di Sergio Scuffi
dorp, fén de bosc-ch e föia de vinscèl
Non dico niente di nuovo ricordando le difficoltà economiche delle nostre famiglie dei tempi passati. I miei ricordi sono legati all’immediato dopoguerra, con tutti i problemi connessi con il difficile riprendere della vita dopo i disastri del conflitto: in primo luogo, la mancanza di lavoro e, quindi, la necessità di provvedere al fabbisogno familiare assolutamente ed esclusivamente con quanto si poteva ricavare dalle misere risorse locali.
In altre parole, salvo pochi casi, non si poteva contare su entrate in denaro regolari e continue, considerato che le attività lavorative erano molto ridotte, il più delle volte di durata limitata e riguardavano comunque uno, o pochi, membri della famiglia. Pertanto, in mancanza quasi cronica di denaro, la sopravvivenza della famiglia dipendeva dalla capacità di procurarsi l’essenziale attraverso il lavoro della terra e la cura degli animali.
Fin qui, per molti, niente di nuovo.
Quello che forse non tutti sanno è che l’impegno di grandi e piccini non si esauriva con il normale lavoro dei campi, la cura delle bestie, la raccolta di legna, castagne, fogliame nei boschi, ma si estendeva a tutti i momenti, le stagioni e luoghi, non lasciando che rari momenti di riposo e svago (e forse proprio per questo, in quei momenti, si era felicissimi del poco che si aveva, apprezzando e gustando la compagnia, lo stare insieme, il divertirsi con povere cose).
Alcuni esempi di attività.
dorp
A giugno, sul maggengo (noi eravamo a S. Teresa) mentre si portavano le mucche al pascolo si provvedeva a togliere la corteccia alle betulle; questa, arrotolata e legata in mazzetti, serviva egregiamente per accendere il fuoco. Tale era la sua utilità che i mazzetti venivano portati, l’estate, anche sull’alpe Campo; i pezzi più belli e regolari si utilizzavano addirittura, a mo’ di tovagliolo, per deporvi sopra i pannelli di burro conservato al fresco nel “casèl”. Questi pezzi di corteccia venivano chiamati “dorp”; chi guarda con attenzione, può ancora riconoscere le betulle che hanno subito questo trattamento, in quanto la loro corteccia, ricresciuta, non ha più la caratteristica colorazione bianca ma è più scura, quasi nera, presentando le caratteristiche cicatrici a fasce orizzontali ben riconoscibili su tutta la parte del tronco interessata.
fén de bosc-ch
Sull’alpe la vita della famiglia si concentrava attorno alla cura delle mucche. Quotidianamente bisognava accompagnarle al pascolo e “curarle”, compito, questo, che generalmente spettava a noi ragazzi. Mattina e sera i grandi provvedevano alla mungitura e, periodicamente, alla lavorazione del latte (la “casèda”) per ricavarne burro e formaggio, oltre a tutti gli scarti che non andavano perduti perché servivano per l’alimentazione dei maiali (in particolare il “seron”).
Senonchè, mancando assolutamente prati che permettessero una adeguata provvista di foraggio, si poneva il problema di provvedere all’alimentazione delle bestie per tutti i periodi di maltempo che anche nei tempi andati si presentavano con una certa frequenza, talvolta duravano parecchi giorni e, come è facilmente intuibile, data la rigidità del clima a quelle altitudini, impedivano qualsiasi forma di pascolo (non era infrequente alzarsi ed assistere ad inattese imbiancate di neve). Ecco allora le donne armarsi di falcetto (“seghazz”) e campaccio, inoltrarsi nei boschi di larici e tagliare pazientemente, fino a farne un grosso carico, l’erba che vi cresce spontaneamente: fén de bosc-ch. Ponendosi sulla schiena questo pesante carico di erba verde, spesso attraverso passaggi impervi e pericolosi, la trasportavano nei pressi dell’abitazione, spargendola sopra dei massi a seccare. Da questo momento per noi ragazzi cominciava l’impegno di custodire il “fen” evitando che diventasse facile pasto per pecore, capre ed altre bestie che si trovavano spesso nei dintorni. Ad essicatura completata, il fieno veniva stivato sotto i rustici letti (“grool”): dei tralicci fatti con tronchi di larice e posizionati ad una discreta altezza, sotto i quali, a volte, mi ricordo di aver visto stazionare anche piccoli animali domestici, tipo galline o simili. Annualmente, appena “caricato” l’alpe, un po’ di questo fieno veniva utilizzato per rinnovare il “materasso”!
E’ facile immaginare come tale foraggio venisse somministrato alle povere bestie in rarissime occasioni e con molta parsimonia (“par un besogn”) e non certo per uno o due giorni di pioggia, nel qual caso, anche a loro, toccava tirare la cinghia!
föia de vinscèl
Sempre in tema di alimentazione delle bestie, bisogna tener conto che questa necessità impegnava costantemente la famiglia, se si considera che proprio dal loro numero, dalla quantità di latte, carne, capretti, uova che potevano fornire dipendeva alla fine il tenore di vita di ciascun nucleo.
Ed anche in questo caso le disponibilità di foraggio erano cronicamente scarse, se si considera che occorreva strapparlo con le unghie a terreni di dimensioni piccole, molto frazionati, sicuramente molto sparsi e collocati in località poco produttive quali vigneti, margini di boschi e selve di castagni. Ecco allora aguzzarsi l’ingegno. Riservato il fieno dei prati più belli (generalmente nel “piano” come viene indicata la piana della Mera) all’animale più importante, la mucca, si cerca di integrare l’alimentazione di capre e pecore “scalvando”, ossia potando roveri, frassini ed altre piante a portata di mano, generalmente collocate ai margini di prati e “giavere”. I rami venivano legati a mazzi ed accatastati sotto tettoie o sulla terrazza rustica (la “lobia”) a seccare: durante l’inverno, poste nella mangiatoia, le foglie secche, ed anche un po’ della corteccia, diventavano alimento per capre e pecore; dopodichè, rimaneva ancora il fascio di legna secca per alimentare il fuoco: anche qui, nessuno spreco.
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