di Giulio Ghirelli
Nel 1960 -esattamente sessant’anni fa- non avendo alcuna voglia di studiare, una volta finite le scuole medie, la mia mamma mi mandò a bottega da un artigiano tipografo. Mi ricordo ancora il nome: Tipografia Ermenegildo Pozzi -quando si dice che il primo amore non si scorda mai…-.
In quella bottega ci lavorava la Iolanda, una ragazza con un cespuglio di riccioluti capelli rossi.
Aveva sedici anni, uno più di me, e lavorava alla macchina da stampa; io ero stato affiancato a lei a farle da garzone. Era molto svelta nel lavoro e mi comandava a bacchetta; e siccome era una tipa di poche parole e dai modi rudi, mi faceva soggezione e lavoravo senza mai guardarla in faccia.
“Sono così brutta che non mi guardi neanche in faccia?” mi disse un giorno, mentre mi passava una risma di carta.
“No, no, sei bella” mentii sfacciatamente, perché non era proprio una gran bellezza.
“Allora ti piaccio?” mi chiese con una voce sussurrata che si perdeva nel rumore della macchina da stampa.
“Sì…” risposi timidamente, sentendo le gote che mi si arrossivano.
“Domenica ci verresti al cinema con me?”.
“Sì…” le gote ormai in fiamme.
E così ebbe inizio quell’innocente storia con la Iolanda. Innocente, perché ci trovavamo alle due della domenica ai Bastioni di Porta Volta, percorrevamo tutta la via Paolo Sarpi e arrivavamo in via Canonica, dove c’era il Cinema Rosa, una sala popolare che con 80 Lire si vedevano due film -a quei tempi, il pane costava 140 Lire al chilo-. E ce li vedevamo senza perderci un fotogramma, dato che nessuno dei due prese mai una minima iniziativa -manco un bacetto sulla guancia…-.
E anche a bottega i nostri rapporti erano come se non fossimo mai usciti insieme: lei comandava a bacchetta e io eseguivo.
Dopo quattro o cinque domeniche cinematografiche, una sera, mentre uscivamo dal cinema, la Iolanda mi disse che per la domenica successiva, dopo il cinema ero invitato a cena a casa dei suoi genitori. E siccome era la mia specialità dire “Sì” e arrossire, anche quella volta fu così.
La casa della Iolanda era all’inizio di via Farini, una casa di ringhiera come la mia, e fui accolto con un calore che mi sciolse la timidezza. Suo papà era un omone grande e grosso, con i capelli e un paio di baffoni neri che erano uguali a quelli del mio papà carabiniere. Invece lui faceva il manovratore sul tram. Un tipo veramente simpatico, con la parlata milanese e un gran sorriso stampato in faccia.
La mamma della Iolanda era tutto il contrario: una donnina con i capelli rossicci, che sembrava più vecchia del marito e molto taciturna.
Ormai era ora di cena e ci mettemmo a tavola. Dalla cucina usciva un bel profumino, e poi uscì pure la mamma con una grossa marmitta fumante in mano. E a me l’appetito non mancava.
Fu il barbisone a riempire i piatti, dicendo: “Come se fà la busècca in questa cà…”.
La busecca! Mi sentii le gote infiammarsi, e pure le orecchie! La trippa era una roba che faceva rivoltare le mie trippe nello stomaco! Manco riuscivo a guardarla nella vetrina del macellaio!
E adesso ne avevo un piatto fumante sotto gli occhi! E per la prima volta nella mia storia con la Iolanda, dissi “No”. A cui aggiunsi timidamente: “Non riesco proprio a mangiarla”.
Povero barbisone, e povera la sua moglie, e povera la Iolanda, che ci rimasero di un male…
Ma quel buon’uomo non si perse d’animo, mi tolse il piatto da sotto gli occhi e lo sostituì con uno in cui c’era una grossa scaglia di grana e una fetta di taleggio, dicendo, quasi scusandosi ma con un simpatico sorriso: “Il convento non passa altro”.
E così la serata finì bene, col barbisone che mi abbracciò con affetto mentre uscivo dalla loro casa.
Con la Iolanda andai al Cinema Rosa ancora per alcune domeniche, fin quando la mia mamma, che era il caporal-maggiore della famiglia, mi trovò lavoro in una tipografia che pagava meglio.
Non era il caso di giurarci eterno amore, e ci lasciammo con un semplice “Ciao”.
Ogni tanto ci penso alla Iolanda, che non sono stato capace di darle nemmeno un bacetto…
Penso anche alla busecca a casa del suo papà, che non sono stato capace di mangiare, e che invece, col passar degli anni, è diventato uno dei miei piatti preferiti.
La busecca è un piatto dalle umili origini, che accompagnava la vita dei contadini nelle occasioni importanti. Veniva preparata quando c’erano le fiere e i mercati del bestiame, e la notte di Natale era usanza che nelle cascine i contadini si riunissero nella stalla a gustare questa vivanda.
La busecca è uno dei più tipici piatti meneghini, e non a caso i Milanesi venivano scherzosamente chiamati: busecconi.
Anch’io ho avuto l’onore di essere chiamato così, ma siccome questo appellativo è anche usato per le persone di forte costituzione -specialmente nella zona del girovita-, ho il dubbio che più che per la mia passione per questo cibo, questo appellativo mi sia stato dato per la mia taglia extra-large.
La preparazione della busecca è abbastanza facile, e anche se alcune ricette prevedono ingredienti aggiuntivi, io la cucino in modo semplice: faccio soffriggere col burro un trito di cipolla, carota e sedano, e aggiungo qualche cubetto di pancetta e due foglie di salvia. Poi metto mezzo chilo di trippa lavata e scolata e la faccio cuocere due minuti per asciugarla dall’acqua, quindi aggiungo un paio di cucchiai di passata di pomodoro -c’è chi ne mette di più, ma a me piace poco salsata-.
Poi allungo con due mestoli di brodo ben caldo e metto un po’ di sale. Dopo un’oretta di cottura, aggiungo 200 grammi di fagioli bianchi di Spagna già lessati e scolati, e lascio cuocere ancora per una ventina di minuti, rimescolando spesso.
La verso in una ciotola di coccio, accompagnata da crostini di pane molto secco -io uso la michetta rafferma- poi aggiungo una spolverata di pepe nero e un’abbondante grattata di grana.
Ho visto persone che mangiano la trippa con la forchetta, ma essendo un cibo brodoso, io preferisco il cucchiaio. Ne uso uno di legno, come facevano i vecchi contadini, e la gusto di più.
Se da ragazzo disprezzavo questo cibo, ben altri sentimenti provavo per la busecchina.
Questo alimento ha origini antiche, precedenti ai tempi medioevali, quando i boschi abbondavano di piante di castagno, e i loro frutti erano di basso costo. Le castagne erano un alimento primario per le popolazioni montane, dove abbondavano i boschi di castagno, e venivano consumate fresche, arrostite, bollite, o fatte essiccare per durare a lungo. Da esse si ricavava anche la farina, che veniva usata come alternativa della polenta di granturco, e per fare focacce, torte o castagnaccio.
Quando ero bambino, girava per le vie un ambulante con appesa al collo una cassetta con dentro le carrube e le bustine di farina di castagne. Con poche lirette, facevo le mie merende con quelle cose.
Quando lo racconto ai miei nipoti, mi guardano allibiti e mi dicono: “Le carrube? Ma le mangiano i cavalli!”. Rispondo loro: “Anche”.
Per la popolazione meno abbiente, le castagne erano un alimento sostitutivo della più costosa carne, ed anche più economico della trippa. Un modo per cucinare le castagne secche era la busecchina, un diminutivo a significare una ricetta più economica della busecca.
Anche la busecchina ha vari modi di preparazione, e ne trascrivo uno che mi sembra interessante, e anche se non sono indicate le dosi, credo che non sia difficile andare ad occhio: Mettere le castagne secche a bagno per una notte in acqua fredda, e la mattina successiva, prima di metterle nella casseruola, togliere l’eventuale pellicina. Le si copre completamente di acqua salata e vino bianco, lasciandole cuocere a fuoco lento e muovendole il meno possibile per evitarne la rottura. Cuocerle fin quando saranno morbide ma ancora consistenti, e il liquido dovrà essere assorbito quasi del tutto. Servirle con l’aggiunta di qualche cucchiaio di latte e guarnire con la panna montata.
La mia mamma la faceva più semplicemente: faceva cuocere le castagne con poca acqua, e quando erano quasi cotte e l’acqua asciugata, metteva un bicchiere di latte e un cucchiaio di miele, e finiva la cottura a fuoco basso, mescolando adagio per non romperle.
Era un’ottima alternativa ai cibi che mi spettavano di solito: pancotto, semolino o riso e latte.
E dopo questa modestissima dissertazione su busecca e busecchina, mi sembra doveroso firmarmi: Vostro affezionatissimo Buseccone.
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