di Giulio Ghirelli
Prima parte
Bipolarismo: Disturbo psichico caratterizzato da alterazioni cicliche dell’umore
Dopo il naufragio del mio primo matrimonio, volevo cambiare aria, darmi una botta di vita.
Quindi decisi di realizzare un vecchio sogno, un viaggio in Russia. E dato che amo navigare, una crociera sul Volga, da San Pietroburgo a Mosca, era un’ottima occasione per mettermi in sesto.
Ero così entusiasta, da non preoccuparmi del volo aereo -volare mi terrorizza-, e anche il fatto di partire da solo, senza spiccicare una parola straniera -solo un po’ di francese- non mi dava troppa preoccupazione. Anche perché l’agenzia di viaggi mi aveva detto che sarei stato aggregato ad un gruppo di genovesi. E vuoi che i genovesi, che sono naviganti di antica tradizione, non sappiano come barcamenarsi in una crociera?
Sull’aereo trovai una combriccola di una ventina di persone liguri. E tra queste, proprio seduta in fianco a me, Lorena, una signora un po’ mingherlina di signorile aspetto -cinquantun’anni, due meno del sottoscritto, ma ne dimostrava qualcuno in più- che sembrava fosse lì giusto per farmi passare la paura di volare, perché mi aveva subito attaccato bottone coinvolgendomi nei fatti suoi, al punto che all’atterraggio a San Pietroburgo conoscevo tutto il suo curriculum vitae.
Lorena era laureata in psicologia e aveva praticato quella professione in diversi centri medici, anche in Inghilterra, e lì aveva conosciuto un ingegnere italiano, anche lui in trasferta di lavoro a Londra, che poi sarebbe diventato suo marito. Tornati in Italia, avevano acquistato una villetta sulle colline sopra Chiavari, e lì avevano messo al mondo due figli. Ma col passare degli anni, il carattere introverso del marito si era rivelato sempre più in contrasto con quello effervescente di Lorena, che amava frequentare gli amici e fare viaggi. Così, dopo aver tirato grandi i figli e averli visti metter su famiglia, aveva deciso di separarsi. Ma il marito non ne voleva sapere, e per non entrare in dispute legali, lei aveva accettato la proposta del coniuge, cioè di fare i separati in casa. Avevano diviso la villetta murando delle porte e aprendone una seconda di ingresso, e bastalà.
Ma oltre a raccontarmi tutti i fatti suoi, Lorena, da esperta psicologa, mi aveva indotto a raccontarle i miei; e in merito alle mie vicissitudini coniugali, si era talmente presa a cuore la mia condizione di orfanello, che quando atterrammo a San Pietroburgo avevo un sospetto: che Lorena avesse in animo di adottarmi. I fatti successivi confermarono il sospetto.
Ma c’era un particolare non irrilevante: quella donna colta e intelligente, che parlava diverse lingue -compreso il russo-, raffinata nei modi, accurata nel suo aspetto e ammirata da tutti, fisicamente non era per niente il mio tipo, e non provavo alcuna attrazione per lei. Però aveva un carattere allegro e disponibile, e come compagna di viaggio, a differenza di certi fantozziani elementi del suo gruppo, era una manna dal cielo per un solitario turista come me. Perciò le diedi spago.
Dall’aereoporto, un bus ci portò fino all’imbarco della motonave, la quale, dopo tre giorni di sosta a San Pietroburgo, avrebbe navigato per dieci giorni e 1800 chilometri tra i paesaggi del Volga.
Il gruppo ligure alloggiava nelle cabine doppie del secondo dei tre ponti della motonave, mentre io alloggiavo al ponte più alto, dove c’erano le cabine singole. Perciò, appena imbarcati, salutai donna Lorena e raggiunsi la mia cabina. Piccola e spartana, non certo come le cabine della grandi navi sulle quali avevo viaggiato in qualche mia crociera nel Mediterraneo. Il letto era stretto e scomodo, con una misera e pizzicante coperta grigio-verde, probabilmente uscita da un magazzino militare; la toilette faceva pendant con la cabina: solo un piccolo lavabo e la tazza del wc; il tubo flessibile della doccia era piazzato sopra il wc, e bisognava starci sopra a cavalcioni per lavarsi.
In compenso c’era una grande finestra che mi permetteva di vedere i paesaggi fluviali.
“Toc toc, ci sei?”. Ero appena uscito dalla doccia, quando sentii bussare alla porta, e riconobbi la voce di Lorena. Con l’asciugamano intorno alla vita, socchiusi la porta.
“Com’è la tua cabina?” chiese lei, ignorando il mio abbigliamento e facendosi varco tra me e la porta, per entrare nel mini-corridoio della cabina.
“Insomma…” risposi, infilandomi alla svelta calzoni e maglia, e chiedendomi come avesse fatto a scoprire così in fretta il numero della mia cabina. Ma quando le donne vogliono qualcosa…
“Io non sono messa meglio. La cabina che divido con Rossana è pressoché uguale, solo un piccolo spazio in più per i due letti…”.
Rossana era una sua amica, ma sull’aereo era seduta un paio di file più avanti, e quindi me l’aveva presentata appena sbarcati all’aereoporto. E devo ammettere che quella tipa mora e alta quanto me, con un fisico da fare invidia a tante quarantenni -avrei poi saputo che aveva quarantanove anni- mi aveva attratto a tal punto, da essere intimamente riconoscente a Lorena di avermi adottato. Anche perché quando ero stato presentato a Rossana, che era separata pure lei, avevo avuto l’impressione che la tipa mi avesse fatto un sorriso -come dire? sensuale- di quelli che, con la mia bacata mente, sono ben altro che non sorrisi di circostanza, e la cosa mi aveva risvegliato certe assopite velleità…
Quando mi raccontavano delle avventure amorose in crociera, pensavo che erano robe da film, tipo Love boat, ma il preludio di questo viaggio, con la mia ingualcibile stoffa di dongiovanni della terza età, mi stava facendo cambiare idea.
“Tra un’ora c’è il brindisi di benvenuto nella sala ristorante. Ci vediamo lì”.
E senza attendere risposta, con la stessa tempestività con cui era comparsa, Lorena si eclissò.
Non sono un tipo che ama vestirsi con eleganza, tutt’altro. Nonostante la quasi vetusta età, i jeans con una camicia, meglio ancora una polo, sono il mio vestiario preferito. Però in certe occasioni mondane, anche sulle navi è quasi d’obbligo indossare una giacca. Preferibilmente scura.
Ma io non potevo mettere in valigia l’unica giacca blu del mio guardaroba, dato che l’indumento risaliva a diversi anni -e chili- addietro, e quando avevo tentato di abbottonarla, non ci ero riuscito.
Però ne avevo una estiva di colore azzurrino, comprata l’anno prima, che mi calzava a pennello; ed era quella che avevo messo in valigia.
Quindi, intappato con jeans, polo bianca, giacca azzurra e scarpe da tennis blu, dandomi prima una bella occhiata nello specchio del mini-corridoio e convincendomi di essere diversamente elegante, lasciai la mia cabina e raggiunsi la sala ristorante.
E lì appurai che, diversamente eleganti, nel gruppo ligure ce n’erano tanti. Addirittura chi con bermuda e variopinte magliette, come se fossero su una spiaggia di Alassio.
Invece Lorena e Rossana erano agghindate con sciccheria, anche se contrastante l’una con l’altra.
La psicologa indossava un vestito nero lungo fino a coprirle le scarpe, con scollatura, maniche e orlo ricamati di pizzo. E a dirla tutta, quell’abito le aggiungeva una decina d’anni in più. Per non dire dei suoi capelli corti, ricci e bianchi, che aveva colorato con delle sfumature color violetto.
Rossana indossava una maglia di seta color fuxia senza maniche, di cui non passava inosservata l’abbondante scollatura sull’abbondante davanzale. I fuseaux erano di color nero seppia e finivano poco sopra le caviglie, una delle quali era ornata con un sottile braccialetto di perline.
I lunghi capelli neri erano raccolti in un foulard di seta dello stesso colore dei fuseaux, annodato a foggia di pirata, i cui lembi le ricadevano fin sotto le spalle. Sul decolleté brillava una collanina di perline d’argento, uguali a quelle del braccialetto alla caviglia. I sandali argentati avevano il tacco alto, che mettevano ancor più in evidenza la notevole differenza di altezza tra lei e la sua amica.
E siccome Rossana, con quel look, non poteva non scaldarmi il sangue nelle vene, mi affrettai ad esprimerle tutta la mia ammirazione in presenza della sua amica, la quale si affrettò a dirmi: “E di me cosa dici?”. Rimediai dicendole: “Eleganza che turba gli occhi, per non dire dell’acconciatura”.
Già da quel brindisi di benvenuto, si creò questo stato di cose: Lorena mi ronzava addosso come una zanzara sulla pelle, mentre io ronzavo intorno a Rossana come un moscone sulla zuccheriera.
Ma la maggiorata, per non andare in discordia con la sua amica, faceva la sorda al mio ronzio.
Il giorno seguente era dedicato alla visita al museo dell’Ermitage. La nostra guida, che era ligure pure lei -ma l’unica simpatica-, prima di sbarcare ci raccomandò di non portare con noi denaro, carte di credito od oggetti di valore, perché c’erano dei borseggiatori cosi abili da svuotarti la borsa sotto gli occhi. Quando salimmo sul bus che ci portava al museo, non ebbi scelta: Lorena, salita prima di me, aveva tenuto occupato il posto di fianco a lei per me, ignorando la sua amica, che dovette cercarsi un altro posto.
Una bolgia infernale all’Ermitage: percorrevamo le sale del museo accalcati come un gregge di pecore. A un certo punto, un urlo: “Al ladro! Al ladro!”. Era una del gruppo ligure, che era accanto a Lorena e aveva visto un tipo infilare la mano nella borsa di costei e poi darsela a gambe.
Lorena guardava stralunata la sua conterranea, che le diceva che le avevano rubato il portafoglio.
Io mi girai nella vana speranza di vedere il ladro, ma ormai chissà dov’era. Poi chiesi a Lorena cosa avesse nel portafoglio. Come se nulla fosse, rispose: “Patente, carta d’identità, tessera sanitaria, carta di credito e tutti i soldi” e poi aggiunse: “e la fotografia della mia cagnolina”.
La guida, che era una persona troppo educata, si limitò a dire: “Ma signora…”.
Non c’era altro da fare, solo una denuncia di furto presso la reception della motonave.
Mentre a sera tornavamo col bus all’imbarco, Lorena mi disse sottovoce: “Preferisco chiederlo a te che non a Rossana. Mi finanzieresti le piccole spese durante la crociera? Poi quando torniamo in Italia ti rendo i soldi”. Non serviva essere psicologi, per capire che mi voleva tenere al guinzaglio…
Passammo tre giorni a deliziarci tra palazzi e canali di quella stupenda città chiamata la Venezia del Nord, e ogni volta che mi accingevo a fotografare qualcosa, Lorena mi si parava dinanzi dicendo: “Mi fai una foto?”. Poi, dopo essersi fatta immortalare una dozzina di volte da sola, chiamava la sua amica, che avendo capito l’antifona, se ne stava prudentemente in disparte. “Vieni Rossana, che Romeo ci fa una foto!”. E io scattavo qualche foto ai paesaggi e un’infinità a loro.
La sera del terzo giorno, la motonave iniziò a navigare sul fiume Volga, per giungere l’indomani a Mandrogi, un tipico villaggio rurale con le case di legno di vivaci colori. Passammo la giornata in quel posto, e siccome io ero più interessato a fare fotografie che non stare in gruppo con la guida che raccontava, giravo a zonzo per i fatti miei in cerca di qualche bello scatto. Ma anche lì, Lorena mi tallonava senza tregua. All’inizio fui cortese e le diedi spago, ma poi incominciai ad averne piene le tasche, e in modo forse troppo sgarbato, le dissi che non mi faceva piacere averla sempre tra i piedi. Lei ci rimase piuttosto male, e mentre tornava verso il gruppo, mi disse: “Tipico comportamento bipolare. A momenti adorabile, a momenti intrattabile”.
Per quel giorno mi lasciò nel mio brodo. Ma poi, quando ritornammo sulla nave, riprendemmo le nostre amichevoli relazioni. Alla sera cenammo tutti in gruppo, e poi Lorena mi invitò a bere un drink al piano-bar. Dato che non lo fece lei, estesi io l’invito a Rossana, ma lei disse che era stanca e andava a letto. Ormai ero certo che si teneva alla larga per lasciare campo libero alla sua amica.
Lorena mi invitò a fare un ballo, ma le risposi che era l’ultima cosa che avrei fatto in vita mia.
La serata proseguì con qualche commento sulla gita del giorno dopo a Kizhi, e poi ci salutammo.
Ero nella mia cabina e mi ero appena spogliato, quando sentii alla porta: “Toc toc, ci sei?”.
Ma allora è un vizio! “Un momento!” risposi, e prima di aprire la porta mi infilai calzoni e camicia.
Lorena non attese che le chiedessi: “Qual buon vento?”, e come fosse a casa sua, si sedette sul letto -non c’era altro posto dove sedersi- e mi chiese di mostrarle le foto che avevo scattato quel giorno.
“Adesso?” le chiesi.
“E’ solo mezzanotte, e visto che sei ancora in piedi…”.
“Senti, amica mia, tu incominci a farmi girare le palle! Anzi, me le hai proprio rotte!” e glielo dissi così in malo modo, che le vidi inumidirsi gli occhi. Allora mi commossi e mi misi a sedere sul letto accanto a lei, e poi l’abbracciai chiedendole scusa e dandole un bacio sulla guancia.
Lei commentò: “Lo vedi che sei bipolare? dottor Jekyll e mister Hyde…”.
Ancora con questa solfa… pareva che il vocabolo bipolare fosse stato inventato per me.
Mi alzai e presi la fotocamera; poi tornai a sedermi sul letto in fianco a lei, accesi lo schermino e presi a mostrarle le foto. Non passò un minuto, quando Lorena, dicendo: “Che caldo che fa nella tua cabina” si tolse la camicetta e rimase in reggiseno. Feci finta di nulla e continuai a far scorrere le immagini sullo schermino. Ma poco dopo, senza dire né bè né bò, si tolse pure il reggiseno.
Io ero sottosopra, non sapevo che pesci pigliare, perché mi sembrava offensivo dirle che non mi piaceva proprio per niente. E quel davanzale che penzolava sotto i miei occhi, peggiorava le cose.
Allora non trovai altra scappatoia, che dirle che il mio arnese era ormai nel mondo dei fu, e che non c’era panacea che potesse resuscitarlo. “Forse un miracolo -conclusi- ma tu non sei la madonna”.
A Lorena non interessarono più le fotografie. Si rivestì con grande savoir-faire, e quando fu sulla soglia della cabina, mi mandò un bacio con la mano e poi mi disse con aria ironica: “E’ la ciliegina sulla torta del tuo bipolarismo. Ti dai grandi arie da sciupafemmine, invece, sotto sotto…”.
Ma la panzana che avevo rifilato a Lorena per schivare le sue avances, la pagai cara, poiché il mattino dopo mi bastò lo sguardo di Rossana -che sembrava di pietà- per capire che quello che era entrato negli orecchi della psicologa, le era uscito dalla bocca per entrare in quelli della sua amica.
Quel giorno, nell’escursione all’isola di Kizhi, rimasi incollato alla guida turistica, fingendo di dare tutta la mia attenzione alle sue spiegazioni. Ed evitando di incrociare gli sguardi delle due amiche.
Però, come si dice, non tutti i mali vengono per nuocere…
Quella sera, mentre sorseggiavo un doppio drink al piano-bar, cercando di annegare le tristezze causate dalla meschina nomea che mi ero procurato da parte delle due donne -che di Lorena niente m’importava, ma molto della sua amica, con la quale non sapevo come porre rimedio-, proprio quella sera vidi sulla pista da ballo una tizia che ballava senza partner una danza latino-americana, di quelle che si ballano anche da soli. La ballerina era uno scricciolo dai lunghi capelli, lisci e neri.
Durante quella serata, scoprii che la tizia aveva i più begli occhi all’orientale che avessi mai visto. Poi, che parlava un poco di francese. A seguire, che si chiamava Linh ed era di origine vietnamita, e che era in crociera con un gruppo di americani. Inoltre, che a causa della tragica guerra in Vietnam, da bambina era rimasta orfana ed era stata adottata da una coppia americana, e da allora viveva in California. Infine, che aveva cinquantadue anni ed era rimasta vedova a quarantasei.
Ma ritornando al momento in cui vidi quello scricciolo sulla pista da ballo, quando durante le sue giravolte, i suoi occhi caddero su di me, io alzai il bicchiere per manifestarle il mio apprezzamento.
Lei allora alzò discretamente una mano e mi fece segno di andare sulla pista a ballare con lei.
L’unico ballo che conosco è quello dell’orso ubriaco, e preferisco mettere i piedi sui carboni ardenti piuttosto che su una balera. Ma non ci pensai due volte. Mollai il bicchiere sul bancone del bar e mi fiondai sulla pista da ballo, e…
Ma questa è un’altra storia.
L’altra storia (seconda parte)
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