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Al féen

Al féen

di Sergio Scuffi

Il fieno rappresentava un prodotto indispensabile nell’economia agricolo-pastorale: dalla quantità del raccolto dipendeva la consistenza del bestiame che poteva essere mantenuto, al punto che, terminato il normale taglio nei prati, sia di fondovalle, sia di montagna, si provvedeva un ulteriore quantitativo di erba tagliata a mano, con dei falcetti (seĝázz) in mezzo ai boschi di alta montagna (féen de bóš’c mulégia): quest’ultimo utilizzato, con molta parsimonia, solo per sostentare le bestie in caso di maltempo prolungato, per nutrire qualche mucca malata ed in
difficoltà a raggiungere i pascoli, oppure per riempire dei sacconi utilizzati come materasso (bisè’ca).
La cura dei prati iniziava già in autunno-inverno, quando venivano abbondantemente cosparsi di letame, trasportato con i carri in tutti i fondi accessibili, sulle spalle, colle gerle (ṣgéerl) nei vigneti e nei prati disseminati lungo le pendici montuose: in particolare sui maggenghi.
Interessante la consuetudine del calénd-máarz: giunto il primo marzo, i ragazzi raggiungevano in corteo i prati, muniti di numerosi campanacci per l’occasione presi in prestito dalle bestie, e scorrazzavano suonando allegramente e gridando: èrba föra ’ce l’ è máarz”, esci erba, che è arrivato il marzo.
Dopo che l’erba era spuntata, prima che fosse troppo alta, si procedeva a ripulire accuratamente i prati (mundè): si passava innanzitutto con l’erpice, dopodiché con i rastrelli si radunavano i residui del letame, insieme ai ramoscelli caduti dalle piante o al fogliame trasportato dal vento.
Tutto ciò costituiva i mundümm, ammasso che, trasportato verso la stalla, veniva nuovamente utilizzato per fare la lettiera alle mucche, destinato quindi a costituire il nuovo letame.
I tagli del fieno erano normalmente tre: prumištíif (primo, verso maggio) rašdíif (secondo, a luglio) e terzö (terzo, a settembre); i periodi potevano variare di una-due settimane, a seconda dell’andamento della stagione. Non mancava chi, per la scarsità già accennata, cercava di praticare anche un quarto taglio (quartö), ad ottobre: si trattava di un’erbetta che stentava a seccare e che dava, alla fine, una minima quantità di fieno secco, se si considerano l’accorciamento delle giornate, l’abbondante rugiada notturna e le frequenti piogge.
La lavorazione del fieno iniziava con il taglio (se’gè), un tempo fatto unicamente a mano, con la falce (fòolsc): ogni falciatore (a volte erano più d’uno, quasi affiancati) si lasciava dietro un rotolo di fieno (undéna, proprio simile ad un’onda sull’acqua). Il falciatore (segadóo, pradée) era tanto più abile ed apprezzato quanto più sapeva tenere in ordine la falce, curandone l’affilatura. Procedeva pertanto a frequenti, sistematiche passate sulla lama (mulè) con una pietra particolare (cóot), portata in un apposito contenitore riempito d’acqua (cudée), in legno, corno di mucca o, recentemente, in lamiera o plastica. Dopo alcune ore di lavoro, tuttavia, occorreva un trattamento più radicale, e si procedeva pertanto alla martellatura (marlè), con apposita piccola incudine e relativo martello (in ’cügian, martè i dála fòolsc), utilizzando uno dei tanti supporti in pietra o legno (marladóo) esistenti presso tutte le abitazioni ma disponibili anche in molte località di campagna. Seguivano le donne, armate di forca (triénza) a spargere il fieno affinché potesse seccare (špáant); il pomeriggio, con i rastrelli, occorreva rivoltarlo (vultè) al fine di completare l’essiccazione; giunti al tramonto si provvedeva a rastrellare il fieno per tirarlo insieme a formare una specie di lunga salsiccia (rudè, fè éent, fè a rööt). A questo punto, se il fieno era secco, si caricava sul carro e si conduceva al fienile, dove veniva scaricato e sistemato a formare un specie di enorme catasta (quadrèl); diversamente rimaneva sul prato, per essere di nuovo lavorato, ripetendo tutte le faticose operazioni (špáant, vultè, tirè éent), il giorno successivo: in caso di previsione di pioggia, per di più, non bastava averlo radunato (a rööt), ma si provvedeva a formare tanti mucchi (mügè), affinché non si bagnasse completamente.
Il carro veniva fatto passare accanto ai rööt, dai quali il fieno veniva prelevato con la forca e caricato, mentre una persona che vi era salita sopra provvedeva a sistemarlo accuratamente, assicurandosi che fosse ben equilibrato e pressato: alla fine si otteneva un carico enorme, di forma squadrata, che nascondeva completamente il carro sottostante. Si provvedeva infine a legare strettamente la massa di fieno con funi e piccoli verricelli (legn dal féen, carèl), affinché con gli scossoni dovuti alle strade dissestate non si sbilanciasse o rovesciasse il carico: evento non infrequente, con conseguente doppio lavoro per risistemare il tutto, e temporaneo blocco del passaggio a tutti gli altri carri in arrivo, sempre numerosi (si possono immaginare la stizza dei sopraggiunti e le conseguenti… benedizioni, specialmente quando minacciava temporale, oppure si era progettato di effettuare un secondo viaggio).
Giunti finalmente al fienile, si procedeva a scaricare il fieno, buttandolo con un forcone, attraverso una apposita apertura (feneštróon) all’interno, e da qui sul quadrèl, la catasta alla quale veniva data una forma squadrata e che occupava una sezione determinata (la metà, un quarto dello spazio, a seconda della quantità di raccolto prevista, e tenendo conto della necessità di collocarvi, successivamente, il fieno degli altri tagli).
Da questo momento il fieno, per qualche settimana, “cuoceva”: si verificava, cioè, una specie di fermentazione, particolarmente accentuata (con forte riscaldamento, ed emissione di umidità) se il fieno era stato raccolto prima che fosse ben secco, tanto da provocare, in qualche caso, degli incendi.
Dopo qualche mese la massa si presentava talmente pressata e compatta da poter essere tagliata in modo netto con un apposito strumento (fèrr dal féen), per ottenerne le porzioni di volta in volta necessarie alle bestie.
Sulle pendici montuose, nelle vigne e sui maggenghi il tutto si ripeteva allo stesso modo, con l’unica differenza che qualsiasi trasporto si effettuava unicamente sulle spalle, entro grosse gerle a maglia larga in vimini (ráas) o, in certe località, legando il fieno in grosse balle.
Solo negli anni sessanta cominciarono a diffondersi le prime macchine: falciatrici a motore, ranghinatori per rivoltare il fieno oppure radunarlo per il carico, aspiratori o nastri per trasportare il fieno all’interno del fienile, direttamente sopra il quadrèl.
Contemporaneamente molti carri trainati da cavalli ed asini vennero sostituiti dai trattori; negli ultimi anni, le macchine provvedono direttamente a caricare il fieno, quando non addirittura ad imballarlo.

Senonchè, viste tutte queste comodità, pare che la gente abbia perso la voglia di lavorare la campagna…

 

Immagini estrapolate dal libro

n cuštümáva

su gentile concessione dell’autore

 

 

 

 

 

IDVV- ISTITUTO DI DIALETTOLOGIA E DI ETNOGRAFIA VALTELLINESE E VALCHIAVENNASCA

 

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