• anzianiincasa.it@gmail.com

Al víin

Al víin

di Sergio Scuffi
Da noi viti se ne sono sempre lavorate. Bisogna subito precisare che le conoscenze ed  i metodi di lavorazione erano ben lontani da quelli della vicina Valtellina, da tempo molto più avanzata in questo settore. La viticoltura era una delle attività che componevano gli svariati impegni delle nostre famiglie, protese a fare il possibile per essere autosufficienti, ed i risultati, in questo come in altri campi, erano piuttosto modesti, soprattutto in relazione alla qualità del prodotto.
Quanto alla scelta dei vitigni, prevaleva la mericána, perché individuata come pianta rustica, bisognosa di cure minime e resistente all’attacco di diverse malattie: tuttavia il vinello che se ne ricavava (mericanèl), per quanto gradevole al palato se bevuto fresco, specialmente ai crotti, era di gradazione alcolica molto bassa, soggetto a guastarsi ed inacidirsi facilmente. I più volonterosi si industriavano quindi ad introdurre (anche attraverso innesti) numerose varietà, di cui alcune molto pregiate:  belöla,  canína,  bian’céra,  clíntu, merlòtt, nuštrána.
Purtroppo, però, le uve ottenute non venivano vinificate separatamente, ma versate in un unico tino, ottenendone quindi un prodotto di qualità mediocre, tanto più scadente e deperibile quanto maggiore era la percentuale di uva americana contenuta. 
  L’impianto della vigna, per la quale si sceglievano i pendii nelle immediate adiacenze degli abitati, era sostenuto da semplici muretti a secco (ban’cín). Le piante venivano interrate lungo dei fossati (fusèe) preventivamente scavati e purgati da tutto il pietrame, utilizzando anche dei grossi setacci (gría).
Si piantavano poi, lungo ogni fossato, dei robusti sostegni in legno di castagno (culón’ga), a qualche metro uno dall’altro, e vi si ponevano sopra dei grossi pali (pertegóon, sempre di castagno). A congiungere queste strutture, fra loro parallele, vi si sovrapponeva poi, trasversalmente, una serie di pali e di grossi fili di ferro zincato, lungo i quali si facevano correre, adeguatamente legati, i getti () delle viti: si era così formata la pèrgula. Per tenere unita tutta la struttura, si usavano prevalentemente legacci ricavati dai rami di salice (salésc), mentre rametti più piccoli (salescíin) servivano per assicurare le viti a questi supporti.

A fine inverno si procedeva alla potatura e successiva legatura (ta’cè lè) ai pali di sostegno  (menacò). Portate via tutte le ramaglie (surmènt) che sarebbero poi finite nel fuoco, si procedeva a ripulire il prato sottostante col rastrello (mundè), trascinando gli scarti ed il fogliame sopra la terra dei fossati; vi si aggiungeva una abbondante concimazione a base di letame, faticosamente trasportato sulle spalle dentro i  sgéerl, contenitori in vimini intrecciati.
A questo punto si vangava attorno alle piante, per tutta la lunghezza dei fossati, interrando il concime naturale. Durante la primavera e l’estate si effettuavano diversi interventi a base di zolfo in polvere (inzulfregè), soffiato con una apposita macchina portata a spalla, e si facevano dei trattamenti contro la peronospora irrorando le foglie con la poltiglia bordolese, costituita da verderame disciolto nell’acqua (indaquè, bagnè ‘l víit). Per chi possedeva vigne fuori mano, e lontane dai corsi d’acqua, ciò comportava dei faticosi trasporti sulle spalle, al punto che molti si organizzavano posizionando nei pressi delle vecchie botti, o altri contenitori di recupero, per immagazzinare l’acqua piovana aiutandosi magari con delle lamiere o semplici canalizzazioni.  In determinati periodi si procedeva pure a levare un certo numero di foglie ( sgarzulè) per liberare i grappoli in formazione, consentendo loro di ricevere aria e sole, di svilupparsi adeguatamente e preservarsi da funghi o altri malanni. Altri rischi erano costituiti dalla grandine, che poteva abbattere al suolo in pochi minuti buona parte del raccolto.

Giunto il periodo della vendemmia (vendémbia, vendembiè), l’operazione impegnava per giorni tutta la famiglia, chi a cogliere l’uva (anche con scale sulle alte pergole), chi a pulirla dalle parti rovinate o dagli acini acerbi (scèern), chi a trasportarla nei tini con la brénta

 A raccolta terminata, si procedeva alla pigiatura (fulè) regolarmente fatta con i piedi.  Per qualche settimana si seguiva poi l’andamento della fermentazione, intervenendo regolarmente, almeno una volta al giorno, per favorire questo processo tramite una forma di travaso, che consisteva nel levare da un tappo nella parte inferiore della  tína un quantitativo di liquido che poi veniva versato sopra il mosto in fermentazione (bagnè  sgiò ), mentre con una zappa od altro attrezzo simile si spingevano verso il basso, annegandoli nel liquido, i raspi che di volta in volta affioravano.

Alla fine si levava il vino (fè ‘l víin), raccogliendolo direttamente entro la  bigoncia (brénta) della capacità di circa 50 litri (levèda), e con la quale si trasportava e riversava nelle botti e tini, salendo su delle scale a pioli e versando il contenuto entro grossi imbuti in legno (pídria).  Trascorsi alcuni mesi, si procedeva ad una forma di travaso, levando nuovamente il vino e, sempre con la brénta sulle spalle, trasportandolo al crotto (cròtt), spesso con lunghe camminate in salita, ristorate da qualche p sa, semplice muretto lungo il percorso che consentiva di posare per un po’ il carico.  Il  cròtt, molto noto da noi, è una caratteristica cantina ricavata in prossimità di antichi scoscendimenti franosi che mantengono, attraverso uno sfiato detto  surèl, la temperatura costante, attorno agli 8° C, ideale per la conservazione e la stagionatura di formaggi, salumi e vino. Da sempre luogo di sereni incontri conviviali, è spesso completato da un locale  posto anteriormente o al piano superiore, denominato “sala”, con un semplice arredamento composto da tavoli e sedili spesso ottenuti da grosse lastre di pietra. Questo ambiente è sempre stato tenuto in tale considerazione che nessuno, in caso di eredità, rinunciava alla propria parte, con il risultato che oggi la proprietà è spesso suddivisa in numerose cellette, racchiuse da palizzate in legno fino al soffitto a volta ed accessibili attraverso un cancello (cangèl) rigorosamente custodito da un robusto lucchetto.

proverbio: un pòo par üün la cèef dal cròtt, non (siano) sempre gli stessi a comandare, ovvero nella posizione più favorevole o ambita (lett. un po’ per uno la chiave del crotto).

 

Immagini estrapolate dal libro

n cuštümáva

su gentile concessione dell’autore

 

 

IDEVV – ISTITUTO DI DIALETTOLOGIA E DI ETNOGRAFIA VALTELLINESE E VALCHIAVENNASCA

 

Altri racconti di  Sergio Scuffi

Racconti & Ricordi*anzianiincasa_2018

Total Page Visits: 1955 - Today Page Visits: 1
admin