ingarbugliata.
La signora Rossi, sulla sessantina, aveva i capelli tinti di biondo sempre freschi di permanente, e divideva la sua dimora con il suo adorato cagnolino Willy, un piccolo meticcio che aveva un riccio pelo marrone che era tale e quale a quello della pelliccia che usava d’inverno la sua padrona; e io, nella mia stupidità, ero convinto che quel cagnetto fosse di una razza pregiata per fare le pellicce. 
La signora risparmiava nelle stoffe per i vestiti, dato che coi tacchi non arrivava al metro e trenta.
Era una donna che passava per istruita, poiché impegnava tutta la sua giornata, salvo le brevi uscite per i bisognini del cane, a fare parole crociate, anagrammi e rebus.
Anche la sua vita era un rebus: nessuno della casa sapeva se avesse avuto un marito; ma certamente qualcuno era entrato nel suo letto almeno un paio di volte, dato che aveva due figli.
Un maschio di una quarantina d’anni che non si vedeva mai, e che le voci dei pettegoli sussurravano che avesse domicilio in un protetto e gratuito alloggio in città, con ingresso da piazza Filangeri: cioè il carcere di San Vittore.
E una femmina, Renata, una bionda vamp alta e formosa sui trentacinque anni, con un fisico che era stato calorosamente applaudito sui palcoscenici dei teatri di varietà. Si raccontava che avesse fatto la soubrette persino nella compagnia teatrale del famoso Macario.
Pettegolezzi anche sulla bionda: si diceva che ormai le gambe della vamp erano più avvezze a fare i gradini dei pied-a-terre di facoltosi signori, che non quelli delle scalinate dei palcolscenici.
La Renata appariva rare volte con delle grosse valigie, e dopo un paio di giorni ripartiva; lasciando nel cortile un’inebriante scia di profumo di soubrette. Però, prima di ripartire, faceva una capatina a porgere un saluto al signor Rovida, l’anziano proprietario del cinema Rosa in via Canonica.
Il cinema Rosa era un locale di infima categoria -due film ottanta lire- frequentato da una varietà di personaggi che comprendeva gli ubriaconi che venivano a smaltire le sbornie accovacciati sui duri sedili di legno, e qualche pedofilo che allungava le mani sui ragazzini soli. Io e la mia sorellina non correvamo rischi, perché con una marescialla come la nostra mamma, eravamo ben protetti.
Ho passato metà dei miei verdi anni in quel cinema, poiché era l’unico svago che le finanze di casa nostra potevano permetterci. Ci andavamo un paio di volte alla settimana, e passavamo quattro ore, che il giovedì diventavano sei, perché il signor Rovida, per non perdere i clienti del giovedì sera, che andavano nei bar dove c’era la tivù che trasmetteva Lascia o raddoppia?, si era attrezzato di un macchinario che proiettava in diretta quello spettacolo sullo schermo del cinema.
Quindi, il giovedì sera, la mamma preparava sei michette ripiene di salumi, e alle cinque e mezza uscivamo da casa e ci recavamo al cinema Rosa. E intanto che sgranocchiavamo le nostre michette, vedevamo il primo film, poi Lascia o raddoppia? e infine il secondo film.
E uscivamo dal cinema verso mezzanotte. Capitava che la mamma dovesse fare tutta la strada fino a casa con in braccio la mia sorellina, che era già da un pezzo nel mondo dei sogni.
Il signor Rovida era stato un frequentatore dei teatri di varietà e lì aveva applaudito la Renata.
Pettegolezzi anche sul genere di rapporto che c’era tra la soubrette e il signor Rovida.
Fatto sta che la vamp, dopo le visitine al padrone del cinema, ritornava a casa con un mazzetto di biglietti d’ingresso, prezioso vitalizio per la signora Rossi; e pure per noi, dato che ce ne regalava parecchi.
Un altro rebus riguardo la signora Rossi, era quali fossero i suoi proventi, dato che non lavorava e nessuno sapeva se e quale lavoro avesse mai fatto. E siccome occupava un appartamento grande con due stanze da letto e con i servizi dentro casa, non doveva passarsela male, dato che era sempre ben vestita e spendeva un po’ di soldi per la parrucchiera e per le riviste enigmistiche.
Contando sull’amicizia, oltre alle consulenze di mio papà carabiniere riguardo a un certo inquilino di San Vittore, la richiesta fatta da mia mamma alla signora Rossi -per seguirmi nei miei compiti scolastici- venne accolta. Orario: dalle due alle cinque.
Così dovetti dire addio ai pomeriggi sui giardinetti di via Poliziano e ai giretti in bicicletta a Trenno.
Tutto finito! E per colpa di quel malefico foglio verdolino con scritti sopra quei miseri voti.
Ma cosa aveva al posto del cuore, colui che inventò le pagelle? E l’usanza di dare voti e sentenze ogni anno? Non si può far tutto in una volta sola? Tu vai a scuola, elementari, medie, magari anche superiori, e poi alla fine, insieme alla cartolina per il militare, ti danno il pagellone e fanno due file: geometri di qua, falegnami di là. Ma quanti geometri avrà avuto Ulisse per fare il cavallo di Troia?
Ci saranno pur stati anche i falegnami, no? E Giuseppe, il marito della Beata Vergine, non faceva il falegname? E lo  avevano fatto pure Santo! E a me, di fare il falegname non mi sarebbe dispiaciuto.
Quando andavo a casa del mio amico Diego, che abitava sotto di me -al terzo piano- mi divertivo un sacco a ritagliare le assicelle col suo gioco del Traforo.
Con queste commiserazioni, suonavo il campanello in fianco alla targhetta con scritto: Rossi, e poi percorrevo il lungo corridoio che mi portava fino al tavolo penale: quello della cucina della signora.
E a peggiorare la situazione, ci si metteva pure la Wilma, che quando mi incrociava sulle scale mi chiedeva con aria di sufficienza: “Vai a ripetizione?”.
“Al diavolo i compiti!” avrei voluto dirle, dato che mi si offriva l’occasione di vederla lì da sola, a quattro piani dal solaio…
“Dài Wilma, andiamo a esplorare il solaio”  avrei voluto proporle. E invece no, mondo crudele!
Perché la signora Rossi, ligia ai suoi doveri, quando mi vedeva attraversare il cortile, era già dietro alla porta a contare quanti secondi ci mettevo a suonare il campanello.
“Al diavolo i compiti!” avrei voluto dire alla Wilma, invece di annuire mestamente con la testa.
Sono le due.
La finestra aperta nella cucina della signora Rossi è un ottimo punto di osservazione: si vede la portineria e tutti quelli che entrano ed escono dalla casa.
La sciura Colomba sta trafficando con le verdure per il minestrone. La portinaia e la sua famiglia sembrano personaggi dei quadri di Botero, piccoli, tondi e rubizzi. E mangiano sempre minestrone.
Come fanno ad avere quelle facce rubiconde ed essere tra i migliori fornitori dell’AVIS, mangiando sempre verdura? Fanno così tanto sangue, cavoli e patate?
Alzando lo sguardo, vedo tutti i pianerottoli della mia scala; al secondo piano ci sta il Mamo -figlio del fornaio- che ha il calcio-balilla. Si sente il rumore della pallina e le urla dei ragazzi: “Goool!”.
“Signora Rossi, che ore sono?”.
“Le due e mezza, nani; ma cosa ti interessa delle ore? Studia!”.
“Nani a me, e lei allora?” sarei tentato di risponderle.
Ma la mia mamma mi ha detto di essere educato con la piccinina, altrimenti non ci dà più i biglietti per il cinema. Però a me non piace per niente quel nani; è come dire: piccino, cocchino, tesorino… roba da asilo infantile. Sono alto quasi un metro e ottanta e lei mi dice nani…
Al piano sotto del Mamo abita la Carluccia, della stessa età della Wilma e sua grande amica.
Le due ragazzine sono sedute sul pianerottolo davanti alla porta dell’abitazione della Carluccia, armate di forbici, aghi e pezzi di stoffa. Fare i vestiti alle bambole è il loro passatempo preferito.
La Carluccia è una lasagnina lunga e magra, con un faccino bianco che sembra le abbiano passato una mano di biacca. Forse se mangiasse i minestroni della sciura Colomba…
Nonostante che quel fustaccio di Enzo le abbia dato il due di picche, la Carluccia continua ad essere innamorata di lui.
Adesso saranno le tre. Perché sento il rumore della Fiat Topolino del signor Mariani, il padrone dello stabile, che a quell’ora esce dal cortile per portare il figlio Giorgio al campo da tennis.
Dal terzo piano mi arrivano le note della fisarmonica di Diego, che sta facendo i suoi solfeggi.
Il ragazzo, della mia stessa età, non viene mai in strada a giocare con noi, perché sua mamma ha paura che si faccia male. Diego non ha mai conosciuto suo papà, e vive da solo con la mamma, che lo tiene custodito come in una campana di vetro. Ha i capelli biondi, e lunghi come quelli delle bambine, e la sua mamma, con un ferro caldo gliene arrotola una ciocca sulla fronte, facendogli un grosso boccolo, detto banana.
Lei lavora in casa, cavandosi gli occhi a ricamare giorno e notte vestiti per le signore ricche, e si svena per non far patire privazioni al figlio, dato che già gli è toccata quella del padre.
Saranno già le tre e mezza?
Per non fare rimanere sempre da solo Diego, sua madre mi permetteva di andare a casa sua. Era un gran divertimento giocare col Traforo o col Meccano; ma quello che mi teneva incantato in quella casa erano i suoi esercizi con la fisarmonica; sarei stato ad ascoltarlo per delle ore.
Alla domenica, a casa di Diego ci sono gnocchi fatti in casa da sua mamma, conditi con un sughino di pomodoro che sono una bontà, e ogni tanto mi invitavano a mangiarne un piatto.
Poi successe un guaio: un giorno che la mamma di Diego era uscita per consegnare un vestito, a me venne la malsana idea di fare un gioco nuovo: io ero il barbiere e il mio amico il cliente. Ero andato nel suo bagno a prendere un asciugamano, e mimando il gesto professionale del figaro, lo avevo steso sulle spalle di Diego; poi avevo preso una forbice dal tavolo di lavoro di sua mamma, quindi con due dita avevo stretto la banana e con un colpo di forbici: zac!
Solo quando il biondo boccolone mi rimase tra le dita, realizzai di aver fatto qualcosa che non andava; allora mollai forbice e banana, e me la filai a giocare ai giardinetti.
Ma alla sera, quando tornai a casa, mia madre me ne diede un sacco e una sporta. E la mamma di Diego mi proibì di mettere ancora piede in casa sua.
Alzo la testa fino al quarto piano e vedo mia mamma sul pianerottolo a stendere della biancheria. Lei guarda verso la finestra della cucina della signora Rossi, e io abbasso svelto la testa sul libro.
Saranno già passate le quattro.
La signora Rossi tira fuori una sigaretta da una vecchia scatoletta di latta, e con una lametta la taglia in due. Chissà perché fuma mezza sigaretta alla volta? Sarà perché anche lei è mezza?
“Signora Rossi, me ne dà metà anche a me?”.
“Nani, ma sei matto?”.
“Ma io ho già provato a fumare!”.
Lei mi guarda indecisa per qualche secondo e poi: “Me racumandi! Che vegna minga a savèll la tua mamma…” mi dice mentre mi allunga un mozzicone.
Con l’aria dell’incallito fumatore, accendo il mozzicone e aspiro una boccata. Sento un pugno alla bocca dello stomaco; ma che schifezze fuma la signora Rossi? Faccio un altro tiro e incomincia a girarmi la testa.
In cortile i bambini più piccoli stanno rincorrendosi nel gioco di tighelett; uno è caduto e si è messo a frignare. E’ il Renatino, il figlio più piccolo della famiglia Righetti, che sta al piano sotto di noi.
La portinaia corre fuori a soccorrerlo.
La mamma del Renatino è un bel peperino. Una volta, lei e mia mamma si sono prese per i capelli, a causa della nostra biancheria stesa sulla ringhiera, che bagnava quella della signora Righetti.
Tiro un’altra boccata e mi viene da vomitare; allora spengo il muccio.
“Signora Rossi, ma non sono ancora le cinque?”.
“Non ancora nani, dài, studia ammò un cicinin”.
Uffa! Ma va a carbonella l’orologio della nana?
Lancio una furtiva occhiata alla Wilma e alla Carluccia, che sono ancora impegnate con aghi e filo.
La Wilma ha un bel sederone tondo, e anche davanti è bella rifornita; invece la Carluccia è piatta come una tavola piallata.
“Signora Rossi, perché alla Carluccia non le crescono le tette?”.
La donna alza gli occhi e mi scruta con aria sconcertata, poi guarda il suo orologio.
E mentre riabbassa lo sguardo sul cruciverba, dice: “Vai nani, che sono quasi le cinque”.

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