di Sergio Scuffi
Nei tempi passati la castagna rappresentava uno degli alimenti fondamentali, largamente utilizzato sia per le persone, sia per gli animali. Si può quindi immaginare con quale attenzione si scegliessero le piante e si procedesse a collocarle nel castagneto praticando degli innesti a regola d’arte sulle piante selvatiche, per ottenere le numerose varietà, che in passato tutti sapevano distinguere e riconoscere a colpo d’occhio: lüíin, narr, maróon, barücéna, piatéra, ulparténa.
Altrettanto imponenti ed accurati erano i lavori tesi a consolidare il terreno del castagneto, con la costruzione di incredibili muraglie a secco (ancora oggi visibili in molte parti delle nostre pendici di mezza costa, sia pure abbandonate ed irrimediabilmente votate al degrado). Per queste opere veniva utilizzato il pietrame rinvenuto sul posto, non esclusi enormi macigni, che si stenta a credere potessero essere smossi con la sola forza delle braccia.
Si otteneva così una serie di terrazzamenti, non dissimili da quelli che, ancora, si possono ammirare nei vigneti della vicina Valtellina o, per rimanere da noi, sulle pendici che sovrastano Chiavenna, verso Pianazzola. Non venivano trascurati nemmeno i castagni isolati, magari in mezzo alle balze rocciose: anch’essi sostenuti dal loro bravo muro a secco.
Il castagneto (bisognerebbe dire i castagneti, data la quantità di piccoli appezzamenti posseduti da ciascuna famiglia, in modo non dissimile da quanto succedeva anche per campi e prati, in conseguenza della consuetudine di suddividere l’eredità fra i vari figli) veniva tenuto sotto osservazione già dalla fioritura, e durante tutta l’estate, nel tentativo di indovinare la quantità e la qualità del raccolto.
Si procedeva, nel contempo, a posizionare sulle pendici una serie di barriere fatte di frasche, per trattenere le castagne che sarebbero cadute al momento della maturazione. Ciò al fine di evitare che, rotolando verso il basso, “sconfinassero”, andando a finire nel terreno altrui o su strade e sentieri, e facendo venir meno, automaticamente, il diritto di proprietà: tradizionalmente, infatti, il frutto caduto non appartiene al proprietario della pianta, ma del terreno (e, se sulla strada, è di tutti).
Il raccolto iniziava in ottobre con la prima caduta e proseguiva fino ad autunno inoltrato: impegnava tutta la famiglia in lunghissime e faticose giornate che provocavano mal di schiena tremendi, svariate punture alle mani causate dai ricci che si accumulavano anche in strati di un certo spessore e che dovevano essere aperti uno alla volta, aiutandosi con un bastoncino o un coltello; il tutto avveniva, spesso, in giornate fredde e umide, costringendo a lavorare con le mani intirizzite.
Le brevi soste, compresa quella per un frugale pranzo, erano confortate da un fuoco che riscaldava momentaneamente, prima di riprendere quello che, specialmente per i bambini, era un lavoro noioso ma inevitabile.
La sera si rientrava ciascuno con il proprio carico, anche notevole, sulle spalle. Parte del raccolto veniva consumato già nel periodo autunnale, lessando le castagne che venivano chiamate farü o belegòtt, e che si mangiavano durante le serate, anche per accompagnare lavori domestici quali la “sfogliatura” delle pannocchie di granoturco. Una cottura particolarmente prelibata era quella delle castagne bruciate, mundée, che avveniva sul fuoco vivo, utilizzando la padèla dal mundée, un apposito recipiente con il fondo costituito da listelli di ferro, appeso alla catena e debitamente agitato per rimescolare il tutto ottenendo una cottura (meglio bruciatura!) uniforme.
Le castagne così preparate, ripulite dal guscio annerito e bruciacchiato, venivano consumate anche a distanza di qualche giorno, magari dai pastorelli che accompagnavano le mucche nel “piano” per sfruttare l’ultima possibilità di pascolo. Quelle meno pregiate venivano destinate all’alimentazione dei maiali posti all’ingrasso.
La parte maggiore, tuttavia, veniva sistemata in una apposita cascina, destinata all’essiccazione.
Le castagne venivano posate sopra un pavimento a forma di graticcio, composto da tanti listelli affiancati e intervallati da un sottile spazio, tale da non far cadere le castagne ma che permetteva al fumo ed al calore di un fuoco acceso nel rustico focolare della cascina sottostante di compiere lentamente la loro opera. Per alcune settimane qualcuno si occupava dell’accensione ed alimentazione del fuoco, curando che non si sviluppasse una fiamma viva, mentre doveva provocare una notevole quantità di fumo: si utilizzava, pertanto, legna non del tutto secca (frasche, ginestre, fogliame umido, segatura).
Il risultato, ancora oggi visibile, oltre a quello dell’essiccazione, era un abbondante strato di calígia, fuliggine che anneriva completamente gli ambienti in questione (non c’era canna fumaria).
Completata questa operazione, occorreva “pestare” le castagne ormai seccate per liberarle dal guscio e renderle, quindi, disponibili per i vari usi che se ne facevano nella tradizionale alimentazione.
Vi si provvedeva inserendone una certa quantità in un robusto sacco di canapa stretto ed allungato come un budello, che veniva battuto per un numero ben definito di volte (circa 30), con precisi movimenti frutto di una lunga consuetudine, sopra un ceppo o una lastra di pietra, che occorreva mantenere costantemente inumiditi.
Al termine, il tutto veniva versato nel vaglio che, abilmente manovrato dalle donne, separava le castagne dalle impurità costituite dai residui del guscio che, nell’operazione della “pestatura”, si era frantumato.
Si provvedeva, infine, ad una ulteriore cernita manuale, che serviva sia ad eliminare gli ultimi residui, sia a separare le castagne integre da quelle che presentavano qualche difetto: queste ultime destinate all’alimentazione delle bestie, specialmente dei maiali.
L’operazione impegnava, per una o più giornate, a seconda della consistenza della raccolta, tutta la famiglia: gli uomini a pestare, le donne a vagliare, i bambini alla cernita, e si concludeva con più o meno soddisfazione, a seconda del numero di sacchi riempiti. La conservazione avveniva con la semplice stivatura all’interno dei tradizionali contenitori in legno.
Per quanto riguarda il consumo, una parte (quelle piccole, o frantumate) finiva al mulino per ottenerne una particolare farina, dal sapore dolce, denominata farína de farciámm, che veniva mescolata sia alla farina gialla di mais per farne una polenta particolare, sia alla farina bianca per preparare diversi tipi di minestre o anche semplici dolci. Il resto subiva diversi tipi di cottura, divenendo un ingrediente quasi costante di numerose cene a base di minestra, oppure finiva in grandi piatti di legno abbondantemente annegato nel latte. Chi aveva buoni denti, aggrediva direttamente le castagne secche, durissime ma particolarmente dolci, tanto che qualcuno le definiva le caramelle dei poveri, ma particolarmente indigeste se ingerite in quantità, tanto da provocare dei forti dolori di ventre.
Filastrocca: (parlano le castagne)
“üna la díis: and mm;
üna la díis: špec mm;
l’ ltra la díis: in t ra se truar mm”
(una dice: andiamo; l’altra: aspettatemi; l’ultima: ci ritroveremo tutte per terra).
Immagini estrapolate dal libro
Nü’n cuštümáva
su gentile concessione dell’autore
IDEVV – ISTITUTO DI DIALETTOLOGIA E DI ETNOGRAFIA VALTELLINESE E VALCHIAVENNASCA
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