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Cuore di Birba

Cuore di Birba

di Giulio Ghirelli

«… Il signore misterioso si chinò sul cane, con uno scintillìo degli occhi cerchiati d’oro, ed estrasse dalla tasca destra il pacchetto bianco e oblungo. Senza togliersi i guanti marrone, aprì il pacco -la carta fu subito preda della tormenta-, staccò un pezzetto di salame, tipo Cracovia-extra, e lo diede al cane.
“Che uomo generoso! U-u-u-uh!…”.
“Ffih, ffih” fischiettò il signore e aggiunse con severità: “Tieni, Pallino, tieni!”.
“E dàgli con questo Pallino. Mi hanno battezzato! Ma non importa, chiamami come vuoi, visto che mi hai fatto il più bel regalo del mondo!”.
Il cane strappò in un baleno la pelle del salame, con un singulto affondò i denti nel Cracovia-extra e lo trangugiò. Il salame, misto a neve, gli andò di traverso: nella furia, per poco non aveva mandato giù anche lo spago e gli vennero le lacrime agli occhi.
“Prendi, ti lecco la mano di nuovo, ti bacio l’orlo dei calzoni, mio benefattore!”.
“Per ora basta…”. Il signore parlava a scatti, come se impartisse ordini. Si chinò su Pallino, lo fissò negli occhi e a un tratto, con gesto tenero e pieno d’intimità, passò la mano guantata sul ventre dell’animale.
“Bene -mormorò in tono significativo- niente collare, quindi fai proprio al caso mio. Vieni”. Uno schiocco delle dita. “Ffih, ffih”.
“Seguirti? Ma anche in capo al mondo. E prendimi pure a calci con queste tue belle scarpe, tanto non aprirò bocca!”.
Lungo l’intera Precistenka splendevano i lampioni. Il dolore al fianco era insopportabile ma Pallino a momenti quasi non lo sentiva, assorto com’era in un unico pensiero: non perdere di vista, nella calca, la sua magica visione impellicciata ed esprimerle in qualche modo amore e devozione…»
A questo punto del romanzo Cuore di cane -di Michail Bulgakov- ho pensato con nostalgia a una bastardina di nome Birba, che in fatto di amore e devozione è stata incomparabile.
Anche la Birba era un cane randagio come Pallino, e quando mia figlia Monica si era presentata a casa mia dicendomi che aveva raccattato per strada quello sgorbio di cane, ma il regolamento della casa dove abitava non le permetteva di tenerlo, e mi aveva detto: “O lo prendi tu, oppure…”, avevo avuto la certezza che per me non ci sarebbe stata alcuna via di scampo. E con l’euforia di chi ha un fucile puntato alla schiena, avevo alzato le braccia in segno di resa.
Fino ad allora, avevo convissuto con vari animali: un cane dalmata con la pezzatura bianconera e un’aria snob, che di nome faceva Barabba. Affiancato da una lupacchiona di nome Bessi, che anni prima avevo raccolto randagia dalla strada. Insieme a loro: un gattone che sprecava la sua vita in posizione di sfinge sul piano della cucina -immobile come un soprammobile- che mia moglie aveva battezzato con un nome insignificante come l’espressione del gatto: Micio. Infine, una gatta nera dell’età di Matusalemme, di nome Sofia, che viveva in ascetica solitudine in una stanzetta; però, a differenza di Micio-sfinge, si muoveva bene, e a vent’anni zompava ancora fin sopra l’armadio.
Nel corso degli anni, chi per malattia, chi per vecchiaia, questi animali erano passati tutti a miglior vita, e io avevo sentenziato che con gli animali avevo chiuso.
E invece mi ero ritrovato a guardare con avversione quella sgraziata bestia tutta pelle e ossa e col pelo arruffato, marchi della sua vita raminga, chiedendomi perché fosse toccata a me quella sorte.
Anche la bestia -che mia figlia aveva battezzato Birba- mi guardava allo stesso modo, e forse si stava facendo la medesima domanda.
Alla sera, quando tornavo dal lavoro, mi accoglieva ringhiando e digrignando i denti, e l’unica benevolenza che aveva per me era quando le riempivo la ciotola.
Poi, con un po’ di vergogna nell’esibire in pubblico un simile sgorbio, incominciai a portarla a gironzolare fuori casa; e sarà stato anche per queste intime passeggiate serali, che il nostro rapporto si fece più benevolo. E anche il suo aspetto migliorò un poco, grazie alle frequenti toelettature e alle abbondanti ciotole che si sbafava. Dato che abbaiava troppo nello stare in casa da sola, e siccome la mia attività di artigiano me lo permetteva, iniziai a portarla al lavoro con me.
E da allora il nostro rapporto si fece più stretto, fino a diventare un legame indissolubile. Pur di seguirmi, si adattava a qualsiasi situazione: la portavo con me quando andavo a fare le consegne col furgoncino, e avrei potuto stare in viaggio per giorni interi, che lei non dava segni di insofferenza. Quando facevo i lavori di contabilità in ufficio, la Birba si metteva sotto la scrivania e non si muoveva più da lì. Solamente quando facevo i miei esercizi di violino, lei prendeva il largo. Quando, nella pausa di mezzogiorno, sentiva fermarsi i macchinari dell’officina, usciva da sotto la scrivania e mi guardava con aria interrogativa; se vedeva che aprivo la custodia del violino, andava davanti alla porta in attesa che le aprissi l’uscio, e filava fuori in cortile, aspettando con pazienza la fine delle mie sviolinate. A parte questa insofferenza, era disposta a tutto nei miei confronti.
Stava rassegnata nel lavello quando le facevo il bagno, e altrettanto quando l’asciugavo col fon. Quando le accorciavo il pelo che le cresceva a dismisura, stava immobile in qualsiasi posizione la mettessi: sdraiata, di fianco, supina, con le zampe sollevate; e ce ne mettevo del tempo per tosarla!

Quando ci trasferimmo alla Cala, la Birba rivelò caratteristiche che si adattavano bene con il luogo. Se lavoravo nell’orto o in giardino, lei si piazzava sul balzo più alto del prato, e da lì i suoi occhi scuri controllavano il territorio; quando uscivamo con la barca, era la prima a salire, e se ci fermavamo al largo a fare un bagno, lei si tuffava in acqua insieme a noi.

Tutte le volte che percorrevamo il sentiero, se c’era qualche altra persona con noi, la Birba faceva la spola avanti e indietro per verificare che ci fossimo tutti; e se qualcuno si fermava, lei lo segnalava, come fa il cane da pastore col gregge. Era talmente attaccata a me, che la volta che partii di fretta con la barca per andare a fare una commissione in paese e la lasciai sulla spiaggia, quando tornai a casa mia moglie mi disse che, affacciandosi dalla terrazza, aveva visto una macchia scura in mare: era la Birba che nuotava seguendo la scia della mia barca!Tutte le volte che prendevo le chiavi della cantina, la Birba si piazzava davanti alla porta di casa e scodinzolava festosamente, perché da quando l’avevo portata con me a imbottigliare il vino e ne aveva assaggiato un sorso versato a terra nel travaso, per lei andare in cantina era festa grande!
Anche col cibo somigliava più a una persona che non a un cane: non disdegnava neppure verdure crude, arance, e persino cetrioli sott’aceto! Una volta mi ero recato nell’orto di Giovanni a prendere un po’ di fave; sbucciai un baccello e diedi il contenuto alla Birba, che lo mangiò golosa.
Giovanni era allibito e le disse in tono divertito: “Che bella novità! Adesso mi tocca mantenere pure te, oltre che il tuo padrone?”.
La notte che affrontai il mare in burrasca per andare a soccorrere dei turisti tedeschi, seppi poi da mia moglie che la Birba era rimasta sulla spiaggia accanto a lei, nonostante le avesse ordinato di restare al sicuro in giardino. E il giorno dopo, vedendomi seduto sulla panchina fuori casa, afflitto per la mia disavventura del naufragio, la Birba si sedette davanti a me e non mi distolse il suo sguardo fin quando, diverse ore dopo, mi ripresi dallo sconforto e mi dedicai ai lavori dell’orto.

Ricordo bene il suo sguardo di quel giorno, e non riesco a fare a meno di pensare che i suoi occhi condividessero il mio stato d’animo.
Per più di dieci anni la Birba è stata una fedele compagna, e non smise di seguirmi come un’ombra neppure quando il suo cuore si ammalò.
Quel cuore che aveva speso tutto per il suo padrone, e che si arrestò una notte ai piedi del suo letto.

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