di Giulio Ghirelli
Oggi è uno di quegli uggiosi giorni di gennaio in cui, con una comoda felpa addosso, mi accuccio sulla mia poltrona preferita con un libro in mano.
Invece sono vestito di tutto punto in attesa che arrivi Michi, con la quale andrò a vedere una mostra fotografica a Palazzo Morando, intitolata: Milano tra le due guerre. Alla scoperta della città dei Navigli attraverso le fotografie di Arnaldo Chierichetti.
Mentre aspetto l’arrivo della mia amica, rileggo alcune note del catalogo che mi sono procurato: “Arnaldo Chierichetti (Milano 1887-1975) cominciò a lavorare giovanissimo nella ditta ottica Fratelli Brenta sita in Corso Vittorio Emanuele. Nel 1907 si licenzia per passare alla prestigiosa azienda Duroni e Murer, specializzata anche in fotografia.
Dopo avere acquisito le più ampie conoscenze nel campo ottico, chimico e fotografico, nel 1914 Arnaldo decide di aprire l’Ottica Chierichetti, con sede in Corso di Porta Romana 76. In quegli anni diventa animatore della vita sociale milanese. Socio della Canottieri Milano e della Società Escursionisti Milanesi, con le quali si rende protagonista di imprese memorabili, tra cui il raid Milano-Zara con una barca del tipo Jole a quattro remi. Già dalla prima giovinezza affianca al lavoro la passione per la fotografia, che non lo abbandonerà per tutta la vita.
Parlare di Arnaldo Chierichetti nella Milano contemporanea, significa richiamare alla memoria uno dei più antichi negozi della città, che nel servire intere generazioni di milanesi è diventato parte integrante della memoria cittadina. Pronunciare il nome di Arnaldo Chierichetti ai milanesi di molti decenni fa, significa evocare l’immagine del reporter che armato di macchina fotografica ha testimoniato i mutamenti della città. Nelle 140 opere esposte a Palazzo Morando, si riscopre tutta la bellezza della città dei Navigli non ancora asfaltati, il fruscio delle barche sulle loro acque, che Chierichetti, appassionato canottiere, immortalò mille volte.
Dal Naviglio in via San Damiano, dove era situato l’artistico Ponte delle Sirenette (oggi visibile al Parco Sempione), ai Navigli di Porta Ticinese, e a tutti gli altri che erano le vie d’acqua della città. Antiche vedute che inducono a un’inevitabile nostalgia”.
Suona il campanello, vado ad aprire la porta e accolgo Michi con un: “Ciao bedda mia”. A lei viene da sorridere, e pure a me, perché entrambi stiamo pensando alla stessa cosa.
Michi è un’amica storica, visto che sono più di trent’anni che ci conosciamo, e ormai siamo legati a doppio filo, amichevolmente parlando. Al punto che abbiamo fatto un patto di mutua assistenza per la vecchiaia, denominato: Passeggiata ai giardini pubblici in carrozzella. (Spero che Michi faccia qualche lezione pratica, perché se dovesse spingere la carrozzella come guida l’auto…). Michi è stata una viaggiatrice avventurosa, nel senso che ha fatto viaggi in condizioni estreme: in cammello nel deserto bivaccando all’aperto nel sacco a pelo, piuttosto che nell’Africa nera dormendo sul tetto della jeep. E per viveri: razioni Kappa, quelle da sopravvivenza. Ma lei non ha problemi, le basta una galletta. E io ne so qualcosa…
Con Michi abbiamo passato delle memorabili vacanze all’isola d’Elba.
E abbiamo fatto anche dei bei viaggi, tra cui uno
indimenticabile a Petra,
in Giordania.
Ma quello a cui siamo più affezionati fu il viaggio che facemmo in Sicilia nel 1982 col mio furgoncino Ford Transit attrezzato alla bell’e meglio a camper, nel senso di un materasso e un fornellino Camping Gaz.
Mia moglie ed io dormivamo sul furgone, invece Michi dormiva in una piccola tenda da campeggio. Viaggiavamo alla maniera degli hippie, e non potevano mancare le razioni Kappa fornite da Michi. Però alla sera ci strigliavamo, ci mettevamo in ghingheri e andavamo in vita, cioè una cena umana nelle trattorie che sceglieva Michi, ossia le più a buon mercato. A proposito di razioni Kappa, merita che io faccia un cenno alle vessazioni alimentari a cui sono stato sottoposto da questa spartana compagna di viaggio.
Eravamo da poco sbarcati in Sicilia, e siccome faceva molto caldo, l’idea di una merenda con una bella fetta di anguria fresca era molto allettante. Così ci fermammo a un chiosco e ne prendemmo una bella grossa e fresca. Troppo grossa e neanche più tanto fresca, il mattino dopo per colazione, e a mezzogiorno era ormai una pappa tiepida… Insomma, ogni volta che c’era da mettere qualcosa nella panza, Michi tirava fuori i resti dell’anguria dicendo: “Così averne, nel deserto, di questo ben di Dio”. Ma ormai il ben di Dio si era ridotto a una repellente sbobba calda che meritava solo una degna sepoltura. Cosa che io feci, inumando furtivamente i resti dell’anguria sotto la sabbia di una spiaggia in cui ci eravamo fermati a bivaccare.
Ma fui colto in flagrante da Michi, che lanciandomi un’occhiataccia che mi fece sentire come un affamatore di bambini del Biafra, la disseppellì, la ripulì dalla sabbia, e mostrandomi quella porcheria mi disse: “Vuoi la tua parte?”. Manco la degnai di risposta e mi arroccai sul furgone, manifestando così il mio sciopero della fame.
Un’altra volta, mentre stavamo percorrendo la strada assolata che dalla costa di Cefalù porta verso l’Etna, mentre guidavo da ore sotto un sole rovente, per sostenermi nella fatica della guida, Michi si mise a preparare dei cornini di peperoncino fresco riempiti di olio d’oliva. E mentre guidavo, mi arrivava da dietro la sua mano col peperoncino, insieme alla sua voce che diceva: “Apri la bocca, che il piccante combatte il caldo e dà la carica! Che poi ti tocca la salita al vulcano”.
Quando arrivammo alle falde dell’Etna, ci dissero che la spedizione era pericolosa, perché in quei giorni il vulcano era sotto pressione e minacciava di sputar fuori lapilli. Si poteva arrivare solo fino al campo base, ma non si poteva salire oltre. “Ok, rinunciamo” proposi io. Figurarsi la Michi! Per lei l’Etna era il primario scopo di quel viaggio. Se poi c’era l’aggiunta adrenalinica per il rischio di eruzione, per lei meglio ancora! Quindi, senza un democratico voto, si diede il via alla spedizione, composta da una dozzina di avventurosi. Ci caricarono su un pulmino da fuoristrada e percorremmo l’impervio percorso fino al campo base, da dove si vedeva la bocca fumante del vulcano una cinquantina di metri sopra di noi.
Ma per Michi l’escursione non poteva finire lì, perché lei voleva arrivare alla bocca del vulcano e guardare dentro il buco fumante. Quindi si mise a tampinare le varie guide, finché ne trovò una che le disse che magari… ma in tutta segretezza e a nostro rischio. E con l’obolo di un po’ di pecunia. Quindi, con lo spirito contrabbandiere dei passamonti, e con le scarpe che sprofondavano nella sottile graniglia grigia, la guida ci condusse fino alla bocca del vulcano.
E per la regola che tutto è bene quel che finisce bene, quella sera la donzella, ripulita dalla sabbia dell’Etna e agghindata in un fascinoso look, commentava entusiasta, davanti a un piatto fumante di pasta con le melanzane, la nostra avventura.
Compreso uno strano incontro lungo il pendio che sale al vulcano: un tipo che stava sdraiato dentro un tumulo di pietre, ricoperto con un telo di plastica, con un rosario sulla fronte e un crocefisso in mano, che quando gli passammo vicino ci disse: “Preparatevi, che la fine del mondo è vicina”.
Ma una sera il fascinoso look delle mie due donzelle ci procurò parecchie ansie, al punto che quella notte Michi dovette dormire con noi sul furgone. La faccenda andò così: Ci eravamo accampati in un camping nei pressi di Siracusa, e alla sera eravamo andati a cena in una trattoria lì vicino. Si cenava all’aperto, e su inoppugnabile concetto di Michi, avevamo ordinato una specialità del luogo: scamorza arrostita sulla griglia. Il concetto era: E’ saporita, riempie la pancia e costa poco.
A un certo punto, mia moglie si era alzata dal tavolo per andare a vedere cucinare quella specialità, e poco dopo Michi mi disse: “Guarda che c’è un moscone che sta ronzando intorno a tua moglie”. Io allungai il collo e vidi che vicino alla griglia c’era un brutto ceffo sulla cinquantina, in un completo di gessato blu, che stava cercando di attaccare bottone alla mia consorte. “E con questo? -dissi io- vado là a fare una sceneggiata tipo Cavalleria rusticana come un siculo?”. Michi mi diede un’occhiata sprezzante e partì lancia in resta in soccorso della sua amica. Probabilmente il tipo gessato interpretò il suo arrivo come un segno di attrazione fatale nei suoi confronti al punto che l’Alain Delon della Trinacria rivolse a lei tutte le attenzioni e poi, quando le donzelle ritornarono al nostro tavolo, lui le seguì, e senza essere invitato, si sedette in fianco a noi, attaccandoci bottone. E una volta appurato qual’ era la mia compagna, si mise a ronzare sulla Michi, facendole un resoconto della sua vita, quella di un siciliano emigrato in Belgio.
Così venimmo a sapere che quel tipo si era beccato la silicosi nelle miniere di carbone, e a causa di questa malattia lo avevano messo in pensione ed era ritornato nella sua terra natale. E per confermare il discorso, aprì la bocca e mostrò i denti mezzi marci e neri come il carbone. Che come companatico insieme alla scamorza non era il massimo… Poi ci raccontò che anche lui era accampato nel nostro camping, con una tenda per sé e la moglie, e un’altra -e qui fece l’occhiolino- per una sua amica. Le donzelle le aveva già messe a nanna nelle loro tende, mentre lui… “Fate attenzione – ci disse dopo averci espresso le sue credenziali di latin lover– perché questo è un posto mal frequentato, qui di notte si possono fare brutti incontri. Però potete contare su di me”. E per dare rilievo alla sua idoneità di angelo custode, aprì un lembo della giacca, dalla cui tasca interna spuntava l’impugnatura nera di una pistola. Le due donzelle avevano sbarrato gli occhi, e non è che io fossi messo meglio. Però riuscii a depistare il discorso su altri argomenti, e il minatore, dopo avere richiuso la giacca, parlò d’altro. Discorsi che comunque volevano far intendere che lui era una specie di boss del luogo. E intercalava nei suoi ragionamenti un appellativo rivolto a Michi, giusto per farle intendere chi era il maschio dominante della zona: Bedda mia.
Non riuscimmo a liberarci di lui, perché il boss non voleva saperne di lasciarci al nostro destino, e continuava a offrirci da bere ogni volta che tentavamo di prendere il largo. Solo quando la trattoria spense le luci, riuscimmo a salutarlo e a rifugiarci tutti e tre sul furgone, ben chiusi dentro a chiave. Ma rimanemmo svegli per tutta la notte, guardando fuori dai vetri per individuare qualche ombra vagante nei dintorni. E tenendo d’occhio la tenda di Michi, montata vicino al furgone, con il sospetto che l’angelo custode vi si avvicinasse. Ma non successe niente, e il mattino dopo, appena aperto il cancello del camping, senza nemmeno andare a lavarci la faccia, ce la filammo alla svelta. Devo dire, con un po’ di sadismo, che ci rimasi quasi male a non trovare il boss sulla soglia del cancello, che aprendo un lembo della giacca del suo abito gessato, strizzava l’occhio a una delle mie passeggere, dicendole:
“Ciao bedda mia”.
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