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Adèss che l’inglès l’è dree al cantòn, come farèmm a pronuncià: stellìn, stellòn?

Adèss che l’inglès l’è dree al cantòn, come farèmm a pronuncià: stellìn, stellòn?

di Giulio Ghirelli

Ho un cruccio che mi affligge: l’inglese, che sta diventando la lingua di tutti. Salvo del sottoscritto, che non riesce a pronunciarne che quattro parole in croce. E alla mia età non ho più la testa, né la voglia, di mettermi a imparare una lingua nuova. Già fatico ancora a raccapezzarmi con l’euro, che continua a scombussolarmi l’esistenza (e le finanze), dato che non smetto di fare confronti con le mie care lirette… Per non parlare di questo sbalorditivo mondo di nome Internet (ormai essenziale anche per andare al gabinetto). Senza il collegamento Internet, siamo uno zero assoluto…
Ogni volta che chiedo qualche informazione o l’indirizzo di qualcuno, le risposte sono sempre le stesse: wwwe-mailweb… Persino la cassiera della banca mi dice che potrei fare le mie operazioni monetarie molto più velocemente ed economicamente, e senza perder tempo allo sportello, se avessi il collegamento Internet. E mentre fò ballà l’öcc sulle belle gambottone che sporgono dalla sua minigonna, alla cassiera le rispondo che io, di tempo ne ho quanto basta per continuare alla vecchia maniera, e che mi spiacerebbe privarmi del piacere di presentarmi al suo sportello e fare quattro chiacchiere con lei…
Quindi, tornando a bomba, devo confessare che certe sere mi capita di addormentarmi con un inquietante pensiero: E se domani, al mio risveglio, tutta la città, compresi cani, gatti e i piccioni di piazza del Duomo, non capisse più nemmeno una virgola della mia lingua, ma ragionasse solo in inglese, come mi ritroverei io, vecchio residuato meneghino? Perché, per quanto riguarda certe esigenze esistenziali, forse riuscirei a cavarmela, ma per certe altre cose, che magari per molti sono baggianate e invece per il sottoscritto sono importanti, come potrei rimediare?
E a questo riguardo voglio farvi una confidenza; ma mi raccomando, che resti tra di noi.
Molto tempo fa, avevo scritto quattro versi in lingua meneghina -dedicati a una persona a me cara, che pur avendo grandi qualità, aveva timidezza nell’esprimersi, e quando eravamo in compagnia di altre persone, quel suo carattere la faceva rimanere un po’ in ombra-. Recitavano così:

Certi volt te pàret una stella                                   
che per timòr de veggh                                    
una lüs minga troppa bella                                     
la resta lì, tütta smorzada                                     
in un cantòn del ciel                                              
come una lampadina fülminada.                         
E pensà che nel me firmament                  
la tua lüs l’è püssee ciara                                      
del stellòn* d’agòst, sbarlüsent.              

* solleone

Io, vocabolario alla mano, ci ho provato a tradurla in inglese, ma credetemi, è venuta fuori una roba indicibile, che manco vale la pena di trascrivere qui! E inoltre, come potrei sostituire quel: “Te see el mè stellìn d’or” che dico alla mia nipotina Gemma, con: “You are my small gold star”?
A proposito di Gemma, voglio raccontarvi di quando le venne la passione del violino.
Mia figlia Monica (la mamma di Gemma) venne con la bimba a passare due giorni di vacanza nella mia casa sul lago. Gemma arrivò eccitatissima, perché voleva che farmi sentire i suoi progressi nel suonare il flauto. La bimba aveva fatto tutto da sola, perché alla scuola elementare non le insegnano alcunché di musica, né teorica né pratica. Si era fatta comprare dalla mamma un flauto di plastica -quelli economici- e in quattro e quattr’otto aveva imparato a suonarlo a orecchio.
Io, entusiasmato da queste sue doti musicali, le avevo regalato degli elementari testi per flauto, su cui iniziare i primi studi. E quando era venuta a trovarmi, ero rimasto allibito nello scoprire con quanta bravura aveva imparato a leggere la musica, e suonarla!  “Nonno, perché non prendi fuori il tuo violino e suoniamo qualcosa insieme?” disse la bimba, dopo le sue esibizioni col flauto. Un fulmine a ciel sereno! Perché dopo le mie sventurate esperienze musicali, quel violino giaceva da tempo immemore sepolto dentro la sua bara -pardon, custodia-. E fu solo per il mio grande amore per Gemma, che lo feci resuscitare.
Sorvolerò sulla mia performance violinistica, che, al confronto di quella flautistica della mia nipotina, definirò patetica. Però successe che Gemma fu colta (come me tanti anni prima) da attrazione fatale per quello strumento. Trascorse quei due giorni di vacanza strimpellando il violino. E allora e le promisi che per il suo compleanno, di lì a un mese, gliene avrei regalato uno. Non vi dico l’eccitazione di Gemma a quella promessa! Non stava più nella pelle. E io ero così felice, che le avrei dato subito il mio violino, ma per lei era troppo grande.
Quando, poco più di un mese dopo, Monica e Gemma tornarono a trovarmi, io portai la bambina in un negozio di strumenti musicali e scegliemmo il suo violino. Poi le diedi i miei testi di studio, il leggìo pieghevole e cercai di insegnarle i basilari rudimenti per affrontare quel difficile strumento.
“Mi raccomando, stellìn d’or, impara bene!” le dissi quando partirono. Poi, mia figlia Monica le trovò una maestra di violino, e Gemma iniziò con le lezioni. E arriviamo a fine novembre, alla prima esibizione pubblica di Gemma. Premetto che io non sono una persona che ama festeggiare il proprio compleanno; questa ricorrenza mi fa solo ricordare che sto diventando un vecchio fossile.
Però quell’anno ero arrivato ai settanta, e con la pressione di amici e parenti, che dicevano che i settanta non possono passare in cavalleria, prenotai una cena in un ristorantino vicino a casa, dove ero in rapporti amichevoli coi titolari. E queste care persone, quella sera avevano riservato l’intera sala solo per noi, una dozzina di persone. Come da prassi, l’ultima portata fu la torta, e non dovetti sfiaccare i polmoni a spegnere le candeline, perché ce n’era solo una col numero 70.

E come ciliegina sulla torta, l’esibizione della mia piccola nipote violinista. Memorabile!
Il mese dopo, festeggiavamo il Natale a casa di mia figlia Monica, e Gemma mi chiese di portarmi appresso il violino. “Ma per te è ancora troppo grande, stellìn” le dissi. “No nonnino, è per te! Suoniamo una musica insieme”. “Non ci penso affatto, non so più nemmeno tenere in mano l’archetto!”. Ma per amore del mio stellin d’or, arrivai a casa loro col violino.
E dopo il pranzo, successe questo:
Entrano in scena i due virtuosi. Applauso di incoraggiamento da parte dei commensali. Si udì anche qualche risatina (indovinate voi per chi…). Il vecchio violinista annuncia il titolo del brano: Carovana nel deserto (Sonata per sole corde vuote di Alberto Curci). Poi appoggia il violino tra spalla e mento e porta l’archetto in posizione. Contemporaneamente a lui, la giovane virtuosa esegue le medesime operazioni. Un attimo di concentrazione, silenzio in sala, un due tre quattro e inizia la musica.
La bimba parte decisa e con scioltezza, mentre il vecchio procede impacciato.
Poi il fossile perde per strada le note e non procede nemmeno più. “Ma nonno!” sussurra la giovane violinista, con tono di amorevole rimprovero. “Vai avanti da sola stellìn, perché non riesco più a leggere lo spartito” si giustifica il fossile. Quindi, la giovane virtuosa procede spedita fino alla fine del brano, raccogliendo tutti per sé i calorosi applausi del pubblico presente. E nessuno si accorge che il vecchio violinista faticava a leggere lo spartito a causa di due lucciconi che gli velavano gli occhi, per la commozione di suonare insieme al suo stellìn d’or.

P.S. Gemma è cresciuta al punto di poter
suonare un violino normale.
Indovinate quale…

 

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